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ATTILIO PORTIGLI
LE
OPERE MACCHERONICHE
DI
MERLIN COCA.I
VOLUME TERZO.
MANTOVA
DITTA EDITRICB O. HONDOVI
1889.
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DEL mZO fOllE
DELLE OPERE MACCHERONICHE
DEL
FOLENGO
DELL' ORLANDINO.
I.
1. La pubblicazione AeW Orlandino e del Caos. ^ 2. Ragione ed im-
portanza della pubblicazione.
1. Sino dal 1882, allorché si pubblicarono i due
primi volumi delle Opere Maccheroniche del Folengo, *)
ho accennato alla probabilità della stampa deìVOrlandino
e del Caos — pag. cui della Prefazione, — ed ora gli
egregi editori vengono a mantenere questa mia e loro
mezza promessa.
Queste due Opere quindi sono ora stampate cogli
stessi tipi delle altre e compongono il terzo volume delle
Opere Maccheroniche del nostro grande poeta.
2. Comprendo anche V Orlandino ed il Caos fra le
Opere Maccheroniche del Folengo, perchè se non lo sono
1) Le opere Maccheroniche di Merlin Cocai. — Mantova, tip. Mon-
dovi 1882-83.
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— IV —
in quanto alla forma, lo sono però nel concetto, VOrlan-
dina in modo particolare.
Non è possibile il fare un confronto tra le Opere
Maccheroniche propriamente dette e queste due, perchè
oltrecchè per la forma non hanno tra loro alcun rapporto
negli intenti. H Folengo nello scrivere le ultime due
fu mosso da cagioni e ragioni affatto diverse, le quali
scaturivano direttamente dalle condizioni speciali in cui
si trova nel terzo de€iennio del secolo XVI.
E nemmeno T importanza loro è in egual grado,
poiché le prime sono un vero monumento letterario sui
generisj avente uno scopo ed un concetto generale, che
fanno del loro autore una individualità specialissima, in-
nimitabile ed insuperabile e dirò anche imperitura, mentre
le seconde hanno uno scopo e concetto affatto ristretti
ed individuali, e la loro importanza letteraria è del tutto
mediocre, in maniera che da esse, il Folengo, e per esse
non avrebbe avuta alcuna buona reputazione di poeta
e di letterato.
La importanza loro sta esclusivamente in ciò, che
ci rappresentano, nel loro complesso, un periodo impor-
taute, l'avventuroso, della vita del Folengo, e separata-
mente, due momenti diversi di questo stesso periodo,
èioè l'aberrazione e la resipiscenza. E come tali ci sono
grandemente utili allo studio psicologico, dirò così, del
poeta, il quale, non tanto per le vicende della sua vita,
quanto per le evoluzioni sue filosofiche e religiose ci ap-
pare un vero e genuino tipo di quella pleiade di igegni
e di dotti italiani del rinascimento, i quali erano un misto
di cristiano e di pagano, di religiosità e di ateismo, di
fede e di indipendenza intellettuale ^).
1) Per r Italia e per gii Italiani del Rinascimento il principio del
libero esame, non è una invenzione di Lutero, al pari che noi non ave-
vamo, punto bisogno, nel secolo scorso della importazione francese dei
così detti principi dell' 89.
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— T —
h^ Orlandino quindi venne composto, e di conse-
guanza anche stampato, prima del Caos. Ed io nel ri-:
produrre queste due operette, che si ponno dire le opera
miinori del Folengo, mantengo la loro successione cro-
nologica e morale, e quindi VOrlandino precede il C(mos^
ed assieme compongono il volume.
II.
L' ORLANDINO.
1. n soggetto del poemetto. — 2. E quando perchè il Folengo lo
compose. ^ 3. Dell' invenzione, dello stile e della lingua.
1. Quanto sono per dire^ in questa prefazione, e
che non concorda esattamente con ciò che dissi in quella
premessa ai primi due volumi, è il frutto di studi ed
inds^i fatti posteriormente sul Folengo. E di ciò non
è da farsi alcun caso, perchè il concetto che mi dono
fatto intomo alla vita del Folengo, allorché dettai il
primo studio, si fu quello che non se ne sapesse nulla,
e che tutto fosse incei*to, persino quelle vicende che si
davano per le più sicure ').
U Orlandino^ poemetto eroicomico, in ottava rima,
diviso in otto canti, o capitoli, narra le vicende della
nascita e della giovinezza di Orlando.
Il tema, non era stato, e non lo fu poi, trattato da
alcun altro. E sehbene egli dica di avere preso il rac-
conto dal libro di Turpino, però esso è totalmente di sua
invenzione.
2. Ci manca qualunque notizia positiva per deter-
minare r anno in cui fu scritto il poemetto ; conviene
i
1) Vedi quaHto scriasi a pag. XXXV, XLUl e altrove della prima
prefti^lone.
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— VI —
quindi anche su di questo punto andare a tentoni ; ma,
ciononstante, siamo sicuri che non fa fatto né prima
del 1525 né dopo il 1526.
Se badiamo al testo preciso di due versi che si leg-
gono nel capitolo 2*, nella stanza III dell' edizione di
Rimini del 1527, che riguardano la battaglia di Pavia,
parerebbe che si dovesse attribuirlo al 1525; poco dopo
la battaglia, poiché dicono *).
Gode 7 Spagnolo, che sotto Pavia
Fatt' ha pfHgion di Pranza sì aito roy.
Mentre una leggera ma significante modificazione,
introdotta nella edizione veneta del Sabbio, ci lascia in-
tendere che spetti ad una data lontana alquanto dal me-
morando fatto. Si leggono infatti cosi :
Godea 7 Spagnolo, che sotto Paria
Atea fatto prigion di Pranza et voy.
Ma la data della dimanda del Garanta e del privi-
legio,* 3 Novembre 1526 ci indica che non si varca que-
sto anno 1526, perchè in questa epoca il libro doveva
essere composto, perchè si principiasse a stampare.
2. Un' altra questione da risolvere è quella delle ca-
gioni che indussero il Folengo a scrivere un poemetto
in versi italiani, dopo di avere scritto, e con molta for-
tuna, i suoi lavori maccheronici.
Un cenno ce lo dà lui stesso nel primo esametro
dei due distici latini che ha esposti sul frontespizio della
1) Non mi è stato possibile di avere la edizione Sonciiiiana di Ri-
mini. Devo questa, notizia alla cortesia del eh. sig. prof. Vittorio Rossi,
da lettera cha scrisse al prof. A. Lazio il 23 dciru. s. Dicembre. Ringrazio
Tuno e Taltro,
f
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— VII —
edizione Garanta, che si leggono anche sulle Bindoniane,
Il verso dice:
ji Mensibus istud opus trìbus indignatio fedU
. Quale indignazione e da che prodotta? Credo che
se ne abbia la spiegazione nelle stanze VI - XTT del
primo Capitolo, nelle quali sfoga un violentissimo sdegno
contro alcuni; fra i quali, tiene il primo posto un tosco
chiacchiarone^ rei di avergli fatte delle censure. E coteste
censure non potevano avere di mira che le Opere Mac-
cheroniche.
Ei naturale che esse non avessero incontrato il fa-
vore di tutti i dotti e specialmente dei puristi, fra i cul-
tori della letteratura classica, i quali le avranno considerate
uno scempio indegno della lingua di Virgilio. E proba-
bilmente costoro avranno anche asserito che egli non
fosse capace che di fare versi maccheronici.
Di qui le ire, e le invettive succitate e le altre che
si trovano nel Caos^ ed il proposito di fare, come fece,
un poema in versi eroici italiani per smentire le calunnie.
NeirOWandmo però tace i nomi dei suoi dettrattori,
ma li nomina nel Caos^ e costoro sarebbero, un Seba-
stiano fiorentino, che sarebbe il tosco chiacchiarone^ ed
Alberto da Carpi, non si sa bene se il medico e filosofo
celebre: parerebbe di no, poiché, la lettera che si legge
in fine del Caos è diretta — Ad un altro Alberto da
Carpi di tal nome indegno.
Nella seconda terzina del sonetto premesso all' Or-
landino vi è un'invettiva, contro Pietro Durante da Gualdo,
autore del romanzo, La Leandra^ invettiva acerba, che
ben due volte espresse anche nel Baldo^ ma specialmente
nella Maccheronica XXV, p. 207 e seg. dove ci fa co-
noscere anche le cagioni dello sdegno suo
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1
— vni —
qui dum cecinisse Leandram
Se jactat, doctis sheffatur ubigtie poetis,
fra 1 quali poeti sbefFati sarà, non v' ha dubbio, anche
i\ Fol^ngp.
Ma le critiche del Durante non poxmo avere avuto
di mira che le Maccheroniche del 1517, non le edizioni
posteriori, e nemmeno V Orlandino ed il Cao^^ essendo di
queste e quelle opere, anteriori,
ISi lo sdegno del Folengo contro i suoi detrattori
fu così potente che gli fece comporre il poemetto in tre
mesi, dice neiresametro suriportato, o ih due mesi, come fa
dire alla madre Paola nel Dialogo ddh tre etadi pag. 5.
Intorno al quesito della stampa ^éXOrlandÌ7io le in-
certezze noli sono minori.
Kel Dialogo^ pag, 5^ pone in bocca alla nipote Co-
rona che nel tempo eh^ lo componeva eragli rubato dagli
Ì79hjpressQri.
Di ciò, come so^un^o nella nota 2^, pag. 5, non si
ha prova di sorta. Non potrebbero darcela che numerose
edizioni del 1526, che sono le più antiche, ma queste
noh ce la danno, poiché di queir anno non vi è che
quella di Sabbio e quella del de Gregori.
Quella di Rimini porta la data del Dicembre 1527,
che però potrebbesi considerare contemporanea alle pre-
cedenti, ma anche così, il numero degli stampatori si
riduce a tre, e difficilmente giustifica la frase pomposa
anzidetta.
Dopo queste edizioni si hanno quelle del Da Sessa
del 1530 e del 1535 etc. che non entrano nel novero
delle prime. E qui si presenta un' altra quistione, cioè
quale delle due edizioni, non ostante la loro data, sia
da considerarsi la prima, la Sabbio, la Soncini,
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— K —
Due forti ai^omenti ci inducono a ritenere la Son-
GUdi la prima edizione.
Il primo lo si trae dal fatto che la edizione Soncini
manca dell' episodio delV abate Grìfarosto, e delF ottavo
capitolo, ed il 7*^ è composto delle prime 66 ottave del 7^
cap. e delle ultime otto, 86-93 delF ottavo dell' edizione
veneta, mancando cosi anche delle ultime quattro del 7^ ca-
pitolo di questa edizione.
Non contiene del pari V Apologia delFautore, posta in
fine deir edizione Sabbio. Manca ancora della stanza 31
del 1^ Capitolo, della 65 del terzo, le due ultime del
quarto, Ia 60 del quinto ^).
H secondo argomento, lo si ha nella dimanda di
privilegio del Goranta, là dove dice che YOrlandifw che
egli vuole stampare è con la giunta.
Se ciò non ci fa intendere che ce ne fosse uno già
finito di stampare privo della giunta^ intendiamo che ne
esisteva uno non compiuto e già ceduto e consegnato ad
altro tipografo, in confronto del quale metteva il suo.
\!Orlandm/(f incompleto non può essere che il Son-
cimano, il quale per ciò è da ritenersi precedente all'altro
del Sabbio.
Se lo si vuole, un altro argomento di cotesta prcT
cedenza ci è fornito dal diverso tenore dei due versi su
riportati, riguardanti la battaglia di Pavia.
3. Se nella scelta del soggetto, andando a pescai*lo
fra le leggende della Tavola rotonda francese, non ha
fatto altro che seguire Y esempio dei poeti che X hanno
preceduto, dal Boiardo all'Ariosto, non è per nulla am-
missibile che siasi inteso di emularli in qualsiasi maniera,
in quella guisa che nessuna ambizione di emulare Vii*-
gilio gli fece scrivere in lingua e stile maccheronico.
1) Le notizie precise che ne ho date le trassi dalla lettera precitata
del prof. Rossi.
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S^'-
— X —
, Come ho detto, se ciò egli non ebbe di mira che di ri-
spondere alle censure, più o meno ragionevoli, delle sue
composizioni maccheroniche, e di provare che, come in
quelle, cosi nella versificazione italiana era egualmente
potente, i propositi del Folengo fiirono assai modesti e
come li abbia raggiunti deve dirlo la critica ragionevole
e spassionata.
Tutto il racconto, e le circostanze e i fatti che lo
intrecciano e lo compongono non escono dalla comune
f^ . dei racconti favolosi, delle fiabe popolari. Talune circostanze
|ion sono nuove, ed alcuni fatti sono contrari alla storia.
Il poemetto è diviso in otto canti o capitoli, con un
nonetto di prefazione, il di .cui senso è un enigma, ed
una dedica al Federico II Gonzaga, marchese di Mantova.
Nel primo capitolo, premessa una invocazione bur-
lesca, 0 meglio dirò maccheronica, trattandosi del Fo-
lengo, al principe di Mantova, esce coli' invettiva contro
i suoi detrattori. Ci dice poscia la fonte dalla quale trasse
il soggetto e la materia del poema, segue la descrizione
della corte di Carlo Magno, dopo di che entra in materia
^ - . col narrarci come Berta, sorella di Carlo Magno, siasi
innamorata di Milone, e la dimanda di costei al fratello
che sia fatta una giostra, sperando che il suo paladino
ne resti vincitore.
^ — Nel secondo capitolo è narrata una giostra burlesca
j fra i paladini stranamente camuffati, degna det genio
à^l Folengo, mentre nel terzo segue la giostra vera,
quale ce la danno tutti i poeti che descrissero sifatti
spettacoli, della quale Milone rimane il trionfatore.
Nel quarto, si ha un pranzo ed un ballo imperiali,
ed ili ^^^ incontrandosi Milona con-^Béi-ta, si innamora
. di lei, eoQViv pmm la era di lui. Ma durante il ballo Berta
riesce ad aveice Biella propria stanza Milone, onde poi ne
k viene Orlandino.
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— XI
Nel quinto capitolo dòpo di avere narrati alcuni
episodi prodotti dalle gare e dalle discordie dei baroni,
racconta la fuga dei due amanti, le loro avventure alla
spiaggia del mare, fra le quali vi è un graziosissimo
idillio con un povero pescatore.
Nel sesto i due fuggiaschi si imbarcano su di un
legno in un porto della Francia, e sul mare incontrano
avventure tali che ne vengono separati, ed in fine chi
da una parte chi dair altra sono gettati sulle coste
d'Italia, e Berta dopo di avere peregrinato per la Lom-
bardia e per la Toscana giugno a Sutri, dove un pastoie
r accoglie nella propria capanna, e Milone transitando
l'Appennino, vi raccoglie gran gente che trova rifugiata
nelle grotte,
E come qui Milone capitando
Trovò sotto Appennino entro le grotte
Un popol infinito
Stanza LUI.
se lo trae seco e giunto — In un vallone cTlsuhria —
St LIV, vi si ferma e fabbrica una grande città, che
dal suo nome è chiamata Milano.
Cotesta origine di Milano, è chiaro, che è macche-
ronica, ma non è maccheronica l'asserzione che ai tempi
di re Desiderio, un popolo infinito, T italiano oppresso
dai Longobardi, se ne vivesse miseramente in grotte e
capanne. Lo disse anche il Manzoni in quei versi che
tutti sanno a memoria :
Dagli atrii muscosi dai fori cadenti^
Dai boschi^ dall'arse officine stridenti^
Dai solchi bagnati da servo sitdor^
Un vulgo disperso ' ecc.
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— XII —
Io non 80 bene se il Folengo, conscio del vero, abbia
-i saputo e voluto dire una grande verità storica, oppure
f abbia creduto invece, di dire una grande stramberia atta
a far ridere. Io sto per la seconda ipotesi* Se il Folengo
avesse saputo che quello che asseriva da burla non era
che una verità storica, il fatto che ora noi tutti cono-
sciamo, non r avrebbe detto. Nella sua mente il popolo
infinito che se ne viveva nella caverna delP Appennino
era né più né meno che una panzana, quanto lo era, e lo
sapeva che lo era, la fondazione e Torigine del nome della
capitale lombarda.
Nel settimo capitolo, dimorando Berta nella capanna
W ' del pastore sutrino, dà alla luce VOrlandino^ il quale sino
dai primi anni fa un mondo di diavolerie coi ragazzi del
contado, ritornandosene spesso, alla sera, presso la madre
colla testa rotta, il corpo ammaccato, che cagionano tanti
affanni alla madre infelice.
Chiudesi il capitolo colla narrazione dell' avventura
di Orlandino con Oliviero, il futuro paladino, figlio di
Ranieri, un barone di Francia, governatore di Sutri, per
la quale il Ranieri viene a sapere di chi era figlio Or-
landino.
E r avventura con Oliviero è la parte che il Fo-
lengo aggiunse nella edizione veneziana sopra la ri-
i' minese.
L'ultimo capitolo contiene l'episodio dall'abate Gri-
. farosto e si chiude coU'anivo di Milone alla grotta di
Berta e colla partenza di tutte e tre per il Mar Nero,
dove combatteva Amone, col giovinetto suo figlio Ri-
naldo, e dove i due cugini fanno le loro prime prove
nelle armi.
A II fatto che è di fondamento al poema è la nascita
di Orlando da Milone e da Berta, la sorella ben amata
( di Carlo Magno.
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' F-BBr>i?T«J».jp^"'-.
— xra —
Ora tutte cotesto narraaione, dal suo principio^ sino
all'arrivo di Berte a Sutri ed al suo parto non è nuova,
n Folengo con pochissime variazioni Tha narrate per
intero nel poema maccheronico, Baldo. Baldo è figlio
di Baldovina figha del re ed ha per padre Guidpne^ al-
tro barone di Fx-ancia.
Vi è lo stesso innamoramento, colle stesse circo-
stanze, che lo fanno sorgere, di incontri fortuiti e procu-
rati,* giostre, etc., la fuga in Itelia degli amanti, e con-
seguentemente la nascita dei due bambini, i futuri croi.
Soltento nel primo caso Guidone e Baldovina viaggiano per
terra, e pedestri vengono in Lombardia, indi a Mantova,
in fine a Cipada, dove nasce Baldo, mentre neir altro,
caso Milone e Berte viaggiano per mare. Berte dopo
fortunose vicenàe ripara nella grotte del pastore di Sutri,
nella ^uale dà alla luce Orlando.
Al fatto principale, oltre agli incidenti che da es»o
direttemente scaturiscono, si aggiungono anche di estranei
affatto, quali sono le giostre, la burlesca e la seria, poi
le conteae dei baroni e i sanguinosi conflitti che accadono
in Parigi fra gli uni e gli altri, e il bando di Milone.
in tutto ciò, che arieggia lo stile eroico dell'Ariosto,
dal quale però resta molto al disotto, non vi è nulla che
sia straordinario e nuovo, tolte la giostra burlesca, che
come accennai la è una felicissima trovate del genio del
Folengo. Tutti i nostri poemi eroici sono pieni di fatti
simili.
I fatti posteriori alla nascita non meritano più dei
precedenti che se ne tenga conto. Anzi, facendo un con-
fronto fra la descrizione della fanciullezza di Baldo e
quella di Orlando, si capisce tosto che tra Funa e Taltra
avvi una grande differenza.
Quella di Baldo è più bella, più alta, più poetica.
Orlandino non è che un volgare birricchino da strada^
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— XIV —
senza che appalesi alcun nobile sentimento, tolto quello
verso la madre^ del che non si può fargli grande merito*
Mentre Baldo, anche lui animoso, ardito, batte spietata-
mente Zambello, il suo fratello di latte, combatte solo
contro tutta la ciui^ma dei ragazzi di S. Leonardo, di-
mostra una grande passione di istruirsi. Va quindi alla
scuola, e vi impara a leggere ben presto, e con avidità
irrefrenabile, entusiastica, si mette, a leggere i Reali di
Francia, e tutti i libri dei paladini di Francia, dai quali
si inspira ai grandi fatti della. sua vita virile.
Soltanto quando Orlando trovasi alla presenza di Rai-
neri, trova i sentimenti sdegnosi e degni del futuro eroe ;
ma sino a questo punto non si distingue in nulla dai
ragazzi suoi coetanei, e resta molto inferiore a Baldo.
L'episodio di Raineri, padre di Oliviero, governatore
di Sutri, è grazioso, ma il Folengo non sa trapie il
profitto che doveva, quale si è quello di farlo strumento
della ricongiunzione di Milone con Berta.
Separati per le vicende patite in mare, vivevano da
ben dieci anni senza sapere nulla Tuno e dell'altro.
Ora ammesso pure, il che però è strano, che le gesta
di Milone in Lombardia non sieno mai giunte airorecchio
di Berta, era impossibile che rimanessero ignorate a Rai-
neri, il quale appena saputo dal giovinetto Y essere suo
e quello della madre, nientemeno che la sorella del suo
imperatore, doveva correre ad ossequiarla, trarla dal tu-
gurio nel quale viveva, da tanti anni e sì poveramente,
ospitarla in casa sua, ed avvisarne Milone. Ma nulla
succede di tutto ciò. Milone invece capita a Sutri di
notte, per caso, e senza che se ne sappia la spiegazione,
va difilato alla c^ipanna di Berta. Raineri non e' entra
per nulla. Una così strana conclusione fa vedere che il
Folengo stanco del soggetto, lo strozza in così fatta ma-
niera. Era ben meglio che lasciasse da parte Y episodio
Òigitizedby Google
»i!p«jft.*W*'T
— XV —
dell'abate Grifarosto, e che compisse il racconto, con (^^
costanze uscenti direttamente dai fatti, che egli i^lmo
pone in scena, inerenti al tema.
Vi ha poi mia circostanza, che sopVà tutte pcu^rita
di essere notata, quella della nascita illeggittima sì di
Baldo, che di Orlando, e per incidenza noto anche quella
di Guidon Selvaggio.
Con ciò il Folengo non si intese di esprimere un
concetto maccheronico, o ridicolo; egli ebbe un intento
più altOi e ben determinati^ nel suo animo. Egli odiava
cordialmente i francesi, e nel Baldo qua e là ce ne ha ] |
date, le prove, ma specialmente in due luoghi nei quali J
lancia due insulti atroci ai baroni di Francia. Nell'uno '! |
dice che i bastardi che nascono dai preti di Eoma di- ;i '
ventano tutti baroni di Francia; nelF altro, parlando di -f I
Zambello che al sole di Luglio si liberava da certi in- *?, |
quilini molto molesti, esce a dire : .4
Non ne magv> quisquam contentai habere pidocchios
Quam fieri baro Francice ì *)
Che poi il Folengo mirasse ad esprimere un con-
cettò serio di infliggere un marchio degradante, infamante
ai francesi non vi è dubbio alcuno e lo si riconosce da
più parti ed in più. luoghi, come, a modo d'esempio, nei
due primi versi dell'ultima stanza del cap. 5^ :
La causa dir non voglio^ anzi m* incresse
Che tutti ornai sian figli di putana.
E una tirata d' orecchio, per le loro velleità di ori-
gine bastarda Mancese, la dà anche ai Gonzaga, nel
cap. 60 St. XXVin:
1) A. Portigli. Le Opere Macc. voi. I pag. 219.
4
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-1
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— xn —
Ma il mio Guidone infonderà Qmizaga^
Per cui sol nacque la tebana maga *).
E il Giudone, ouppocfto stipite dei Gonzaga, sa-
rebbe il Guidon Selvaggio che il Folengo fa nascere
illegittimo dalla regina Costanza e da Amone. Cap. 8
st. Lxxxvm.
Che se da un lato li fa, la più parte bastardi, dal*
Taltro tutta la baronia generosa e valorosa la fa discen-*
dere da sangue italiano, dalle^ antiche case di Roma.
Nel Baldo^ mette in bocca al barone Leonardo, Feroe
di porta S. Giorgio, che egli discenda dalla fEuniglia
Pompeja:
Cui Leonardus: Ego veruni^ mi Balde, fatèbor ;
De Pompejanis Romae, sum genttbus ortus *).
Lo fa dire anche ad Orlandino, allorché trovasi alla
presenza di Raineri, al cap. V st. LXI :
^lo san d'itaiian sangue nato.
Dì tntti i baroni poi, eccetto la casa fella di Ma-
ganza, lo dichiara nel cap. 2** st. liVlI;
Se noi boghe di vino e bottagUoni
Chiamano^ dican questo a quei di Pranza.
Perchè di Carlo e' dodeci baroni
Son, far che la sth^pe di Maganza,
Scesi da Ronia^ da quei Scipioni,
Coìmelliy Fabiij e d'altra nominanza.
1) Nell'Archivio Gonzaga vi sono parecchi documenti in pergamena,
contrafatti, che dovrebbero provare la discendenza dei Gonzaga da un ba*
stardo di Ugo di Provenza re d' Italia.
2) A. Portioli. Le Opere Ed, Voi L pag. 252.
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— XVII —
6 nella stanza seguente:
Non siamo ispani, franchi^ ne aìematmi
Non arabeschi^ nby ma taltani.
Che se in queste dichiarazioni d' italianità si volesse
vedere piuttosto un concetto maccheronico, sebbene sotto
aitilo aspetto, la satira vi sarebbe egualmente, poiché in
allora la sarebbe una millanteria tutta francese, di volere
discendere dai grandi casati romani, nonostante la certa
proveniensMi barbarica. Io ritengo però che il concetto sia
sèrio, e lo persuade, fra alti'o, la figura bella, eroica di
I^onardo, la dichiai'azione collettiva di tutti i baroni, e
quindi del fiore della nazione francese, che siano italiani
di origine, per concludere poi con quei due versi.
Se noi boghe di vino e battaglioni
Chiamano, dican questo a quei di Pranza.
Le alusioni poi, le frasi di scherno, e persino le in-
tere stanze, la II e III, del cap. 2Ì^, la XX del cap. 3^,
non sono poche. Le parole e i detti francesi, dei quali
è infiorato il testo italiano, sono tutti in senso di ironia
e di sprezzo.
Non ne cito alcun esempio^ per non andare troppo
per le lunghe, ma i casi sono molto frequenti. E in
questi il Folengo mirava anche a canzonare quegli ita-
liani che, scimiottando gli stranieri, inti'oducevano, nei
loro discorsi, come fioritura di lingua, voci e frasi fran-
cesi. E di cotah, a dire il vero, non ne mancano anche
oggi.
Del resto il vitupero dei francesi è la nota caratte-
ristica che domina nelF Orlandino^ in maniera che pare-,
rebbe doversi pensare averlo il Folengo composto non
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— XVIII
per altro che per sfogare il suo malanimo contro cotesti
invasori tracotanti dell' Italia.
L'episodio dell'abate Grrifarosto, non è che una gof-
fagine.
Egli che non lo mise nella edizione di Rimini,
perchè forse non lo avea ancora composto, lo mette nella
prima veneta del Garanta, e figura poscia in tntte le
altre che vennero dopo, compresa la presente, ma vi
figura male.
Non è necessario al racconto, né in nessuna ma-
niera ad esso legato, o dipendente. E un vero fiiori d'o-
pera, e nel medesimo tempo una stonatura.
Il Folengo non aveva nessuna ragione di introdurlo,
e lo introdusse seguendo l' impulso del suo genio mac-
cheronico, e maccheronico è infatti lo strano episodio.
Il Folengo stesso ne aveva indovinata la sconve-
nienza, le interpretazioni e i commenti che se ne sareb-
bero fatti, volendosi vedere in esso non altro che una
satira contro qualche prelato, e con ciò aveva anche
capito che, sebbene ricoverato in caso Orsini, all'ombra
della grande Orsa, dice lui, le molestie personali non
gli sarebbero mancate, percui detta quella Apologia, che
si vede per la prima volta sulla edizione sabbiana, e che
io riproduco piti avanti.
Senza dell' episodio, l'apologia era inutile, ma Y una
ha generata Taltra, la quale d'altronde, a quanto pare, fu
anche creduta poco sincera.
Come appendice dell'episodio figura la diatriba teo-
logico-giundica tra il Vescovo e Raineri.
Allorché Raineri pronunciò la sentenza contro il
corpulento abate, trovavasi presente un vescovo, il quale
sentendo Raineri, un laico, pronunciare sentenza in ma-
teria canonica, esce in una violente invettiva contro il
barone, il quale deve giustificarsi con una professione di
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— XIX
fede che puzza di luteranesimo, la quale fa scappare, per
rabbia e furore, il vescovo.
Ma le teorie espresse da Raineri, hanno un legame,
con quanto dice il Folengo in altri luoghi del poema, e
specialmente che, mette in bocca a Berta. Gap. 6, St. XL,
XLVI e questo merita un esame particolare perchè costi-
tuisce un punto dei più importanti del poema, come quello
che riguarda le condizioni morali, e di credenza, in cui
si trovava il Folengo, durante il periodo di dimora in
casa Orsini.
Nella preghiera di Berta trovansi un' invettiva contro
il mercimonio che i frati facevano delle cose sacre e
l'abuso della pietà dei fedeli. Fin qui nulla di strano e
di nuovo. Le medesime invettive si leggono nella Mac-
cheronica VII a pag. 191 e seg. le quali costituiscono
una delle pii\ belle e splendide e caratteristiche disgres-
sioni. Di nuovo vi è la tirata contro la corruzione, al
suo dire, della teologia, la quale dice che — era fatta
romana e fìandresca — alludendo evidentemente a papa
Adriano VI; contro il mercimonio delle indulgenze, la
grande accusa di Lutero contro Leone X, in quei due
versi :
Vi faccio noto non prestar mai fede
A chi indulgenze per danar concede.
Cajx 0. St. XLV.
e contro la intercessione dei santi, in quegli altri versi :
Da te ricorro^ non a Pietro, o Andrea,
Che altrui inez20 non mi fa mistero ;
Ben tengo a mente che la Cananea
Non supplicò né a Giacomo, ne a Piero, ecc.
Cap. 6. St. XLI.
esprimendo così una teoria prettamente luterana.
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XX
Non ha nessun valore, e non costituisce alcuna scusa,
r avere messo tali asserzioni in bocca a Berta, ed il ri-
conoscere che erano cariche (Teresie^ e che essa le diceva
mercè che era tedesca. È il caso di Bertoldo ohe scher-
zando si confessava.
I contemporanei del Folengo, che lessero nella prima
edizione dell' Orlandino le proposizioni luterane, non ne
portarono un giudizio diverso del mio, contro il quale
egli si difese nelF Apologia con sdegnose parole, facendo
un' ampia professione di fede cattolica, dichiarando che
non erano che uno scherzo, e che perciò le aveva messe
in bocca a gente oltramontana, dalla quale erano ve-
nute, mentre conferma la serietà- delle invettive contro i
vizii dei prelati maggiori.
La difesa ha tutta l'apparenza di non essere sincera,
perchè le invettive e le proposizioni non appartengono a
due situazioni diverse, e non provengono da circostanze
differenti, ma trovandosi espresse nella orazione di Berta,
spettano ad un momento solo, e sono dipendenti da
unica circostanza. Esse sono parti eguali ed integranti
di un tutto. Se la fosse come vuole il Folengo come
si farebbe allora a distinguere il serio dal comico? In
questo caso, o è tutto serio, o è tutto comico, ma dal
momento che non è tutto comico, e lo dice lui stesso,
noi abbiamo il diritto di ritenere che tutto sia serio,
Dall' altra parte, tre sono i punti: V invettive contro
i prelati e queste le mantiene ; il mercimonio delle in-
dulgenze, che gli ripugnava di sicuro, egli che non solo
neir Orlandino^ ma anche nel Baldo^ combatte così fie-
ramente il mercimonio del culto ; e la intercessione dei
santi. Contro di essa vi era già una opinione molto dif-
fusa in Italia, che meraviglia adunque se il Folengo la
condivideva, egli cotanto infatuato a combattere ciò che
chiama la superstizia ?
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— XXI
Io credo che il Folengo abbia scritta l'Apologia, non
per difendersi da accuse false, ma piuttosto perchè spa-
ventato dal fracasso che aveva suscitato, il quale proba-
bilmente doveva avere un eco anche in casa Orsini.
La parlata di Raineri al vescovo riguarda il tema
prediletto del Folengo, la superbia e la scostumatezza
dei chierici. Anche se la professione di fede fosse orto-
dossa, gli era vietato stigmatizzare i vizii e la corruttela
dei frati e dei prelati.
Ciò che vi ha di grave in tale incidente non sta
nelle cose dette, ma nell'averle messe in bocca ad un laico,
e prima ancora, averlo fatto parlare di diritto canonico,
e di cose attinenti la disciplina ecclesiastica, nelFavergli
fatto pronunciare sentenza per la quale il cuoco del con-
vento doveva prenderq il posto dell' abate, e questi del
cuoco. Questo intervento dei laici in faccende ecclesiastiche
era severamente vietato dal diritto canonico, e noi cono-
sciamo già le grandi contese che ci sono sempre state fra
la potestà laica e l'ecclesiastica, E il Folengo stesso, dotto
e scaltro, come era, ne espone la dotti-ina nelle stanze
XXXTTT e XXXIV. Ma ciò nonostante fa - agire e par-
lare Raineri, come abbiamo veduto, ed il vescovo pre-
sente, scandalizzato dalla temerità del laico, se ne scappa,
fortemente sdegnato.
Con ciò il Folengo fa intendere che egli propendeva
per la teoria anticanonica dell' intervento . dell' autorità
laica nelle cose ecclesiastiche, il che era peggio che
un'eresia.
Nel Baldo non vi è nulla di simile.
Il Folengo poi eccede anche in altra parte, scjbbene
per due volte soltanto. Sia che fosse invidioso degli al-
lori dall'Ariosto, sia che si lasciasse vincere dall' ardente
suo carattere, non più frenato da alcuna legge, di certo
assecondando le tendenze licenziose de' tempi suoi, nelle
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XXII
stanze XXXIX, XL del cap. 2^ e nella XXXIX del
cap. 6*^, con due descrizioni scurili esce da quel confine
di licenziosità che nel Baldo non aveva mai varcato. E
forse sono stati questi due casi che hanno fatta sorgere
l'opinione erronea che le sue opere siano immorali.
4. Questo argomento non lo si può trattare, riguardo
all'Orlandino, che con un metodo affatto speciale, che non
occorre in alcun'altro lavoro, sia in prosa, che in poesia.
Esso ha un carattere e forme, dirò così, proprie,
e quindi per giudicarlo convenientemente è necessario
tenere conto del suo carattere e considerarlo dal punto di
vista di ciascuna forma.
Il concetto e le forme si connettano perfettamente,
e queste ci rappresentano quello con tutta fedeltà. E sic-
come il concetto è triplo così tripla è la forma.
Si ha il concetto serio, il satirico, ed il macche-
ronico.
Questo dipende dal genio del Folengo, gli altri due
dalle circostanze speciali in cui sì trovava allorché lo
scrisse.
Una tale divisione toglie al poema la unità lette-
raiia, lo priva di conseguenza di quella dote che ogni
lavoro deir ingegno umano deve avere, Y unità del con-
cetto e quella della forma, ma nel medesimo tempo
gliene dà un'altra tutta sua e caratteristica, che scatu-
risce da una tale varietà, che essa solo possiede fra tanti
lavori letterarii in prosa ed in verso, che per ciò resta
unico nel suo genere, un tipo, non immitabile di certo,
ma un tipo.
E queste diverse forme legate e strette dallo svol-
gimento del fatto principale, non rendono difficile la let-
tm-a del poema, che anzi la fanno piii facile, e diver-
tente, appai'endo tanti episodii ameni della leggenda,
amena pur essa.
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XXIII —
Di ciò il Folengo stesso ne dk avviso al lettore
nella stanza XVI del cap. 1,
Sol cTOrlandin io canto ^ e non di meno
Quando Turpino divertisce altrove^
De V ordinario suo non in^ alieno.
Nel Gao8 si riscontra la stessa tripartizione di stile,
con questa differenza che la parte maccheronica è tal-
volta vestita della splendida veste del Baldo.
Nel numero precedente ho accennato sommariamente
a coieste tre parti nei riguardi del concetto, e ne esa-
minai anche i brani principali, e l'esame non fu dif-
ficile.
Ma ancora pi fi facile si è quello dello stile e della
lingua. 11 Folengo sa dare a ciascuna parte una im-
pronta cosi spiccata, per la quale non si può esitar nel
giudizio.
Come ho accennato, principia il poema con una in-
vocazione, schiettamente maccheronica in tutto degna del
trippifero poeta, non alla musa, ma al signore di Man-
tova. Federico II Gonzaga, la quale fa suppon-e, che tale
debba essere anche tutto il poema, il che non è, e che
conclude dicendo al principe :
Dà fiato alla piva^ o poco^ o assai^ .
Fiato di ciance nò: /ma intendi bene^
Mangion e bevon anco la Camene,
Cap. 1 st. HI.
In due versi della stessa stanza vi è uno scherzo
poco felice sul nome di Boezio, e Tho di già rilevato
nella nota 2 dell'Orlandino.
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XXIV —
; Boezio da trentanni sul tagliet^e
Mi dà sempre instor ....*)
ì^ Questa invocazione è la pai-te più maccheronica di
: tutte le altre che sono nel poemetto, ma anche la meno
bella, la meno opportuna, sia per il personaggio al quale
è diretta, sia perchè disforme dal tenore del poema
stesso.
?' Di questa dissonanza di stile il Folengo ne fece di
altre, come, in molti luoghi dei rifacimenti del Baldo,
\:: che ci danno V edizione Cipadense del 1530, la Vari-
sco 1561, l'anonima del 1552, nei quali indamo si cerca
la freschezza, la leggerezza, e l'armonia dell'assieme che
si hanno nella toscolana del 1521.
L' episodio di Grifarosto così pieno di lardo e di
grassume e di vino, tanto da fare apparire il protago-
• nista, da una parte un Sileno, dall'altra un Bacco, entra
pur esso nel novero.
La giostra burlesca, perfetta in tutte le sue parti,
non patisce che l'eccezione che ho di già rilevata.
Perfettamente aimQnica, e bella anche, è Torigine del
nome Orlando.
Neir istante della sua nascita, una mandi-a di lupi
esce dalle selve vicine a Sutri, i quali :
andavano dintorno forte urlando^
Onde per nome poi fu detto Orlando
(Cad. 7. Voi. X
1) In questo scherzo sul nome di Boezio vi è for^e una allusione
t alla azione che Dante nel cap. XVI del Corvitto, attribuisce a Boezio
(^ nella sua educazione letteraria, volendo dire il Folengo, nel suo concetto
maccheronico, a Dante sta bene il Boezio filosofo, a me quel Boezio, che
viene da bue, il quale lautamente mi pasce da trent*anni
Mi.-
I
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Go jgle
— XXV
Un grazioso idillio maccheronico è nella stanza se-
guente, nella quale è descritta la commozione di tutta
la natura, alla nascita di Orlando.
Non dissimile è l'orìgine di Milano, della quale dissi
più su, che principia con quel verso, piena di tanta
ironia:
E come qui Milone capitando^
Lascio, per amore di brevità, tanti altri esempii non
meno belli di questi che ho citati.
Le altre due parti invece, la satirica e la seria,
corrono piane ed armoniche, prive quindi della disso-
nanza^ che si verifica nella maccheronica.
Neir una la nota del sarcasmo, nell'altra quella dello
sdegno si fanno sentire alte, sonore, sempre in un tono
conveniente e giusto. Egli sa mantenervi un' equilibrio
inalterato, del quale non lo si crederebbe capace, giudi-
candolo soltanto dalla prima, p^rte.
Uno dei più acri sarcasmi, forse il più acre di tutti,
e sempre contro i francesi, è contenuto nella III stanza
del 2** cap, e cito questo solo esempio, dove è detto
della battaglia di Pavia e della prigionia del re Francese.
Il Folengo mescolando l'italiano al francese ed allo spa-
gnolo ne compone una satira originale, ma straziante per
l'amor proprio francese, colpito di tanta sventura.
Collo stesso intendimento scrisse la giostra burlesca
la quale perfetta in se non ha che la menda che ho di
già avvertito.
Nella parte seria e specialmente nell'invettive, dove
lo sdegno lo spinge, l' ira lo commove, il verso viene
armonioso, scon^evole, spontaneo, cosicché è proprio il
caso di ripetere il detto di Giovenale: facit indignatio
versus.
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XXVI
e
■i"
In prova di ciò che asserisco cito soUaato quattro
versi della preghiera di Berta.
\{, Per ciò che di pietà sotto la scorza
Fassi grande vendemmia di danari^
E coWaltare di Maria si ammorza
L'empia ingordigia \ie' pisciati avari....
Cap. 6 st. XLIIL
Se, come dissi, la invocazione maccheronica a Fe-
derico Gonzaga è un preludio fallace, lo è del pari lo
sdegno che addimostra nella stanza VI, VII, VTII, IX,
per le censure che gli ftu'ono fatte di non saper scrivere
in pretto italiano.
Parerebbe che coli' Orlandino volesse smentirle e
provare il contrario, mentre il poemetto, invece, è infar-
cito di parole, frasi, detti schiettamente lombardi e mes-
sivi a bella posta, tanto da costituirne una caratterisca,
e Tho avvertito, con una nota, nel Sonetto di prefazione
air Orlandino.
Qualche volta satirizza anche il toscano, come nel
^ verso della stanza Vili cap. 1.
»
Non odi se non buio, arreca e caccio
adoperando queste ed altre parole toscane in maniera
che si intenda che lo fa per cellia, sebbene, in questa
stessa stanza, ed altri luoghi dell' Orlandino^ e nel Caos
riconosca la eccellenza della lingua di Dante, Boccaccio
e Petrarca.
Ai toscanismi ed ai lombardismi, sparsi questi ultimi
a larga mano, quasi che non bastassero da soli a com-
porre un ghiotto pasticcio si aggiugne, un altro peg-
giore ingradiente, quello dei francesismi^ comer: lingìiaccio
ciambra^ messi specialmente a fare rima.
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— XXVII
E di rime non ve ne sono solamente di questa spe-
cie. Spesso egli adopera lo sdrucciolo, tanto che appare
avere egli voluto dare prova della sua valentia in simile
torneo.
Ma egli è invece cascato in una vera affettazione, e
più spesso non ha fatto che stramberie, collo storpiare
il verso, alterare la parola.
Non si può negare che qualche volta gli escono na-
turali, spontanee, ma questo pregio non scema, né scusa,
per nulla il vizio e il diffetto.
Per la stessa ragione della rima ha alterata la pa-
rola anche quando non andava sdrucciola ; ha usati lati-
nismi impossibili, e talvolta anche ha raddoppiate le con-
sonanti dove veramente non andavano.
Più tanti che nel Baldo poi sono i motti e le pa-
role scurili, percui colla aggiunta della st. XI, cap, 2
r Orlandino riesce peggiore di molto dal grande poema
maccheronico. E credo che l'opinione ora invalsa che il
Folengo sia immorale nei suoi scritti provenga non dalle
opere maccheroniche, propriamente dette, bensì dall' Or-
landino.
E questo strano miscuglio di parole di lingua stra-
niera, latina, perchè vi è anche il latino, di dialetto
nostro, di licenze ultra poetiche, di alterazioni di p£|.role e
di regole ortografiche, si devono ritenere imposte ^1 Fo-
lengo da insufficenti cognizioni di lingua e da insuffi-
cente capacità di fare versi corretti, da mancanza di gu-
sto, crederlo un prodotto del bizzaro suo ingegno?
Io propendo per quest'ultima opinione. Per dare un
giudizio esatto dell' Orlandino conviene considerarlo non
nelle singole sue parti, non dai singoli suoi difetti lette-
rarii che sono gi-avissimi, non dai suoi eccessi di forma,
bensì dal tutto suo assieme, in rapporto ai tempi, ài ge-
nio, e alle circostanze speciali e personali del Folengo.
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— xxvm —
Queste circostanze sono rappresentate nel poemetto,
il quale se nel suo assieme appare, e lo è, una bizzarra
composizione, è necessario riconoscere che bizzarro fu il
genio dell'autore, bizzarre le sue vicende, bizzarrì, od al-
meno assai diversi dai nostri, furono i tempi nei qusdi
condusse la sua vita avventurosa.
Quei tempi ci diedero lavori letterarii più strani^
pia bizzan-i, ed anche più immorali dell' Orlandino^ che
se noi dovessimo giudicarli all' infuori dell' ambiente nel
quale si produssero, non vi si troverebbe che molto, o
tutto da biasimare, e ben poco, o nulla di lodare.
Nessuno dei nostri poeti, ora, si azzarderebbe di ve-
nire fuori con un Orlandino, ma nessuno deve giudicare
il lavoro del Folengo coi criterii nostri, e alla stregua
dei nostri costumi ^).
III.
L' ORLANDINO.
1. Della presente edizione. — 2, L'Apologia deirOrlandino — 3. Nota
bibliografica.
2. Due sono le edizioni capo dell' Orlandino^ la ri-
minense 1527 del Soncini, e la veneziana 1526 dei fra-
telli Sabbio per conto del libraio Nicolò Garanta^ il pri-
1) Nel Oap. 1 st. XX si leggono questi quattro versi
Poliziano fu quello che altamente
Cantò del gran gigante del battajo
Ed a Luigi Pulci suo cliente
Uonor die, senza sa^itto di notaio.
Di questa assei^zione del Folengo ho richiesto il- parere del cb.
prof. A. d*Aneona, il quale, colla competenza tutta sua, mi rispose, che
essa era di già conosciuta, ma che non aveva alcun fondamento, anche
a parere del Carducci.
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XXIX
vilegio del quale stampai a pag. XLEE della Prefazione
al voi. 1"* delle Opere Maccheroniche.
La riminense, come quella che contiene il poema
incompleto non ebbe alcuna riproduzione, scdtanto il Mo^
lini nella sua edizione — Londra 1775 — nell'atto che
stampa il poema completo, quale celo dk lo Sabbio, ri-
porta non poche lezioni delle riminense, ed in ciò è se-
guito, con qualche rara eccezione, dall' Antonelli nella
edizione del 1845.
La Sabbio, al contrario, fu più volte ristampata, e
si può dire, sino ai giorni nostri, poiché la Molini e
l'Antonelli, nonostante la suespressa eccezione, si devono
mettere nel novero di queste riproduzioni.
In questo fatto, io aveva indicato quale dei due
modelli doveva prendere nel fare la ristampa del poe-
metto folenghiano, quello cioè che mi era offerto dalla
prima edizione dei fratelli Sabbio 1526.
Riprodussi quindi fedelmente questa edizione mo-
dello, gixardandomi bene dal commettere le arbitrarie
alterazioni del Molini, le quali sono condannabili, seb-
bene non abbiano la gravità dì quelle commesse dal Ter-
ranza nella sua edizione del Baldo — Amsterdam 1768-71,
giovandomi dell'esemplare posseduto dalla Biblioteca na-
zionale di Torino ^) L'unica alterazione che vi ho fatta
sta nel riportare l'apologia infine di cotesto studio, an-
zicchè in fine del poema, dove l'hanno la Sabbio, e le
edizioni posteriori fatte su essa. Nella ristampa però
delle edizioni antiche, dalla prima metà del secolo XVI
1) Ringrazio il prof. R, Putelli bibliotecario della nostra comunale
ed il comu. 1. Ghiron prefetto della Braidense, che mi ottennero dalla
biblioteca nazionale di Torino, a prestito, 1* esemplare da essa posseduto
dell* Orlandino 1527 del Sabbio, di cbe ringrazio anche il eh, prefetto di
cotesta insigne biblioteca.
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-- XXX —
in dietro, si incontrano due non lievi difficoltà da supe-
rare, nellortografia, e nella trascrizione di alcune parole.
Per Fortografia io non so bene se quei nostri mag-
( giori, la conoscessero bene, certo è che l'usavano male,
^ così non poche parole le scrivevano alla latina coli' A,
allorché la parola latina esige cotesta lettera, e il ^ in-
vece della z.
Per r ortografia ho addottato addirittura le regole
nostre. Più cauto sono stato nella trascrizione, per la
quale se ho soppressa Vh e messa la z invece del f, se-
condo Fuso nostro, ho rispettato, di molte parole, la di-
zione propria dei tempi del Folengo, parendomi cosi di
lasciare il carattere speciale della lingua nostra in quei
tempi.
Sono stato parco nelle note, perchè ho supposto che
chi vorrà leggere il poemetto abbia una coltura più che
mediocre, e quindi ho intralasciata quelle che me lo
consigliava questa supposizione.
2. Il Folengo, prevedendo che il suo episodio dell'a-
bate GrifFarosto, avrebbe dato luogo a molti commenti, e
supposizioni poco benevoli, come di poco benevoli se ne
erano fatti sul primo Orlandino^ forse quello del Soncini,
apparso al pubblico avanti l'edizione Sabbio, volle scri-
verne una Apologia e che per la prima volta apparisce
' nella edizione veneziana suddetta.
Questa apologia non persuase i malevoli giudici del
poemetto, e credo anche gli altri che non gli erano
ostili, ma che disapro vavano o la forma, o la sostanza
del poema.
Pertanto essendo essa, od almeno dovendosi consi-
derarla parte integrale àeW Orlandino^ la riproduco qui,
stimando che vi trovi posto migliore anzicchè alla fine
del poema.
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— XXXI
Apologia dell' Autoeb*
Leggesi, candidissimi Lettori miei, fra gli altri faceti gesti del le-
pidissimo Gonella che, volendo egli T opinione sua sostentare ai Signor
Illastrissimo Duca di Ferrara, eh' assai maggiore ilisae de' Medici lo
numero che d' altri professori di qualunque arte si sia, legatosi un
giorno il braccio destro in guisa di stropiato al collo, andava quinci e
quindi girando per le piazze come se per doglia di spasmo non ritrovasse
loco dove fermarsi potesse. Or avenne che quanti mai così angosciosa-
mente quello penare vedeano con molta lui compassione addimandava-
nogli qual fhsse del suo male la cagione: e egli tutta via dissimulandosi
addolorato ritrovava qual' or questa qual' or queir altra inflrmitade, tal
che da tutti loro qualche rimedio ripportava, la onde lo proverbio da lui
stesso pensato finalmente con gli altri meritò d'essere per esperienzia col-
locato. Ma veramente poscia che questa favoletta mia del Orlandino, since-
rissimamente da me come composta, uscita mi è da le mani per complacenzia
di chi solo commandar mi puote, dirò con baldanza non manco essere io
numero de commentatori e interprete, che di medici temerari, delli quali
se rarissimi sono, (risguardato il numero loro copiosissimo), li periti cono-
nitori delli occurrenti morbi, niuno al tutto commentatore dell'Orlandino
mio essere verace sin qua ho isperimentato. Ma Dio volesse ahneno, che
lór' interpretazioni così come resultano in mio danno, e vergogna, mi dis-
sono per contrario ad utilitade insieme con qualche onore, come sopra
la bella canzone del Benevienni lo proAmdissimo ingegno di Gian?
aver fatto vedemo. Certamente ne voglio, ne per ninna guisa p >,
delli evidenti errori alle dotte persone iscusare, dico quanto a l'elegaazia
toscana, totalmente di Lombardia, non mediantevi lo studio di essa, da
natura rimossa; ma del soggetto e materia di essa operetta: immerita-
mente per colpa d'alcuni sospettosi ipocriti son' io d' infamia non poca
svei^gnato: perchè quantunque alcune cose vi siano poste, le quali in
gravezza della fede nostra, o sia della sacra scrittura, o delli religiosi
appaiono essere: nulla dimanco la mera intenzione dell' auttore non vien
in alquanti accomodatamente intesa, la qual è via piìi presto inclinata in
biasmar li mordaci di essa che morder universalmente la candidissima
fede nostra; e in segno manifesto di mia sinciritade quelle pochette be-
stieme pongo sempre in bocca d'alcuno tramontano, donde li errori il più
delle volte sogliono repullulare. Vero è che da me stesso confermo poi li
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— XXXII —
religioni Mi'oggi, non dico tutti, esserne potentissima cagione, la qaale
non mi curo testé quivi di scrivere, ove solamente alla escusasione e dif-
fensione mia io sono intenta SMo pongo la istoria di Monsignore Grif*
farosto, la intenzione mia non fu però d'alcuna particolaritade conceputa,
anzi voglio, che sotto Tombra di esso, eccetuata la reverentia sempre de
r integerrimi prelati, stiano tutti quanti li simili sol, non ha vendevi un
minimo riguardo alle minacele d*alcuni : li quali per sua verso me coatra
ragione malevolenzia, di mie calumnie sono seminatori. Ma di molto più
momento pot^iami parere la sciocca saviezza d'alcuni altri, li quali di
continuo perfumandosi di muschio e ambracane, così a noia e schifo pi-
gliano quella piacevole e riseria giostra mia, ne la quale, si come anchora
in altri passi di essa operetta, Tassi menzione di sterco e puzzo, non at-
tendendo loro la persona lorda e vieta e stomacosa d*un furfante, la quale
non mi sdegno rappresentarvi, accioche per mezzo di poter dire baldan-
zosamente ogni cosa, porvegnasi tinalmente alla veritade, che quando
d*altra materia non così vile io parlassi, lo nome mio appropriato, anzi
ninno, vi antiponerei. Pur questa lor alterigia di mente poco mi offende
che tal opera non composi a simili Sputasenni, ma veda chiunque di loro
quello, che sanno in mio scorno e infiBimia scrivere, che forse udiranno le
colonne profetizare insieme con li pareti di lor vita, che dove sentesi la
doglia, ivi corre la lingua. Questo simile dico de le parole uscite tal ora
de la penna men che onestamente publicate, perchè non molto discon-
venevole mi parve in simile soggetto tingermi pitocco, ne la qual persona
dovendosi recitar una comedia, ragionamenti soluti e strabocchevoli ac-
cascharebbono. Ben verrovvi, singularissimi amici miei, esservi alora
odioso e reprobo, quando in vita e costumi alle predette immondide cor-
risponderanno. Ma s'io vi paro singularmente tassar alcuna persona,
non è però eh* uomo, qualche si sia, poscia quella imaginare e non che
sapere, perchè non mi reputo lealmente aver nemico al mundo tanto da
me odiato, quanto Tanlma mia da me risguardata: bastami solamente che
ambi noi sapiamo di cui si parla. Or dunque la mera veritade via più
satisfacevole vi sia, che la presente apologia, candidissimi lettori mei, la
quale dal seggio suo cqnstantissimo giamai non si parte. Molto ancora
vi si potrebbe dire ma lo già detto a gli animi generosi e leali so bene
che troppo lungo e fastidioso appare, però la nobiltade d'ogni altro spi-
rito non si dignarà, spero, leggere cotal mia satist'azione in una nott^
impetuosamente composta, essendomi da non son cui potente tiranno mi-
nacciato, e io con ogni veritade, la quale parturisce odio, mi son posto
a tentar di sodisfar a lui con gli altri di simile sentenzia.
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ZXXIII
3. H Caos, con sole due edizioni veneziane, è raro.
Poche sono le biblioteche, si pubbliche che private, che
lo poss^gano.
L'Orlandino, invece, ha edizioni rare ed edizioni
abbastanza comuni Sono comuni la Bindoni 1550, la
Molini 1773, la Le Monier 1841-42, la Antonelli 1842.
Rara è la prima Sabbio 1526, irreperibile la seconda,
rarissime le due Sessa, e la Soncini 1527; irreperibile
la de Gregori 1526.
I fortunati possessori di coteste rarità bibliografiche
sono:
1. La Biblioteca nazionale di Torino possiede il Caos 1527
id. r OrkmdinOj Sabbio, 1526
2. La Comunale di Siena . . il Caos 1527
3. La Queriniana di Brescia il Caos 1546
4. L'Ambrosiana di Milano il Ca^s 1546, 3 copie
id VOrland., Sab., 1526, 2 cop.
5. L'imperiale di Vienna . il Caos 1527
6. La Nazionale di Firenze 1' Orlandino 1526
id il Caos 1527
7. La Marciana di Venezia Orlandino^ Soncini, 1527
id. Orlandino^ Sessa, 1539
id Caos 1546
8. Biblioteca del M.8e Ippolito
Cavriani di Mantova . . Caos 1527 e 1546.
9. Biblioteca Nazionale di Parigi Orlandino^ Sabbio 1526
Orlandino Sessa 1530. *)
È Apostolo Zeno*) che ci dk nota della de Gregori 1526,
AelVOrlandino, della quale non ebbi notizia dell'esistenza
1) Ringrazio il cav. E. Muntz, direttore deUa Scaola nazionale di
Belle Arti di Parigi, e il cav. I. Havet bibliotecario della Nazionale di Parigi,
il primo per ayermi ottenuto da M. Havet le note bibliografiche della
nazionale parigina, il secondo per avermele concesse e fatte di sua mano.
2) Fontanini. Biblioteca dell* Eloquenza italiana Voi. 1 p. 324-25.
KotaB.
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-... ^. .. Digitized by
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XXXIV
di alcun esemplare, presso le molte biblioteche, sì italiane
.. che straniere, delle quali tengo le note.
^ Spero di essere in grado, fra breve tempo, di pub-
blicare una completa bibliografia folenghiana, tanto delle
opere maccheroniche che delle sacre, come ho fatto qui
per il Caos e per Y Orlandino^ la quale, ritengo, riescirà
interessante.
1.
DEL CAOS
!• Cosa è il Caos. — 2. Il frontespizio — 3. Quando fu scritto e stam-
pato. — 4. Delle due edizioni.
1. Un libro che si chiama Caos^ abbisogna che, avanti
tutto, si dica cosa sia. Ora il titolo è il libro, e il libro
è perfettaraeute caratterizzato dal titolo, che gli fu dato
dal suo autore. Da ciò parerebbe che se ne fosse detto
abbastanza, e che fosse inutile qualunque commento. Ma
il commento lo farò egualmente perchè mi sono assunto
di farlo.
Si compone di quattro parti; cioè: di un prologo, od
argomento, detto — Dialogo delle tre etadi — e di tre altre
parti dette — Selve^ — il quale nome serve, oltre al
titolo del libro, a persuadere ancora meglio chi vorrà leg-
gerlo, essere oscura ed intricata la materia che vi è con-
i tenuta.
^— ^' ' Il dialogo è in prosa italiana ; la Selva prima è in
poesia italiana di metro diverso ; la Selva seconda è un
misto di poesia italiana di vario metro, di prosa pure
italiana a dialogo, ed in forma espositiva, di poesie la-
tine di esametri, e di una ode saffica. La Selva terza,
\
\
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'«^ipp^^^mip
XXXV
come la prima, è in poesia italiana di metro vario. Ha
una aggiunta di quattro epigrammi latini, un sonetto in
lode di Alberto da Carpi, più una lettera invettiva di
Limerno ad un altro Alberto da Carpi di tal nome in-
degno.
2. Una cura speciale tipografica fu usata tanto nella
prima che nella seconda edizione, della quale cura è
necessario prendere nota, come quella che ci fa intendere
tutto l'interesse e tutto l'affetto che l'autore pose al suo
libro.
Esso ha tre fi'ontespizii, il primo, lo speciale del li-
bro, un altro alla seconda Selva, un terzo alla Selva
teraa.
Ognuno dei tre frontespizii ha uno scudo recante lo
stemma dei Folengo, tre folaghe, disposte a triangolo,
fra le quali stanno le quattro lettere 'M. L. T. F. che
sono le iniziali di Merlino, Limerno, Triperuno, Fulica,
i protagonisti del Caos.
Al disopra dei tre stemmi vi è un distico, che dice
che egli, come Dio, che è unico e trino, per il mondo è
conosciuto sotto tre nomi. y
Al disotto dei due primi vi è un exastico diverso.
Sotto il terzo invece vi sono nove versi con bizzarro ana-
gramma che compone il nome di Francesco Grrifalcone.
A destila ed a sinistra dei tre scudi vi sono le ini-
ziali di tre nomi di tre differenti personaggi, ad ognuno
' dei quali resta in questa maniera dedicata una parte del
Caos.
Nel primo vi è FÉ. GO. cioè Federico II Gonzaga,
il signore di Mantova, al quale restano, così, dedicati il
Dialogo delle tre età e la Selva prima.
Nel secondo vi è CA. VR., cioè Camillo Orsino, in
casa del quale stava il Folengo, quale precettore del gio-
vinetto Paolo, di lui figlio.
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XXXVI -
A Camillo Orsini è quindi dedicata la seconda Selva,
Nel terzo scudo si trova FR. GR. Francesco Grifal-
cone, al quale è dedicata la terza Selva,
Se vi è libro il quale abbia un frontespizio appro-
priato e conveniente è il Caos^ poiché ne è un simbolo
ed una sintesi insieme.
3. Il Caos fu scritto dopo VOrlandino^ di quanto poi
non lo si sa.
Come si ignora il tempo preciso in cui fu scritto il
poemetto eroicomico, così si ignora quando fu principiato
e finito di scrivere il Caos. Dal tenore della dimanda di
privilegio del Garanta si dovrebbe ritenere che alla fine
del 1526 fosse di già compiuto, ma potrebbe anche darsi
che il Garanta si facesse a chiedere un privilegio di un'o-
pera incominciata soltanto e non finita, e se l'ipotesi,
come è probabile, fosse vera, il Caos avrebbe avuto il suo
termine nel seguente anno.
Tutto ciò stando alla data posta in fine delle due
opere.
Che se noi prescindiamo da ogni congettura su di
questi due particolari e consideriamo l'indole ed il ca-
rattere cosi opposti dei due scritti e gli intenti specia-
lissimi che il Folengo si è prefisso nel Gaos^ convien
dire che tra Tuno e l'altro lavoro coitc tutto il tempo ne-
cessario, perchè nell'animo del Folengo succeda un pro-
fondo mutamento di idee, di propositi morali, filosofici e
religiosi, da quelli che aveva allorché dettò Y Orlandino
e li espresse nel poemetto.
Quello che è certo si è che almeno le prime due
Selve le scrisse allorché era ancora in casa Orsini, di
che se né ha non poche prove, forse anche la terza, ma
non ne siamo accertati da nessuna parte, mentre l'assieme
e lo spirito della Selva lo farebbe dubitare.
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Google^
— XXXVII
Del resto la è cotesta una quistione di poco mo-
mento.
Forse ha maggiore importanza l'altra dell'epoca in
cui fu stampato.
11 Garanta chiede il privilegio di stampare Y Orlan-
dino e il Caos il 3 Novembre del 1526, et volendo quelle^
cioè V Orlandino e il Caos^ fare istampare^ dice espressa-
mente ; dal che si intende che non solo non erano stam-
pate, ma nemmeno' ne era principiata la stampa.
U Orlandino fu stampato avanti del Caos^ ora esso
può essere stato stampato in parte verso il terminare
del 1526 e in parte all'anno seguente, nonostante la
data che porta del 1526, la quale, come dissi nella
prefazione al l'' voi. p. lxxxix e cui indica tutt' al più il
principio non la fine della stampa del libi'O. Il Caos
quindi deve essere stato stampato non prima del 1528,
o almeno finito di stampare in questo anno, quantunque
porti la dichiarazione, infine, che fu stampato adi primo
Zener 1527.
4. Le due edizioni del Caos^ 1526, e 1546 sono iden-
tiche fra loro, il che vuol dire che la seconda non è che
la materiale riproduzione della prima, senza che vi sia
stata fatta alcuna aggiunta, o modificazione, od anche
soltanto qualche mutamento di parola, ad eccezione del
sonetto contio il papato p. 130, 131, che nella prima
edizione ha molte lacune, per le quali non se ne ha al-
cun senso ; nella seconda edizione, invece, l'abbiamo tutto
intero.. Ed io nel testo riporto il primo, ed in nota il
secondo.
La seconda edizione poi e più scorretta della prima,
e in questo riguardo non hajiemmeno il merito di cor-
reggere una errata intestazione della prima ad una can-
zonetta di quattro terzine ed un verso, che è intestata a
,.- • : Digitized by
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— XXXVIII
Triperuno, mentre la dovrebbe essere a Cristo; giaccchè
ripetè Terrore.
Sono identiche di caratteri: il formato, è. alquanto
più piccolo nella prima, la quale conta di conseguenza
più carta della seconda; 111 in questa e 120 nell'altra.
if.
DEL CAOS
1. L'intento, il concetto ed il carattere del libro. — 2. I Personaggi.
— 3. Dell'interpretazione del Caos. — 4. Dello stile e della
lingua. — 5. Della presente edizione.
1. Allorché il Folengo scrisse il Caos e Y Orlandino^
che fu durante la sua dimora in casa Orsini, contraria-
mente a quanto ebbi ad asserire, ^) era nel suo periodo
avventuroso dell'uscita del chiostro. E la prova di ciò la
esibisco più avanti.
Sciisse VOrlandino durante il periodo della sua aber-
razione, morale, filosofica e religiosa.
Il Caos invece lo scrisse, allorché nella coscienza gli
era entrata la resipiscenza, e con essa il desiderio di
tornare nell'abbandonato chiostro.
Nel suo intento il libro doveva servirgli di prova
essere egli tornato a quei principii morali e religiosi che
doveva avere come frate e che mai avrebbe dovuto ab-
bandonare.
Le ragioni die lo spinsero al ravvedimento né si
1) Portioli op, cit. voi l** Prefazione p. Lxxxix.
W Digitized by VjOOQiC
XXXIX —
conoscono né si possono congetturare, né vi è modo di
di sapere se al mutamento egli sia giunto a poco a poco,
oppure, come Saul, tutto ad un tratto.
Un'altra circostanza sarebbe utile capire, ma che
probabilmente resterà sempre ignorata, il tempo, cioè, nel
quale si è formato nel suo animo il proposito di ritor-
nare al cliiostro abbandonato.
E strano però il fatto, che mentre è certo che il
Caos doveva riabilitarlo nell'animo della famiglia religiosa
benedettina, mostrarlo non solo pentito delle aberrazioni
sue, ma perfettamente e saldamente ravveduto, e che
specialmente ripudiava il poema dell' Orlandino e tutto il
contomo delle circostanze che lo produssero, che gli re-
carono tante censure e tante accuse, presenti nello stesso
momento ed al medesimo tipografo, perchè siano stam-
pati, e l'uno e l'alti-o lavoro, Y Orlandino e il Caos as-
sieme.
Come si spiega 1' enigma, la palese contraddizione ?
In questo caso non è il Caos che distinigge YOrlandino^
ma VOrlandtno^ che distrugge il Caos^ per essere stato
ad esso associato; e allora restando sempre indistruttibile
il carattere e lo scopo del Caos^ resterebbe distrutta quella
sincerità di propositi che, per esso, il Folengo voleva che
si appalesasse, e che tutti reputassero vera ?
Il Caos sarebbe forse una parodia? Non lo credo, e
non lo è; ma la contradizione esiste.
Ed è questo uno dei non pochi misteri che circon-
dano la vita di questo uomo, più grande assai di quanto
oggi lo si ritiene.
Il Caos contiene T esposizione delle fasi morali, intel-
lettuali, e dirò anche delle vicende personali per le quali
è passato sino alla età raggiunta allorché lo scrisse. E
queste vicende e queste fasi egli le fa narrare a parec-
chi personaggi, ma specialmente ai quattro che lo per-
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— XL —
Bonificano, Merlino, Limemo, Triperuno, e Fulica. Ogni
personaggio rappresenta ed espone una parte, e parla
secondo il carattere che gli viene dalla parte sua, in
prosa e poesia, in italiano, ed in latino, serio e macche-
ronico.
Il concetto di un libro sifatto, ed il modo di nar-
rare la vita di un individuo non furon trovati dal Fo-
lengo, che egli li ha presi dalla Vita Nuova e dal Con-
vitto di Dante. Di suo ha tutto ciò che il Caos ha
di diverso, nella forma e nello stile dai due libri di
Dante. ^) E siccome ognuno di cotesti libri, narrandone
gli accidenti, rappresentano il carattere ed il genio del-
l' autore, sono quindi tanto fra loro diversi quanto lo
sono le vicende della vita ed il genio dell' uno e del-
l'altro.
Il carattere del Caos non è perfettamente allegorico,
né perfettamente mistico. Ma è V uno e 1' altro assieme,
forse più mistico che allegorico. Non è perfettamente al-
legorico, perchè il fatto allegorico che adombra il fatto
positivo non vi è; non è perfettamente mistico, perchè
qua e Ik esiste una forma allegorica, se non una perfetta
allegoria.
2. Uesame dei personaggi riguarda quelli delle tre
Selve, non quelli del Dialogo delle tre etadi, che non ne
abbisognano.
Nelle tre Selve, oltre ai quattro principali più su
nominati, Merlino, Limemo, Triperuno e Fulica, altri e
parecchi personaggi agiscono nella scena, quali sono Ge-
nio, Urania, Melpomene, Talia, Tecnilla, Anchinia, Euterpe,
1) L'indole di questo scritto mi costringe ad eiccennare ai quesiti, e
a toccarne i punti principali. Questo tema dei rapporti e delle dirorgenze
tra il Caos e la Yita Nuova ed il Convitto di Dante, occorre che sia
diffusamente trattato da qualcuno competente, che ritengo riuscirà un
lavoro interessante.
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— xu —
Terricore, Furore, Clio etc, una pervalenza quindi di
nomi mitologiei, in un'opera di carattere schiettamente
cristiano.
La è una anomalia, quantunque strana in se, ma
spiegabile colla coltura di quei tempi, tutta pagana, per
la quale i letterati d'allora vestivano a preferenza di
forme pagane, o mitologiche, i concetti, ed anche talvolta
i personaggi cristiani.
Dei quattro principali prenominati, due personificano
i caratteri sotto i quali appare nelle sue opere e nelle
sue vicende personali. Merlino l'autore delle Maccheroni-
che propriamente dette, Limemo, l'autore dell'Orfan^mo,
Triperuno è il prodotto della unione delle due in-
dividualità di Merlino e Limemo, una trinità sui generis,
maccheronica.
Fulica è il personaggio mistico, indefinibile che na-
sce dalla personificazione degli altri tre. Egli è frate at-
tempato, con lungo cuculio e lunga barba, detto dai com-
pagni Santo Fulica.
La trinità folenghiana è oggetto del distico dei tre
frontespizii
Unus adest triplici mihi nomine vultus in orbe^
Tres dixere Chaos , , . . .
I quattro personaggi che rappresentano e riassu-
mono il Folengo hanno le loro iniziali raccolte e rac-
chiuse nello stemma, per indicare cotesto loro particolare
significato individuale e complessivo.
Ogni personaggio ha il suo carattere ben determi-
nato cioè quello che loro imprime, per i primi due, le
opere che vanno sotto il loro nome, mentre Triperuno,
che li riassume e costituisce una terza personalità, riesce
innappuntabile e corretto saggio morale, volendo signifi-
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— xLir —
care che quantunque possa sembrare altrimenti per i
primi due dalle loro opere, restano nuUameno virtuosi e
morali.
Fulica il quarto personaggio, vecchio saggio, come è
di dovere per Fetà e per l'abito che veste, instrutto e
virtuoso, ribadisce e conferma il concetto ed il carattere
rappresentato da Triperuno.
Pieno dei ricordi geniali della sua gioventù, cono-
scendo ora che non approdano a nulla di bene e di
buono, moralizza con Limerno e con Merlino, per pro-
vare la vanità delle loro opere. Ed è per questo intento
che il Folengo lo finge vecchio, mettendogli quindi in
bocca quei giudizii, che lui stesso avi'ebbe pronunciato
di se stesso, giovane, ima volta che avesse raggiunta la
età senile.
La purezza dei sentimenti, Y integrità della vita il
candore della fede, la sincerità dei propositi, sono ripe-
tutamente dichiarati da Ti-iperuno e da Fulica.
A tanto essi mirano, affinchè se ne persuadano co-
loro i quali devono sentenziare della sorte del poeta.
Gli altri personaggi hanno una parte più o meno
importante, ma secondaria a quella dei quattro perso-
naggi principali.
Chi rappresenta le virtù, chi le basse tendenze, se
non i vizii addirittura, chi le scienze e le lettere.
Ma coteste virtù e coteste passioni sono talvolta rap-
presentate anche da simboli, come il Fuoco, FAmore, la
Fortezza^ la Temperanza ecc. U azione ed il carattere
«peciale di ogni personaggio secondario verranno spiegati
nell'esposizione del concetto di ogni Selva,
La finzione è bella, nuova, ingegnosa, e condotta
anche con arte finissima tanto che in alcuni punti della
Selva seconda, in particolare, assume persino un carat-
tere drammatico.
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XLIII —
3. E sempre difficile l'interpretare esattamente U.
pensiero altrui e ne abbiamo nn esempio grs^nde. nei
molti e svariatissimi commenti àeìlsi Divina Commedia di
Dante.. Veramente nel Caos non abbiamo la astrusità del
concetto e del pensiero dantesco, né le non poche alte-
razioni, che si fecero dagli amanuensi al testo della Di-
vina Commedia^ poiché la prima edizione del Caos fu
fatta sotto gli occhi dello stesso autore, e molto proba-
bilmente ne fu da lui stesso riveduta la stampa, e la se-
conda edizione, tolti gli errori tipografici, riproduce nel
resto esattamente, e con fedeltà materiale, la prima. Ma
in quella vece abbiamo altre difficoltà, due specialmente
capitalissime.
La prima la si ha nella completa ignoranza delle
vicende personali del Folengo, nel modo scorretto, od
alterate con cui sono naiTati i pochi fatti veri di lui,
per cui si é sempre in dubbio se lo sieno, oppure quanto
lo sian.0 ; la seconda, resa piti grande della piìma, con-
siste nel modo vago, ed indeterminato, ora allegorico,
ora mistico, con cui accenna od espone nel Caos ì suoi
personali accidenti, Taverli diffusi e distemprati in mezzo
a moltissimi incisi, tanto che riesce difficilissimo, per non
dire impossibile a sviscerarli dall' involucro che li av-
volge e trarli fuori determinati e concreti.
Nell'esame, più che commento, che ne farò, mi guar-
derò bene dalle sottigliezze letterarie per sorprendere ii-
pensiero folenghiano, e mi gioverò soltanto di due sus-
sidii, cioè: delle dichiarazioni che il Folengo fece del
significato delle tre Selve, nel dialogo delle tre età, di-
chiarazioni che pone in bocca alla madre Paola, alla
sorella Corona ed alla nipote Livia, poscia del concetto
che io mi sono fatto -dell'argomento collo studio delle
opere del Folengo.
Un importantissimo documento trovato dal Prof. A.
Luzio e da lui pubblicato in un suo pregevole studio
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5-rc*?^*^^^-
— XLIV —
«
sul Folengo mi ha confermato il giudizio che mi era
% fatto sì delY Orlandino che del Caos.
l E questo documento togliendo ogni incertezza, ren-
K dendo ceiio questo giudizio, che, per quanto sembrasse
'-, giusto, mancando di una prova indubbia, restava sempre
;. discutibile, mi concede T instimabile vantaggio di proce-
'* dere con passo sicuro nel mio esame.
Più avanti, nel capitolo — Degli studii sul Folengo
e sulla mia edizione — parlo del lavoro importante del
Luzio, e riferisco anche l'interessante documento,
?.; 5. Lo stile del Caos è triplice, come lo è dell' Oìdan-
dino^ con questa differenza, che mentre neìV Orlandino è
^ usato o l'uno o l'altro a seconda della materia che viene
esposta, nel Caos lo è invece a seconda del personaggi(»
che parla, ma non soltanto per i personaggi principali,
Merlino, Limemo, Triperuno e Fulica, ma altresì per i
secondarli, sia mitologici, od allegorici ; per di più il
Maccheronico compare vestito della veste splendida del
Baldo.
Il Maccheronico è parlato da Merlino ; il burlesco,
misto di im decente licenzioso e di gentile è messo in
bocca a Limemo, gli altri due hanno il serio, partico-
larmente Triperuno.
Negli altri personaggi. Furore è maccheronico ; il ri-
manente è serio, talvolta con tono satirico, e burlesco,
ma corretto ed innappuntabile.
Da tutto ciò ne viene, che i singoli personaggi con-
servando quel loro carattere pecuUare che hanno e dagli
scritti loro, e dalla storia, la classificazione dei diversi
stili riesce facilissima,
A tutta prima si potrebbe dubitare della Selva terza,
in taluni punti della quale il Folengo si distempera in un
ascetismo cosi sdolcinato che impressiona, che ci fa chiedere
se sia la espressione di un sincero sentimento religioso.
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XLV
0 piuttosto un dileggio finissimo, e l'esitazione del giu-
dizio si fa maggiore mettendo ciò a confronto, ma dirò
coW Orlandiiìo^ l'antagonismo del quale col Caos, l'ho già
rilevato, ma con quanto fa dire a Limemo e ad altri
personaggi nella Selva seconda*
H passaggio appare troppo rapido, il salto troppo
grande. Però non è che un gioco di apparenza.
Non conviene dimenticare che ogni personaggio parla
a seconda del proprio carattere, il quale linguaggio, e le
cose dette, mirano a raggiugnere F intento dell'opera, a
provare la moralità del suo autore. E la Selva terza
appunto, anche nelle più ardenti manifestazioni ascetiche,
è la prova di quello che sia il Folengo, nonostante le
sue opere poetiche e le vicende sue personali, pio re-
ligiosa, morale. Esce dalla triplice classificazione il Dia-
logo delle tre etadi^ il quale fa parte da se. Smtto in
stile serio, non però in quello di Triperuno e di Fulica,
è un misto di trecentismo e di un bizzarro affettato,
grave pesante, col quale invece il Folengo si intese di
riescire maestoso, e di costruire un ingresso splendido
alle tre Selve.
Mi fa la figura di uno di quei guarda-porte delle
grandi case patrizie, duri, impettiti, vestiti di lunga zi-
marra, gallonati di oro, con un'aria di dignità, più im-
pertinente di quella dei loro padroni.
Non vi è del resto nulla che stoni, non uno scherzo,
non una allusione non seria. Il Folengo vi ha messo tutta
quella gravità di cui era capace.
In punto alla lingua, al pari à^Ylì Orlandino^ poco vi
è da lodare molto da biasimare.
Il Folengo, come non fu un grande vesseggiatore,
cosi non fu un grande prosatore, e credo che le sue
opere volgari, sacre e profane, gli abbiano distratta la
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XLVI —
fama di gi-ande poeta, che ebbe e dovi-ebbe avere, come
poeta maccheronico. ^)
Il Folengo vi ha messo poi gli anagrammi nella
parte poetica, la più parte allusivi alle vicende dei bene-
dettini, qualcimo dei quaU sono un vero giuoco di forza
poetica verseggiativa, come il NECAT, a pag. 139, e
quello del frontespizio della Selva terza, per Francesco
Orifalcone.
Come opera letteraria il Caos è di valore non grande,
inferiore di certo a quello dell' invenzione e dello svol-
gimento del tema, che è finissimo e in ogni sua parte mi-
rabile.
6. Prima di entrare nell'argomento dell'esame del
Caos dirò poche parole della presente edizione.
Avendo a mia disposizione un esemplai'e di ognuna
delle due edizioni, io potei condurlo con tutta sicurezza.
Siccome non vi era luogo a scegliere, così non credo
di avere alcun merito nell'avere condotta cotesta edizione
sulla prima dei Sabbio, segnata colla data 1527.
Fra la prima e la seconda edizione dei Sabbio non
vi sono varianti, ma soltanto ripetizioni di errori, che io
1) Se il Folengo ha in Italia una fama inferiore di quella che Ra-
belais ha in Francia, credo che dipenda massimamente dalle passate con-
dizioni politiche dell' Italia, e dai giudizii poco favorevoli che raccolse per
i suoi scritti in italiano, ed anche dalle grandi difficoltà che vi sono per
intendere il Baldo. Io miro a largii acquistare nella estimazione àeg\v ita-
liani, quel posto che si merita di grande poeta, unico, non inimitabile
nel suo genere.
Dopo la pubblicazione dei due primi volumi, e il giudizio favorevole
che ne ebbi, specialmente fuori d'Italia, avvenne un risveglio, tra noi
degli studii dell' epopea maccheronica in genere, ed in ispecie della Fo*
lenghiana, e non pochi sono coloro che vi applicarono egregiamente il
loro ingegno e la loro coltura. Mi auguro, e spero anche che avversa
fra non molto, che in Italia non saranno più ritenuti una stranezza i giu-
dizii del Settembrini e del Desantis, e che il Folengo otterrà quella stima
e quella popolarità, che meritamente ha il Rabelais in Francia.
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XLVII
per la massima paite lasciai, quelli, cioè, che consistono
in corruzioni di parole e li corressi in note ; solo qualche
rara volta li corressi nel testo specialmente quando erano
evidentissimi.
Ho corretto la punteggiatura anche qui, pia che potei,
poiché certi periodi non si prestavano proprio ^ alcuna
.correzione, così pure rispettai più che ho potuto Torto-
grafia, come feci neirOr/ancKno, volendo che il Cuqb si
presentasse nella sua veste originale, più che era possi-
bile, intera e intatta.
Di note non misi che le necessarie, pensando che
il libro, dovendo andare fra le mani di persone colte,
queste non abbisognavano di lezioni troppo facili di eru-
dizione, o di critica letteraria.
E perchè la ristampa sia materialmente fedele, e per
l'importanza che hanno, circa il senso del libro, ho fatti
riproduiTe anche i tre frontespizii, tali quali figurano
nelle due edizioni originali, collo stemma ed i versi latini.
La nuova edizione avrk sopra le prime due il me-
rito principale, se non l'upico, di essere di lettura assai
più facile, perchè fatta in caratteri larghi, e moderni e di
potere andare nelle mani di qualunque studioso, per la
modicità del suo prezzo.
HI.
• DEL CAOS.
1. Il Dialogo delle tre etadi.
1. Il dialogo delle tre etadi è una breve composi-
zione, in prosa premessa alle tre Selve, delle quali ci
fornisce l'argomento o la spiegazione della loro allegorìa,
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— XLVIII —
che è la esposizione delle tre età, o meglio dei tre periodi
di quella età che il Folengo aveva raggiunto allorché si
era accinto a scrivere il Caos^ e quindi la fimciullesusa,
la giovinezza, e la prima virilità. Ed è da questo che la
breve composizione fii detta dal Folengo — Dialogo
delle tre etadi.
Gli interlocutori sono Paola, la madre del poeta,
Corona, la di lui sorella, e Livia, la nipote. La Corona
era monaca.
Nel dialogo, propriamente detto, le tre interlocutrici
deplorano le aberrazioni del Teofilo, tanto morali, che
letterarie; morali perchè si era secolarizzato, letterarie,
perchè non soltanto egli aveva scritto quelle pazzie del
Baldo, ma perchè vi ha aggiunto quella ancora assai peg-
giore àélV Orlandino, e di averlo mandato fuori, per la
stampa col pseudomino di Pitocco, che gli accresceva il
disonore e la vergogna.
La Madre Paola è tutta mite verso il figlio, lo scusa
lo compatisce, e nelle azioni sue e nei suoi intendimenti
non vede che bene, e nelYOrlemdino stesso non sa trovare
quel gran male, mentre Corona è severa, inesorabile col
fratello, e punto si lascia persuadere dalle rs^oni della
madre. Livia vi ha una parte secondaria.
Da ciò si intende che il Folengo, in questo suo dia-
logo, che pone in bocca alle tre persone che tanto lo
amano, che altrettanto lo vorrebbero stimare, non fa altro
che esporre quei giudizii che si facevano sul di lui conto,
e le ragioni che egli aveva di difesa e di scusa, Tidtima
delle quali ragioni si è l'avere messo fuori il Caos
dopo r Orlandino^ dal quale ognuna delle tre donne
aveva cavata una bellissima allegoria, che mitiga il do-
lore di Corona e alquanto la consola, prevedendo nel
fratello un pentimento ed il ritorno a migliori senti-
menti.
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~ XLIX —
I tre commenti sono tra loro diversi. Ognuna delle
tre interlocutrici ravvisa nelle tre Selve un suo partico-
lare concetto, e quindi di ogni Selva triplo è il con-
cetto, o significato allegorico, e tutti e tre riguardono
un momento, od un aspetto della vita del poeta, E il
Folengo stesso vuole che il triplo concetto sia evidente
al lettore, poiché lui stesso lo fa espon-e alla fine del
Dialogo da Fulica, il quale triplo concetto egli dice di
averlo posto non soltanto nel libro, ma nella divisione
sua in ti'e parti, nel numero tre delle donne interlo-
cutrici, nelle loro tre età, nei loro tre gradi di pa-
rentela, nelle ti'e Folaghe dello stemma, e persino nel
titolo del libro composto di tre parole: Caos del Tripe-
runa. Le tre donne poi parlano nell'ordine naturale delle
loro età, e quindi prima la giovinetta Livia, poi la gio-
vane Corona, poi l'attempata Paola.
Livia riconosce nelle ti-e Selve essere esposti i tre
periodi di vita raggiunti da Teofilo, e quindi dice essere
figm^ate, nella prima Selva la nascita e la fanciullezza,
nella quale pregusta le dolcezze delle cure materne, che
lo soccorrono in ciò che la natura non gli avea dato ;
nella seconda Selva; la giovinezza, e quindi il periodo
più lungo ed importante, poiché abbraccia gli studi, la
monacazione, l'uscita dal chiostro, la composizione delle
Opere maccheroniche. E queste vicende sono esposte da
Livia, meno qualche parte, assai velatamente, special-
mente le ragioni della uscita dal chiostro.
La terza Selva dice rappresentare la conversione
sua dalla vita, o dagli errori esposti nella Selva seconda,
la quale conversione è operata da una appai*izione di
Cristo che lo toglie dalla mala via e lo riconduce alla
buona, dalla quale non dovrebbe più dipartisi, che altri-
menti commetterebbe la terza sciocchezza.
II commento della Livia é quindi tutto individuale
0 positivo, biografico del Folengo.
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La Corona invece dice che il fratello suo non si
intese di esporre nelle tre Selve le sue vicende, la sua
vita, bensì un concetto più generale, le vicende cioè
alle quali va soggetto l'uomo nelle diverse età, della
fanciullezza, della giovinezza, e della virilità, specialmente
quei mali e quei dolori ai quali va soggetto in conse-
guenza del fallo di Adamo.
Soflfre nella prima gli affanni ed i travagli della nu-
dità, del bisogno della nutrizione, e della sua fisica im-
potenza.
Nella età della giovinezza, e seconda Selva, si ri-
desta in lui la brama del sapere, ma con essa anche la
forza delle passioni, dalle quali due forze condotto al
varco di due strade, lascia quella che mena alla verità,
e va per quella che conduce al vizio, dove passa per
tutta le bizzarie della vita, sogni, chimere, amorose fa-
vole, che da Merlino sono chiamate finzioni macchero-
nesche, e vi dura finché un qualche ti^avaglio non lo fa
ravvedere del suo errore,. E allora, ricorre per aiuto a
Cristo che lo cava da quel labirinto, come è narrato
nella terza Selva, gli dà in godimento il paradiso ter-
restre e il legno della vita per cibo.
La madre generalizza ancora di più. Non è il figlio
suo, né Tuomo in genere che si adombra nelle tre Selve
bensì, Vuomo studioso ed avido di imparare^ il quale nella
prima Selva, mettesi a considerare la natura umana bra-
mosa del bene e della scienza; trascende su tutta la mi-
seria della vita, e quelle sole, cioè il bene, la virtù e
la scienza stima degne dell'umanità; e che di gran lunga
ne compensano le infermità ed i bisogni.
Nella Selva seconda ; accrescendosi ancora più la
brama del sapere si fa a studiare colle scienze divine, an-
che le naturali, e la filosofia, nelle quali tanto si ingolfa
e si entusiasma che gli si smarisce il sopranaturale ;
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— LI —
rafEgurando la corrotta scienza dei modeiiii teologi in
Merlin Cocaio^ sicché in ultimo egli trovasi perduto in un
labirinto senza uscita di dubbi, errori ed eresie, finché
Cristo mosso a pietà di lui, lo richiama a migliore vita
ed a migliori sentimenti.
La terza Selva é interpretata in modo eguale dalle
tre donne. È sempre Cristo che cava il Folengo dal suo
traviamento e lo riduce a vita vii'tuosa e principii reli-
giosamente cristiani.
La divergenza sta nella interpretazione delle prime
due Selve, la quale divergenza però mi sembra che sia
più apparente che reale.
Alla fine della dichiarazione di Fulica a pag. 13 egli
dice che il givdicio del ingenioso lettore sark il pih au-^
tenticato sui tre che le tre donne hanno dato intomo
alle tre Selve del Caos, Ed io valendomi di questa li-
cenza del Folengo, vengo a dire, che nessuna delle tre
interpretatrici dice il vero, ma solo parte di esso, poiché
il vero senso del Caos sta nell'assieme dei tre sentimenti^
per usare la stessa parola dell'autore.
Nella piìma Selva quindi narra la nascita e la fan-
ciullezza sua, descrive le cure della madre nel provve-
derlo di ciò che la natura non concede all'uomo, di abito,
poiché lo fa nascere nudo, di cibo, perchè al bambino
mancano le forze fisiche ed intellettuali per procurarsene.
Ma nel medesimo tempo egli facendo un confronto
fra r uomo e l' animale, e ravvisando come a questo la
natura conceda, fino dal suo primo venire alla luce, tutto
quanto manca all'uomo, l'abito nel pelo, la svegliatezza,
la intelligenza e le forze per procurarsi il cibo, ne con-
clude che essa fu matregna crudele all'uomo e madre
pietosa all'animale; e questo diverso stato é tale uno sco-
glio nella mente del Folengo, che lo fa traviare in-
tellettualmente d^lV umanità di Jeju^ come fa dire alla
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:^/»^
— LII —
madre cioè dalla considerazione che anche Cristo volendo
ricondurre la umanità traviata dal peccato di Adamo al
seno di Dio, veste forma umana e soggiace a tutte le
leggi e a tutte le infermità dell'uomo.
Nella Selva seconda, è vero quello che dice Livia
die a sedici anni coWahito cangiò la vita^ avendogli pia-
ciuto il vivere tranquillo e virtuoso di una famiglia di
paston, cioè mosso dal naturale candore del suo animo,
dalla sua ingenua natura, entusiasta del bello e del vero,
entra in una famiglia religiosa, confidando che il suo spi-
rito, la sua mente vi troveranno il posto ed il nutrimento
che, con aureo sogno, ideava nella sua giovanile fanta-
sia; ma poi gli anni allargandogli ben presto l'immagi-
nazione ed i sentimenti ; e gli studi, le cognizioni, per
ragione di dice Livia, e qui vi è un mistero, le
passioni lo agitano, dice Corona, la mente sua, ardente
e vivacissima, dice Paola, non si accontenta più della
cerchia scientifica nella quale è tenuto in seno al chio-
stro, desidera un campo più vasto, se non più libero,
sente il bisogno prepotente di gettarsi ad altra vita. E
allora in lui succede una grande lotta ; da una parte è
trattenuto dai sentimenti pii, e della bontà e rettitudine
naturale deiranimo, dall'altra è spinto dalle passioni della
sua età giovanile, dal suo carattere immaginoso e ardente,
dal suo ingegno avido di apprendere. Infine la vittoria
resta alla gioventù, e alle sue brame, che egli dipinge
come donna che su cavallo sfrenato gli passa avanti
correndo a precipizio, e lo attira con forza irresistibile
dietro se. Abbandona quindi il chiostro, si ingolfa in una
vita nuova, che non si può definire, ma intellettualmente
e religiosamente traviata, e come dice ripetutamente nel
Caos lo attrae specialmente lo studio della filosofia e delle
scienze naturali. E sono queste, più dell'altra, che eser-
citano su lui una grande influenza, poiché egli voleva
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— LUI —
trovare la ragione dì tanti fatti, impossibili, a spiegarsi
col corredo scientifico, in parte sbagliato, in parte ti'oppo
scarso, che si possedeva allora.
Mentre Corona e Paola assegnano cagioni chiare ed
attendibilissime alle aberrazioni del Folengo, la Livia
invece non ha che la reticenza che riferii: per cagione
e^e . . . . la quale costringe ad entrare nel campo delle
ipotesi, di quella specialmente, che è gik ammessa che
anche una donna sia entrata a spingere il Folengo nella
via nuova. Ma la è una ipotesi e non più, forse anche
vera, perchè nel Caos non ci porge alcuna prova od
argomento, atto a confermarla, o a distruggerla. Soltanto
due frasi, che pone in bocca a Corona, sembrano che la
abbiano a confermarla. Ma poi levatasi la consueta tem-
pestada di nostra carne^ ecco la voluptade. ....
n ravvedimento, esposto nella terza Selva, è pro-
dotto da una visione di Cristo. Lo prende per mano e
lo conduce in un edificio fatto di mure preziosissime,
e dove splende perpetuamente il sole.
Alla esposizione delle tre donne fa seguire un esa-
stico di Merlino, un sonetto di Limerno, ed una dichia-
razione al lettore di Fulica, nei quali ribadisce il con-
cetto uno e trino del libro, dichiarato dall'esametro del
firontespizio.
Più importante è la dichiarazione di Fulica, nella
quale dopo le spiegazioni del concetto uno e trino, an-
che nelle sue parti secondarie del Caos^ richiama T at-
tenzione del lettore sopra i capiversi sparsi nel libro,
dai quali, dice, che chiaro e limpido apparisce Y intricato
soggetto.
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LIV
IV.
DEL CAOS.
1. Della Selva prima.
I personaggi che agiscono nella Selva prima sono
sette : Triperuno, Genio, Melpomene, Tecnilla, Ancliinia,
Urania, Euterpe.
Entra per primo in scena Triperuno con un prologo
in terza rima, quale l'hanno i più grandi poeti da Omero
a Tasso, nel quale espone le difficoltà grandi che ha da
vincere ' per compiere Y ideato lavoro, e il fermo propo-
sito di superarle.
Al terzo verso egli asserisce erroneamente che la
via per la quale si mosse non fu forse da niun altra
intesa, perchè come dissi, Dante fra altri, la percorse
prima di lui. Conchiude poi col dire, clie i suoi versi
sono
D' amor almanco e carilade in cima,
Se non toscani, ben sonori e tersi.
e quindi, da una parte inspirandosi al concetto dantesco
espresso in quel verso : vogliamo il lungo studio e il
grande amore^ e dall'altra caratterizzando giustamente i
suoi versi.
Al prologo tiene dietro un lungo capitolo pure in
terza rima, dello stesso Triperuno, nel quale il Folengo
esposto il suo nascimento, narra la grande brama di co-
noscere le verità recondite e come lo studio di esse lo
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LV
attrasse tanto che gli fece perdere la serenità della fede,
gli nacque nell'animo il dubbio e lo sconforto
Ofìde fui d'oìTibra pieno e di sol voto.
E in questo stato non bada più che tanto al saggio
ammonimento che Genio gli fa di frenare l'orgoglio della
mente, nella seguente canzonetta; né miglior fortuna ha
l'avviso che saggia donna gli dà e il tentativo che fa di
ricacciarlo dal mal passo, come narra nel capitolo in
terza rima di Triperuno, che egli vi si ostina ancora più
fortemente.
Il primo scoglio contro il quale venne ad urtarsi il
suo intelletto, e che gli scosse la fede fu il peccato di
Adamo, e tutte le sue conseguenze, pag. ) 9 : il secondo
furono le condizioni meno buone in cui nasce l'uomo in
confronto degli animali, e lo fa dire a Melpomene nella
canzone, pag. 23, 24.
Per verità, quanto è seria la prima altrettanto è
leggera la seconda.
Nel lungo capitolo di Triperuno, pag. 25, gli ap-
pare la madre natura, Almafisa, per toglierli i dubbi dalla
mente, mostrargli, come tutto compensi nell'uomo il suo
etemo destino, l' intelletto industrioso, Anchinia, che Dio
gli ha dato, la scienza, Tecnilla che tutto gli spiega il
naturale e lo persuade del sovra naturale, quella scienza
che un dì lo ricovererà in casa Orsini.
Viene poscia un lungo dibattito, che degenera an-
che in diatriba, fra Anchinia e Tecnilla, sulla educa-
zione e istruzione del fanciullo in genere, ed in specie
del Folengo, volendo questa andare a passi celeri, quella
lenta e misurata, onde la scienza entri nella mente del
fanciullo di pari passo dello sviluppo fisico.
.^- _ . Digitized by
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— LVI —
Nel capìtolo che viene dopo di Triperuno fa a;^*
lire Almafisa, la Natui-a, clie acquieta, col suo canto,
Anclnnia e Tecnilla e le costringe a fare una danza as-
sieme. Ed egli che ascolta quella dolce e soave armonia,
baml)ino ancora avvolto nelle fascie, con grande sforzo
se ne libera, ma volendo reggersi in piedi e camminare,
le forze non gli bastano per cui cade, e allora Anchinia
lo soccorre e lo raccoglie su di un carro a ti*e ruote e
lo medica delle ferite riportate al viso.
Qui il Folengo include un doppio senso, il letterale,
che riguarda le sorti e le condizioni del bambino in fa-
scie, e poi anche rallegorico, vale a dire lo stato della
sua mente, che nella fanciullezza essendo ancora bam-
bina, e predominando in lui la presunzione, lo fa cadere
negli errori, che gli guastano il viso, cioè la riputazione,
onde abbisogna di Anchinia, che lo rileva, lo corregge,
lo risana delle sue aberrazioni e gli infonde tanta forza,
In fin che da nie stesso^ a poco, a poco
Ir poscia^ senza il carro ed altro duce.
Nella canzone, che segue di Urania, è celebrata
r armonia delle tre dee, Almafisa, Anchinia e Tecnilla,
che mantengono V ordine nelF universo, e che prese per
guida dall'uomo, avido di sapere, lo tengono nei limiti
dovuti, e da esse guidato lo conducono ai suoi alti de-
stini in cielo.
E questo concetto ,è espresso anche dai capiversi
della stessa canzone, i quali dicono:
Concordantia durant cuncla naturai Federa.
Nel breve capitolo di Triperuno, dice che cresciuto di
etji, di forze e di sapere, la madre Natura amorosamente
la raccoglie e riconduce
D* innumerabil figli dentro il stola
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— LVTI —
cioè nella famiglia religiosa, dove passa felici ì begli
anni della giovinezza e dell'innocenza, dove nelF
.... aurea stagione di accada
Vissi gran tempo sempUce bambino
cioè bambino di aiiimo e di sentimento, tranquiliis^atÀ
dai primi dubbi, ed aqaietato dagli assalti delle prime
passioni.
Chiude la Selva con una cannone di Eutoi^pe la
quale non è che un bellissimo e freschissimo Idillio di
questo suo stato di innocenza e di felicità che passa nel
paradiso terrestre.
La canzone ha per titolo : De la ptierizia e aurea
stagione^ e questo titolo, col verso della canzonetta dì
Triperuno che ho riportato, ci indica il doppio senso
e del capitolo e della canzone, il letterale, e Tallegorico,
ma l'assieme delle due composizioni ci persuade che Tal-
legorico è il prevalente.
Cosi si chiude la Selva prima, il di cui commento
non riesci per nulla difficile, il che forse non sarà della
Selva seconda.
E riassumendo: in questa Selva egli narra la na-
scita sua, colle sue infelicità ed infermità, che abbisogna
delle cure alti-ui per essere riparato; le prime passioni
che vengono a sconvolgere gli animi dei giovinetti, e
sconvolgono anche il suo, i dubbi di fede e di credenza
che sopraggiunsero a turbargli la serenità della, mente,
finché, per ognuno di queste tie infelicità, cadendo e
sconciandosi il viso, e non valendo a rilevarsi da se, sop-
pragiugne Anchinia industi*e, come egli la chiama, che lo
risolleva, lo risana e lo fa robusto, onde la natura poi,
Almafisa, vedendolo forte di animo, di mente e di corpo
lo conduce a parte di numerosissima famiglia, la religiosa.
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— Lvm —
V.
DEL CAOS.
!• Della Selva seconda. — 2. D^e tre regioni allegoriche, la Malotta,
la Carossa, la Perissa* — 3. Del Centro e della fine del Caos.
V !• I personaggi che agiscono in questa Selva sono
\ poco più di quelli che figurano nelle altre due, e sono
' i seguenti, che segno nell'ordine stesso con cui fanno la
loro comparsa sulla scena: Tripeinino, Tersicore, Genio,
Merlin Cocai, Furore^ Limerno, Bellezza, Clio, Galauta,
Fulica,
Questa Selva la si può dire aspra e forte sì per
l'autore che per il commentatore. Il Folengo stesso, nella
breve prefazione, che vi ha posta, la chiama centro con-
fusissimo del Caos, e perchè di questa confusione se ne
avesse una adeguata immagine, la compose di prosa, versi
senza rime e con rime latine, maccheroneschi^ dialoghi^ e
d altra diversitade confusa ; però egli soggiugne : ma non
anco sé confusa e rammeschiata^ che dovendosi questo Caos
con Tintelletto nostro disciogliere^ tutti gli elementi non su-
hitamente sapessero al proprio lor seggio ritoimare.
Questo ordinamento di elementi confusi ed incerti
poteva farlo il Folengo con tutta facilità, e forse anche
i suoi intimi, e qualche contemporaneo, che conoscevano
sufficentemente bene gli accidenti della sua vita, ma non
si può dire altrettanto dei. suoi tardi nepoti in genere, ed
' in ispecie di colui che ripubblicando le sue opere, e scri-
.. vendo coteste pagine si è proposto di farlo conoscere ed
fe apprezzare quanto si merita, poiché dell' autore poco o
|. nulla se ne sa di accertato.
1L_
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lilX
Per il Folengo quindi la seconda Selva h confusa
per tutto ciò che di bizzarro gli accadde in questo se-
condo periodo della vita sua, che in tale guisa ci ha vo-
luto descrivere, per noi invece è €on&isa per tutto quello
che ignoriamo di lui.
Una nota melanconica, triste assai, egli ha posto nel
primo esametro dell'esastico del frontespizio, la quale ci
fa conoscere quanto gli tornasse amaro il ricordo dei
giorni lieti e felici passati nella sua Mantova, nel pe-
riodo della fanciullezza, ora che sbalestrato dalle sue è
dalle altrui passioni viveva di una vita agitata e con-
vulsa. La mia barchetta, dice, solita a . scorrere placida e
tranquilla fra le folaghe del Mincio, ora è sul mare, in
balia di acque furiose, facendo così eco a Dante che
disse :
Nessun maggior dolore
Che ricordarsi del tempo felice
Nella miseria. . . •
E soltanto, come soggiugne nei due esametri se-
guenti, ha conforto il trovarsi, in casa Orsini, all'ombra
della grande Orsa, guida sicura al navigante.
Dà principio alla Selva una canzone, alquanto oscura,
in ottava rima, di Triperuno, nella quale si propone di
narrare tutte le sue peripezie, intellettuali, morali, ed in-
dividuali, ai popoli della teira, e che poscia il libro, qual
tavola votiva sia appesa in qualche tempio, o scolpito in
duro e polito sasso, af&nchè sia di ammaestramento a
chiunque per scegliere la via buona, allorché sarà posto
al bivio delle due, la buona e la cattiva. E nell' ultima
stanza si augura che altri abbiano una volontà diversa
dalla sua, che lo travolse in tanti affanni, e che lo fece
cadere da tanta altezza in così basso luogo. . ......
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— LX —
E^li dice che a tanta jattara pervenne mosso dal
desiOj che sebbene non dica quale sia, pure fu complesso,
ma che la maggior parte ve la ebbe la vivacità del suo
carattere e del suo ingegno, ed un' immensa brama di
apprendere i misteri delle scienze naturali e fisiche, che
gli hanno così tanto torturato la mente e T intelletto.
Nel capitolo che segue espone come egli. al finire
della aurea età della fanciullezza, entri a far pai-te della
famiglia religiosa dei benedettini, e lo conferma anche la
prima parte dell'anagramma, fatto dai capiversi del ca-
pitolo: Divi Benedicti regtda^ sub qunm ipse militaUittis^
jam ingrediar ....
niella quale famiglia trova la quiete, la pace, T ordine, la
earitk, cosi che egli è felicissimo di appartenervi. Ed è
confortato anche ad entrarvi da donna che gli appare
dal cielo. Altea.
Tersicore poi, nel sonetto che segue, lo avvisa di stare
saldo nel proposito, ad armarsi di fermezza, poiché veri^
un lupo, e in esso adombra lo Squarcialupi, il quale
introdurrà leggi nuove, in pregiudizio delle antiche, e
con esse porterà discordia grande, e rovina somma nei
benedettini.
Sopraviene di nuovo Tripenmo il quale, in una
lunga canzone in ottava rima, espone come egli non sia
stato saldo agli ammonimenti di Altea e Tersicore, e
come e perchè ciò sia accaduto, ed ora che è al sicm'o da
ogni molestia, in casa Orsini si proponga di dir chiaro
senza alcun riguardo. Poscia si fa a narrare come gli sia
accaduto di vedere la nascita di Gesù e i presagi della
Bì» futura passione.
Genio quindi fa una lunga parlata in prosa per
esporre i misteri della redenzione umana fatta da Cristo
per mezzo della sua incarnazione, e i benefici che ruomo
ne raccolse.
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— LXI
Un sonetto, oscuro assai è cantato da quattro Ange£,
che addimostra la forza irresistibile della inclinazione, in
noi, la quale non può essere vinta dall'uomo ma sol-
tanto da Dio.
Triperuno, quindi, nel capitolo che viene dopo, narra
le grandi discordie sorte nella famiglia di quei pastori,
1 Benedettini, nei quali egli si era ricoverato, . in ma-
niera che:
Non più dramme d^amor^ non più pace
Tra quelli oi^mai si trova
percui Genio invita la mistica famiglia di Giuseppe e
Maria, col pargoletto Cristo a fuggirsi in Egitto, ed il
Folengo che stava contemplando una scena cosi straziante,
non visto, in luogo appartato, si scopre e chiesta la ca-
gione di tanto scempio, un vecchio gli risponde
non m* accorsi
Avvolto in un agnèllo esser un lupo
e il lupo non era altro che quello preconizzato gik da
Tersicore, e quindi lo Squarcialupi, e questo senso è con*
fermato dall'anagramma che incomincia coi capiversi di
qaesta canzone di Triperuno, il quale anagramma dice :
Verun Ignatii Fiorentini tanta ambitio ut illa puritas ani"
morum penitus corrupta deciderit.
n vecchio, che svela al Folengo la cagione della
discordia dei Benedettini, è l'abate Cornagianni, vene-
rando per età e virtù, il quale prorompe in un ango-
scioso lamento, dopo del quale, come narra Triperuno,
vinto dall'ambascia muore di crepacuore.
Sovra la tomba poi, del frate santo vengono deposti
Carmi leggiadn e nme di gran 9ono, fra i quaU àwi un-
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— LXII
che quello stranissimo del Folengo a pag. 64, che in
nota credo di avere spiegato.
Del Cornagianni ne abbiamo un cenno in un verso
deir Egloga sesta della Zanitonella v. I p. 45, col quale
allude alla sua morte repentina :
CoDieus Ime animam profvdit sorte lohamies.
Il Folengo quindi esce dal chiestilo e non per al-
cuna sua cagione, che anzi lui non prende parte alle
discordie dei frati, poiché se ne sta timido spettatore in
disparte, ma come vittima innocente delle male arti dello
Squarcialupi.
Almeno questo è qwello che egli ci fa intendere, e
vuole che sia inteso.
Di qui ha principio la vita avventiu^osa, della quale
se ne sa cosi poco, e cosi poco ce ne dice lui in questa
Selva, per giunta avvolta in si nebulosa metafora.
Uscito dal chiostro, nella piena balia di sé stesso,
vago di avventure, in quella età nella quale F ignoto ed
il nuovo sono una vera necessità all'animo, trovasi com-
battuto da due opposte tendenze. Le quali tendenze, e
la lotta che fra loro in lui combattono, le descrive nel
lungo capitolo, in ottava rima, Triperuno.
Tm donna pallida in volto magra e macilente
che gli appare, rappresenta le tendenze tutte umane, la
quale poi subendo diverse strane metamorfosi, tutte allego-
riche, gli si presenta in ultimo colle apparenze di bel-
lissima e montata su bianco palafreno, che passandogU,
a gran corsa, davanti, preso da forza arcana, se lo tra-
scina dietro, finché giugne, dopo lunga corsa al tempio
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— LXIII —
delle voluttà. Ma qui ha altra apparizione di donna che
nelle sue mani tiene ed agita un cribro
D'acqua ripieno e goscia non si versa
la quale gli impedisce d'entrare nel tempio fatale, e gli
indica la via che egli deve percori'ere, la destra, nella
quale, essa gli dice
di grado in grado
Montando^ e non col volo di fortuna^
Vedrai quel ben che 'n se virtù raguna.
Di qui nasce in lui un fiero contrasto, raffigurato dalla
lotta che s' impegna fra le due donne, che è fatta cessare
da Eleuterìa, la quale consiglia essa pure a scegliere la
via buona, e la sceglie, seguendo.
di Nursia il saggio spirto.
Ma, tuttavia, altre seduzioni non gli mancano, ed altri
contrasti egli deve sostenere, finché la vittoria rimane
definitivamente al bene, e alla virtù.
E a raddorcirgli l'animo ed a consolarlo alquanto,
gli appare
uomo lietOy grasso e bello
Merlin Cocai, che lo abbraccia e bacia come fratello,
e gli canta un lungo capitolo maccaronico, non nuovo nel
concetto, poiché non ripete se non ciò che disse della
nascita di Baldo, dei suoi compagni e delle loro prodezze.
L'esposizione soltanto è diversa, ma esilerante.
Qui si apre un intermezzo allegorico dei tre carat-
teri da lui rappresentati nei tre personaggi. Merlino, Li-
memo e Fulica,, che li fa raffigurare da tre regioni diverse
^^.J^Bii& '
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— LXIV —
tra loro di nome e di natara, in ognuna delle quali
[ vive uno dei tre personaggi, cioè la regione Carosaa,
I dove regna Merlin Gocai con Triperuno, la Matotta nella
j>.* quale sta Limerno, e la Perissa di Fulica.
r II carattere di ciascuna regione ed il suo abitatore
r * ci sono indicati da Triperuno, nella sua dichiarazione, a
pag. 89. La Carossa è piena di lardo, butirro, maccheroni,
brode grasse; la Matotta è piena di fontane di acqua,
lauri, mirti, faggi, un vero parnaso apollineo; la terza,
y. ' è come F Arabia peti*ea, sassosa, squallida, rigida, sterile,
degna dell'eremita Fulica,
Nella Carossa agiscono soltanto Furore, Triperuno
( e Merlino, il quale esordisce col suo lungo capitolo mac-
cheronico nella forma e nel concetto suaccennati.
Ma finalmante, Triperuno tronca il dire di Merlino,
• e s'avvia da lui seguito, per ricercare la vaga ninfa, e
giugne ad un luogo nel quale trova il paradiso macche-
ronico, fiumi di latte, laghi di falerno, valli di maccheroni
e di lasagne ecc. e gente che vi stava bevendo, man-
giando, cantando, pag. 82 e seguenti. Viene quindi in
ecena, pag. 84, il Furore bacchico, il quale in una can-
zone maccheronica felicita Triperuno, tenero e galante, di
esssere giunto al regno beato, e Triperuno, eccitato da
Furore, canta una canzonetta di sette versi atea e mate-
rialista.
Segue poi una gara tra Merlino e Triperuno, quello
di maccheronico, questi di materialismo, finché Triperuno
stesso finisce col cantare concetti maccheronici, esprimendo
il fermo proposito di starsene sempre con Merlino suo
maestro e guida.
Ma tutta cotesta scena maccheronica ha una parte
seria, gravemente seria, nel lungo anagramma e violen-
tissimo contro lo Squarcialupi, autore delle discordie be-
nedettine : Unica qm fuerat Benedicii regula sacri^ mo-
15
>
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^PFWi'^
— LXV —
ribus Ignatii stercore feda pufret Virtutes abiere omnes;
dii veì^ite soriem Nursintj ìit redeat pristina norma Pafris.
La regione di Matotta si apre con una parlata, tutta
maccheronica, di prosa italiana, di Triperuno, la quale
parlata è interrotta dalFapparire di un damigello, daspetto
molto gentile e saputo^ Linierno, il quale suonando una
cetra canta un sonetto in lode di una dama ignota, bel-
lissimo, degno del Petrarca.
Limerno canta altri due sonetti, intramezzati da brevi
parlate ai Triperuno.
Nel dialogo tra Merlino e Limerno ò discusso il
pregio della lingua toscana, e della latina. Merlino esalta
questa, Limerno Taltm, il che vuole dire che il Folengo
faceva un giudizio eguale delle due lingue, quella di Vir-
gilio e Cicerone e quella di Dante, Boccaccio e Petrarca.
• K singolare la dichiarazione di Merlino che egli non
ha nulla da invidiare a Vij-gilio, perdio nel suo idioma
ritiene di non aver superiore alcuno ; la quale dichiara-
zione sbugiarda la leggenda avere egli scritto in lingua
maccheronica per una gara virgiliana non vinta.
Dedica poi due sonetti ad Andrea Gritti, doge di
Venezia, magnificandone le virtfi, e ringraziandolo di
avergli accordata una udienza.
Nel Dialogo, che viene dopo, tra Limerno e Merlino
disputasi della inanità e -poca convenienza dei loro pseu-
donimi, della tendenza di Merlino per la crapula. Merlino
non solo dichiara che in essa sta lunico bene deiruomo,
ma, come necessaria conseguenza, ripete anche un'ampia
professione di materialismo. jMentre Limerno lo eccita a
nobili passioni, prima delle quali, e che genera tutte le
altre, quella dell' amoro.
Viene poi una gara poetica tra T uno e T altro per-
sonaggio, di poco valore nella quale, Limerno pnrla della
sua prima istruzione, su quel di Ferrara, e Merlino del
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n^puf^w 'L«tJ,fi'
LXVl —
SUO poco grato soggiorno in questa città. Del resto non
vi ha nulla di notevole, né nel capitolo in terza rima di
Limemo, pag, 104, né in quello maccheronico di Merlino,
che lo segue, è nemmeno nei loro dialoghi, nei quali i
due personaggi non fanno che ripetere i sentimenti
espressi precedentemente.
Dopo ciò, Limerno fa un lungo soliloquio in prosa
ed in versi, la più parte sonetti petrarcheschi, tutti in
lode di bellissima donna, che dai capiversi del Madri-
gale, a pag. 110, si intende avere nome Giustina- Grivr
stina Diva.
Che sia una donna vera, od immaginaria, che si
adombri in essa Tordi ne dei benedettini, essendo il grande
chiostro di Padova dedicato a santa Giustina, non vi è
modo di intendere; credo però che la terza ipotesi sia
meno probabile delle altre due. E la canzone - Laménto
di Bellezza - a pag. 114, pare che escluda affatto la
terza ipotesi, lasciando intere ed eguali le altre due : Dice
infatti Bellezza fra altro:
Io son, perchè ti miro star sospeso,
Vana beltà, che orna di gigli e rose
Sol de le doline i volti
il che non direbbe se, non una donna vera od immagi-
naria, ma la famiglia benedettina simboleggiasse.
Nei capiversi delle sette stanze, delle quali è com-
posta la canzone, ripete sette volte il nome di Jtbstina.
Si ha poi un breve capitolo di Clio, che porta il
titolo • Centro di questo Caos^ detto Labirinto. E il Caos
o Labirinto di Clio non è altro che la vita umana, o
meglio la follia grande di coloro che
. . . m terra stando, V animo da terra
Non leva al del
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LXVII —
ma nelle cose terrestri, e nel godimento loro vie più si
ingolfa, nel quale poi trova la sua punizione.
Enti-a poi in scena Triperuno con due capitoli in
ottava rima. Egli, vinto del canto di Limemo, si per-
suade di abbandonare il maestro Merlino e la sua vita
epicurea e di darsi tutto alla poesia ed allo spiritualismo
di Limerno, e questi di buon grado accogliendolo, gli
ordina di gettarsi nel rivo che bagna la regione, di la-
varvisi bene, dopo di che è presentato da Limemo alla
regina di Matotta, Venere, la quale dallo stuolo delle sue
Ninfe, ne sceglie una di sedici anni, bellissima, Galanta,
e gliela dà per amante, o dea, ordinandogli di amarla e
di cantarne i pregi.
Ma questo amore gli cagiona poi infiniti affanni, e
tormenti
Tal die U mio dolce al fin divenne amaro.
per opera di una Laura, che dice poi non essere che
una Larva, invidiosa del loro amore, la quale tanto fa
che Triperuno ne diviene infelicissimo, e contro di co-
testa Laura e delle sue male arti, detta il sonetto che
è dopo il capitolo.
I due capitoli di Triperuno hanno nei loro capiversi
questo altro anagramma in due distici,
Sueverat, obstricto lauro cellisque remotiSy
Occultata urbis litibus esse procul
At nunCy inflato incedit Justina cuculio^
Atque gateratis optai inesse Tognis,
il quale, anagramma alludendo ai disordini dei bene-
dettini e forse a quelli del chiostro di Padova, e al tra-
viamento dei boni costumi, galeratis optai inesse Tognis^
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LXVIII
ci fa credere che in Galanta si adombri Tordine dei be-
nedettini, e nella Laura che corrompe la felicità di Tri-
peruno per Galanta, lo Squarcialupi.
Dopo ciò è lodata e cantata un altra donna, e que-
sta una donna vera, Gironima Dieda, poi Caterina moglie
di Roberto Delle Rovere, uccisa dal marito, alla quale
Tripenino aveva mandato un sonetto, che accompagnava
il dono di un paia di guanti.
Nel Dialogo, a pag. 127, Triperuno e Limemo parhmo
ancora delle male arti di Laura, però Triperuno è con-
fortato da Limerno che non perderà mai l'amore di Ga-
lanta. Limerno ammonisce Triperuno di essere stato im-
prudente a scrivere quello che ha scritto, e d' ora in poi
di non fare nulla senza il di lui consiglio, infine Limerno
invita Triperuno a sentire quattro sonetti da lui com-
►^^ posti sulle carte da giuoco.
'' Il terzo sonetto contiene una acerba invettiva con-
tro il Papa, che forse è Clemente VII e V imperatore
Carlo V, perchè invece che contro il turco, V imperiale
furore è rivolto contro Francia, e la chiesa è governata
da una donna, Marcin.
Questo sonetto come dissi, nella prima edizione ha
molte lacune, che ne tolgono il senso, ma è completo
nella seconda.
Dopo ciò i due personaggi, mettendosi a confabu-
lare tra loro, con lieta sorpresa, pag. 133, veggono Ta-
nacoreta Fulica, che lasciata Perissa, veniva in Matotta.
Nella fine del dialogo, pag. 134, Fulica dichiara
che le tre regioni Carossa, Matotta e Perissa non sono
che un labirinto di errori, e che lui stesso per conto
suo ha riconosciuto essere una vera sciocchezza e super-
stizia il radersi il capo, portare cilicio.
L' entrata di Fulica in Matotta. è cagione di un
nuovo capitolo detto \ Asinaria^ perchè vi introduce un
asino a parlare.
J-
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— LXIX
Precede un Dialogo fra i tre personaggi, Fulica,
Limerno, Triperunq.
Fulica in una sua parlata dice che dopo di essersi
dato allo studio della filosofia naturale, e a cercare le
proprietà delle cose non ebbe pii\ l'animo tranquillo e
quieto, ma conturbato da incertezze e dubbi. Vede una
contradizione tra il risultato dei suoi studii e i decreti
pontificii, gli insegnamenti dei moderni dottori in teolo-
gia, nemici della vera fede e della dottrina dei padri
della chiesa. E ciò è V origine sì delle sette che del-
l' incredulità.
Parla poscia il mistico asino, il quale si scaglia
contro coloro che prestano troppo facile fede a visioni,
e racconti, poiché generano Terrore e la superstizione,
in quella guisa che la credulità grande di Adamo nel
sei-pente portò la rovina morale nel genere umano.
Dopo una breve interruzione, lasino ripiglia a par-
lare e si propone di dimostrare ai compagni che il mondo
esteriore non è iena vana specie j ma una realtà. Am-
mette il libero arbitrio umano, lordinamento ad un dato
fine delle cose e delle esistenze, e questo ordinamento
lo confonde colla proprietà dei corpi, alcune delle quali
egli le ritiene assolute, contro la giusta opinione di altri
che le dicevano relative, o non esistenti, come il colore,
il sapore, il calorico, Ammette esattamente il peso dei •
corpi.
Così pure è nel vero soltanto in parte quando as-
serisce che la proprietà dei corpi sono indipendenti dalle
nostre opinioni, vale a dire quando si tratta della pro-
prietà assoluta, come il peso, il volume eco, ma non delle
altre che ho enumerate che egli metteva a pari di
queste.
Dal libero arbitrio umano cava il libero arbitrio ^'^
assoluto di Dio, e da questo l'onnipotenza e Tonniscienza.
j
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— LXX
Finisce la sua disertazione eoli' ammettere possibile
che si ripeta un fatto già accaduto neir ordine fisico e
morale.
Le cognizioni delle scienze fisiche e naturali, o come
si diceva allora, e lo dice il Folengo stesso, della filo-
sofia naturale, non erano molte, ma i concetti suoi erano
esatti per la massima parte. Di ciò conviene fargli un
merito non piccolo, mentre della sua scarsa scienza non
si può fargli alcun biasimo, poiché egli se non ne sa-
peva di più, non ne sapeva neanche di meno di quello
che allora se ne conoscesse generalmente dai dotti d'al-
lora intorno a cotesta materia. E dico dotti, perchè di
scienziati veri non se ne avevano. Quegli ingegni che
non si erano dati alle lettere, od alla filosofia, propria-
mente detta, e che si applicavano allo studio della natura
e delle sue leggi, vagavano nell'incerto e nell'indeter-
minato. Non vi era principio matematicamente determi-
nato. Si professavano le più opposte ipotesi sull'esistenza
dei corpi e sulle loro proprietà, confondendo spesso
queste coi loro effetti, od ammettendo come proprietà
ciò che non era che l' effetto di una nostra particolare
sensazione, come è a dirsi dei sapori. E sebbene il Fo-
lengo nel Baldo e nel Caos faccia conoscere di avere
seriamente studiato le scienze naturali ed astronomiche,
percui si intende avere egli appreso quanto allora se ne
sapeva, non. solo, ma di avere anche rifiutati non pochi
errori, ammessi come verità e di essersi appalesato con
ciò ingegno robusto ed indagatore, di avere le qualità
necessarie di divenire un distinto scienziato, se fosse vis-
suto in altri tempi, nei nosti'i, a modo di esempio, cio-
nonostante paga il suo tributo ai tempi suoi che in ta-
lune cose non distinguevano il puerile dal serio, e lo
paga specialmente nel capitolo a pag, 188, di Triperuno
solOj nel quale parla delle api e delle formiche.
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I
"^Sf"
— LXXI
È un vero idillio georgico grazioso assai, ma scien-
tificamente non è molto serio, mentile il Folengo lo cre-
dette, e allora lo era di sicm'o, scientificamente impor-
tante.
Fulica, nel viaggio da Perissa a Matotta, secondo le
regole monastiche, era accompagnato da altro frate, il
nome del quale, Liberato, era simbolo di quella riabili-
tazione morale, che lo doveva restituire al chiostro. E di
questa riabilitazione ne era altresì un simbolo, T abban-
dono di Carossa per parte di Merlino e Triperuno, la
loro venuta, e quella anche di Fulica, accompagnato da
Liberato, in Matotta. Fulica, poi, lo presagisce aperta-
mente a Triperuno, pag. 147 annuTizioti che in
breve cangerai vita e costumi in assai migliore stato.
Nel capitolo in prosa di Fulica, pag. 150, l'asino si
fa ad inveire acerbamente contro il fasto, la superbia ed
i corrotti costumi dei grandi prelati, indamo ammonito
da Liberato ad essere prudente e guardingo nel parlare,
poiché potrebbe essere vittima di vendette per parte
degli oflfesi.
Canta Triperuno, nell'ultimo capitolo della Selva, le
vicende fatali della sua Galanta.
Egli era per accompagnare il vecchio horu)^ Fulica,
nell' ascesa di un poggio, quando il suo orecchio è cru-
delmente colpito da grida di dolore e si vede passare
avanti correndo, scarmigliata, una vaghissima donzella, la
sua Galanta, inseguita dalla vecchia Laura, o meglio
Lai'va
Rompea la meschina Vaere intorno.
Con alte strida e son di petto e muni.
Egli la vede giugnere nel fondo di un vallone, e
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LXXII
quivi, con sua dolorosissima sorpresa, la scorge, d'un
tratto, mutarsi
^* ' In ima plcciol fonna di Mastella^
ed indi
Ramparsi lungo al fusto di un sambuco
Lam-a allora abbandona la sua preda, e Triperuno che,
^ non visto era stato presente alla scena straziante ....
: * nel folto di una macchia^ ne esce e va appresso a Ga-
^ lauta, tramutata in Mustella, la chiama, la raccoglie nel
'i suo seno, e con essa, fugge in Perissa, e si ricovera
In una grolla sol per fiere usata,
nella quale dice di vivere molti anni, senza mutarsi di
abito, curare la nettezza della persona e di
\
i Nudrirsi d' erbe, more, fraghe e giande,
-- Destarsi a mez-zanotte e macerarsi
Il corpo già omicida di se slesso.
Corcarsi sulle frondi, o in len'a nuda,
Aì^ecarsi a gran merlo il gire scalzo,
Vender se stesso ad allibi, non avere
Il proprio arbitrio
Alfin, essendo sotto V altrui voglia
Tolta mi fu la mia dolce Galania.
Il quadro è tetro ed il senso non meno oscuro; ad
ogni modo avendo precedentemente creduto di ricono-
V^^ scere in Galanta lordine dei Benedettini, morale, santo,
panni, che qui l'ipotesi resti confermata,
j Galanta è data, dalla grande regina del bello, per
] amante al Folengo, nell'età di sedici anni, e sedici anni
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LXXIII
dice egli che aveva allorché si fece frate. Galanta è l'ideale
del suo amore ed a questo amore egli consacra se stesso.
Ma la bellissima giovane è spietatamente perseguitata e
crudelmente flagellata da una Laura, o Larva, finché sotto
l'impero di una tale persecuzione si tramuta in una gen-
tile Mustella e r^tta si arrampica sopra una pianta di
sambuco.
In questa metamorfosi il Folengo non perde Tamore
della sua amata, che anzi raccoltala nel suo seno, amo-
rosamente ve la tiene custodita e curata per molti anni,
n che mi sembra che voglia dire che lasciato il chiostro,
non si smarrisce da lui V amore alla famiglia religiosa,
ma che lo conserva caldo ed intatto anche nella vita
avventurosa. E questo senso è confermato da versi che
si leggono più avanti
Vivendo sempre, tanto 2^icinsi ed arsi,
Arsi di amore e 2^i^f^isi di dolore.
La Laura, o Larva^ poi, e ce lo dice il Folengo stesso,
non è che lo Squarcialupi, il quale, alla pur fine ottiene
il suo intento, lo scopo delle sue arti malvagie, la di-
gnità suprema dell'ordine religioso e
Laura qui ottenne il seggio
e allora ogni sorta di animali rapaci ed immondi riem-
j^ie i mistici boschi, cioè i chiostri dei benedettini
, . boschi e selve
Monti, valli, spelonche, fiuìni e stagni,
E Galanta diviene in fine preda di altri mentre il Folengo
7iel pili profondo
Età del Caos, centro e labirinto,
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i.
LXXIV
cioè durante la vita avventurosa. Chi ebbe la gentile
Mustella fu Grifalcone, colui che è Foggetto dei versi del
frontispizio della terza Selva, il quale fa morire di morte
misteriosa la gentile bestiola :
to^
Ella moì-ì chiamando Triperuno^
il quale, fatto fare un bellissimo vaso di alabastro, vi
compone entro il corpicino della morte.
Questa interpretazione poi viene confermata dai ca-
piversi del capitolo, i quali costituiscono una acerba in-
vettiva contro lo Squarcialupi, che viene qualificato di-
struttore dell'ordine benedettino.
Egnatius Sqitarcialupus destructor religionis divi Be-
nedicti, Laure sihi nomeìi veìidicavit At Larvam illum
appellandum esse censemtis.
Del significato, quindi, della allegoria, non vi ha
alcun dubbio, od incertezza.
Lo Squarcialupi è la Laura, o meglio Larva, fu-
nesta a Galanta ed a Triperuno. La prima ne ha la
metamorfosi e la morte, il secondo mille affanni ed av-
venture dolorose, adombrate nei versi che ho riportati
precedentemente.
Morta Mustella, e deposta nel bel vaso, Grifalcone,
Fulica, Merlino, Limerno, un Paolo F. forse Paolo Or-
sini, figlio, un Marco C. un Isidoro C. forse Isidoro
Chiarino, nominato nel dialogo a pag. 124, compongono
diversi epitaffii sul tumulo di Galanta.
Alla morte di Galanta, si trovano quindi in Perissa
con Triperuno, anche Merlino, Limerno, e Fulica, in
quale maniera il Folengo non dice, ma tutti concordi vi
compongono gli epitaffii in lode e compianto di Galanta
e ciò conferma quel senso che ripetutamente ho dato ; che
il Folengo nei diversi aspetti, coi quali si presenta, mediante
le sue opere, nonostante le apparenze in contrario, resta
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LXXV
sempre morale. Merlino non lo è meno di Limemo e di
Fulica, e Triperuno, ma tutti in modo eguale. E Tripe-
iTino infine, a conferma di ciò, chiude con una confes-
sione a Dio, in esametri, nella quale chiede perdono per
tutto ciò che VI può essere di riprovevole nelle sue opere
maccheroniche - volumen nugarum - deplorando di avere
passata la miglior parte della vita, quella della giovi-
nezza, nel comporre opere futili e non serie.
Resta però sempre un enigma il quadi'o della vita
affannosa ed aspra che egli conduce, per mesi ed anni
molti in Perissa. Né pia chiaro riesce il rapimento di
Mu stella, e la sua uccisione fatta da Grifalcone, che la
strinse tra Fuscio e il muro^ e l'amicizia e la stima che,
ciò nonostante, il Folengo conserva a Grifalcone.
È un punto cotesto del quale non so fare alcun
commento.
3. Il Centro del Caos è indicato dallo stesso Fo-
lengo e principia colla canzone di Clio, pag. 116 ed è
costituito della riunione in Matotta dei quattro personaggi
Merlino, Limerno, Fulica e Triperuno, della esposizione
dei loro sentimenti e delF allegorico amore di Triperuno
per Galanta, e giugne sino a pag. 151, alla canzone di
Triperuno, nella quale è narrata la morte di Galanta.
Questa canzone, e quindi la morte di Galanta, costi-
tuisce la fine del Caos, che ha per corrolario la serie
degli epitaffi posti sulla di lei tomba. La Selva terza,
come quella che narra il risorgimento morale, sociale del
Folengo esce dal Caos propriamente detto e fa parte da se.
Il Folengo chiama questa parte Centro, perchè real-
mente in essa vengono esposte, in veste mistica ed alle-
legoiica, le fasi morali sue per le quali è passato dal-
l' abbandono del chiostro sino al ravvedimento. È per lui
queiromdo Caos nel quale era precipitato e dal quale
era ben determinato di uscire.
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LXXVI —
Ma è anche il eentro del libro, perchè in esso l'au-
tore ha fatto convergere, come in un centro luminoso,
la manifestazione di tutte coleste vicende morali e perso-
nali, r esposizione di quella fiera hattaglia, che in lui si
combatteva, tra la fede nel sopranaturale i lenocinii della
filosofìa naturale, che lo attiravano al razionalismo.
Dall' esame attento che ho ftitto di cotesta parte
principale del libro, dalla qunle, a detta del Folengo stesso,
secondo quel verso, che riportai a pag. lx che sperava
dir chiaro senza alcun rirj/tanìo^ pareva che si dovessero
conoscere tante cose intorno a lui, ed avere la spiega-
zione netta e chiara dei misteriosi fatti clic gli sono at-
tribuiti, ben poco ne potei cavare.
Questo chiaro che voleva esporre klla luce del sole,
perciò che riguarda le sue personali vicende, lo tenne
gelosamente e costantemente nascosto, e quindi nulla di
nulla di concreto si viene a sapere di lui.
Dei presunti suoi amori non si scopre di più, che
anzi sembra, e lo dissi anche, ripetutamente nella prefa-
zione ai primi due volumi, che si debbano escludere af-
fatto.
Il solo fatto che ci fa conoscere di lui si è che egli
abbandonò il chiostro per causa dello Squarcialupi, ma
le cagioni non ce le dice, cosi pure, mentre sono acerbi,
gli anagrammi e parecchi contro di cotesto personaggio,
per i disordini che cagionò nella grande famiglia be-
nedettina, non ci appalesa poi nulla di concreto su que-
sto argomento, soltanto dice che quei disordini nacquero
per le leggi nuove che lo Squarcialupi introdusse in
pregiudizio delle vecchie costituzioni.
Da ciò ne consegue che il Folengo, avendo voluta
esclusa la parte biografica dalla Selva seconda, questa
non abbia che un carattere morale e che sia quindi da
considerarla solamente sotto di questo aspetto.
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LXXVII —
Il volervi ravvisare un carattere diverso, il biogra-
fico, e tutto al piti questo misto al morale, non si fa-
rebbe altro che far traviare il giudizio e quindi ritenerla
una composizione mancante del suo vero scopo, e non
vedervi quei pregi non comuni, che in realtà possiede
nel rapporto letterario, d'invenzione, e di esposizione,
i quali pregi si appaleserebbero assai pifci di quello che per
avventura si scorgono ora, se del Folengo si conoscesse
bene quella vita morale, che egli ci ha voluto dipingere,
ora misticamente, ora allegoricamente in questa Selva.
L'azione dei personaggi la si intenderebbe meglio, così
pure lo svolgimento dei pensieri, dei concetti e la loro
ragione.
In questa Selva abbiamo un dramma psichico, nel
quale agiscono non personaggi veri ma allegorici, i quali
rappresentano, ognuno, una forza morale, e quindi eser-
citano un'azione conforme a questa forza. Ma tutta l'a-
bilità del Folengo nelFideare e mettere assieme codesto
dramma in parte solo possiamo intenderla, per la ragione
suddetta che non sappiamo le ragioni intime dell'azione
dei diversi personaggi, come del pari non possiamo co-
noscere la sua potenza drammatica dell'Atto della Pinta,
del quale forse questa Selva non è che il preludio, poiché
non se ne possiede che uno schema.
Allorché conosceremo cotesta vita intima del Fo-
lengo saremo anche in grado di fare un esame critico
oggettivo del Caos, specialmente di questa Selva seconda,
che né è la parte principale, vedremo allora e intende-
remo tutto il valore, nei suoi diversi aspetti di questa
bizzarra, ma ardita, poetica composizione, nella quale ha
drammatizzato le sue tendenze, le sue passioni, le sue
aberrazioni, le sue buone qualità, le sue virtfi. Un qua-
lunque studio critico, nello stato attuale, non sarebbe che
soggettivo e quindi privo di ogni serietà.
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— L3ncvin —
VI.
> DEL e AO S .
Della Selva terza.
L'interpretazione della terza Selva non presenta la
difficoltà della seconda e nemmeno della prima, giacché
il commento delle tre donne è sostanzialmente lo stesso,
i - ed apertamente dichiarato. È Cristo che, mosso a com-
f passione delle aberrazioni del Folengo, si determina di
\ trarlo sulla buona via e a tale intento gli apparisce e lo
ammonisce di ravvedersi dei suoi errori.
Francesco Grifalcone, al quale è dedicata la Selva
terza, il custode e l' autore della morte misteriosa di
Galanta, è un personaggio che mi è affatto ignoto. In-
significaaite poi all' argomento del Caos è il madrigale,
_^ lo chiamerò cosi, di dedica allo stesso Grifalcone, posto nel
frontespizio, poiché non fa che descrivere i capricci della
fortuna nella vicende umane; al contrario ha un signifi-
cato preciso e chiaro il sonetto che è nella pagina se-
guente, come quello che accenna al risorgimento morale
del Folengo,
Or sbiwo già qual nottula di tomba.
È un grazioso preludio al significato ed allo scopo
di cotesta Selva.
Nella prefazione, in prosa, che viene dopo, torna
ancora a ribadire i tre sensi della Selva, messi in bocca
alle tre donne, ma in maniera che bene si intende come
egli miri a che il lettore dei tre ne faccia uno solo, nella
quale unione sta intero il pensiero suo recondito.
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f
LXXIX
Nelle prime due canzoni, in ottava rima, Triperimo
espone le aben*azioni sue, e il suo ravvedimento, Nel-
r altra canzone, pag. 169, Figlio al Padre^ espone la
dottrina cattolica della Trinità, dei destini dell' uomo nel
mondo e in cielo, a seconda della via che sceglie, in forza
del suo libero arbitrio.
Sebbene il titolo del capitolo sia - Figlio al Padre^
pure esso è invece una parlata del Padre al Figlio, cioè
di Cristo a Triperuno, il quale ne riceve nell'animo tanta
impressione, che nella seguente canzone esprime sensi
di gratitudine e di ravvedimento.
Segue un dialogo, in versi tra Cristo e Triperuno.
Per primo Cristo si rivolge a Triperuno, dolcemente
lo rimprovera del misero stato in cui sé messo:
Or vengo a liberarti, spera e credi
gli dice; gli ofiFre la pace e l'amore suo, a patto che
doni se stesso a lui.
Dopo una gara di consigli e di moniti per parte di
Cristo, di promesse per parte di Triperuno, questi finisce
colla più completa sottomissione e col donare tutto se
stesso a Cristo
Ecco vi dono il cor, abbiate 7 sempre
Chiude cotesto idillio religioso una parlata di Talia,
pag. 177, nella quale ammonisce l'uomo che non nello
studio dei greci filosofi si trova il vero e la quiete del-
l' intelletto^ ma in Cristo soltanto - Al sol del sole ....
fonte della vera scienza e del vero amore per l'uomo.
In questa maniera il ravvedimento è compiuto, Tri-
peruno rientra per quella via, che egli deplora di avere
abbandonata, donde gli vennero tanti malanni, eiTori ed
aberrazioni, cosicché la parte che segue della Selva, egli
r intitola - Dissoluzione del Caos,
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I?5^
!..
V
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LXXX
Partesi Cristo, così espone Tripernno, pag. 178, e
U nel partire sente un grande suono, come di cosa che
Ik scoppia, ed è tutto cpianto T edificio scientifico che il
' Folengo si aveva costrutto, e che gli impediva di vedere
•t, il sole della verità; ma rotto l'incanto, egli lo vede distin-
\\: tamente ed ode anche le di lui parole che lo scongiu-
i"^. rano di non abbandonare mai la vista di Dio, di non
l'/ too^lier«:li il suo amore nello studio della natura.
\* OD
[ Triperuno che accetta grato gli ammonimenti del
► ' sole si incontra poi nella madre Natura
Mi si presenta ralla in bella goyinay
Che escie d' un bosco sola e grave donna.
colla quale ha un lungo dialogo in poesia, di forma di-
versa, nel quale la Natura gli ripete gli ammonimenti del
Sole di non lasciarsi più traviare nello studio delle
scienze naturali, in modo da perdere la fede
Non sia che alcun scopo mai V induca
Bel arbore vietato ancora al fruito
e il Folengo promette che questo non accadrà più, giac-
ché dice
Il cor a lui già diedi e ogni affetto
Ho di seguir e non lasciaìio unquanco.
In questo dialogo, il Folengo ripetutamente pai-la
della sferacità della terra, dal che si capisce come egli
ne fosse ben convinto.
Partesi la visione ed il Folengo ne rimane tutto
confortato, per cui facendosi ad esaminare la natm-a dei
piccoli animali, come il ragno, che tesse la sua tela stu-
penda, la fomìica così previdente, e più di tutto Tape
così industriosa, l'organizzazione del suo corpicino, della
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LXXXI —
famiglia sua, a monarcliia, le leggi che la governano,
ne trae argomento non gik di insuperbirsi, come in pas-
sato, ma per attribuire a Dìo il merito di avere concessi
a cotesti piccoli animali si belle doti, che li pongano in
grado di governarsi e mantenersi.
Si chiude la Selva con due capitoli di Triperuno, ed
un'altro intitolato - La Porta - e queste tre composi-
zioni portono il titolo di Paradiso terrestre.
Nel primo narrata la caduta degli Angeli per la
loro superbia, dice come l'arcangelo Michele discendendo
in terra vi costruisce un Paradiso terrestre, su di un al-
tissimo monte, nel quale regna sovrano il nome di Gesù.
Condotto nel meraviglioso luogo, serrato da quadrata
cinta, trova sulla porta di ingresso una scritta dipin-
tavi dai due angeli Michele e RaflPaelo, che lo invita ad
entrare per stare sommesso a Dio, di frenare la super-
bia, di non stendere più, come fece altre volte, la mano
ad uno dei due pomi vietati.
Entra quindi nel luogo santo, e ne ammira la somma
beltà ed i preziosi ornamenti, ne ode le sacre annonie,
ne vede i felici trastulli, ed in fine.
Quivi onoratamente fui raccolto
Da due barbati e candidi recchioni,
Enoch ed Eliseo, seguendo i quali ed accompagnato
da uno stuolo innumerevole di angioletti, che suonano,
cantano e ballano, entra in una stanza quadrata del mi-
stico palazzo, nel mezzo della quale trovasi la serpe, dal
viso umano, seduttrice degli uomini, che cagiona la morte
a tutti coloro che si lasciano vincere dalle sue male arti,
come fece lui, finché ne è ravvivato dal mistico pane, il
pane eucaristico, che lo fece ritornare alla grazia di Dio
e al quale scioglie un inno entusiastico.
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r
mm
LXXXII
i. Nelle ultime due sfcinze del capitolo, colle quali si
8^ chiude anche il Caos ripete la promessa, già fatta a pa-
fe gina 167, di scrivere un libro, intorno a Cristo come già
^' ' lo scrisse, portante il titolo: L'umanità dei figliuoli di Dio^
g":, , vale a dire su quello stesso punto della fede cattolica,
E; sul quale aveva vacillato, ora che illuminato da raggio
celeste, la sua mente vede chiaro ciò di cui prima non
sapeva persuadersi, ed è
Non più Merlino, Fulica e lAmeìnio
ma sol Triperuno
giacché egli ha esperimentato a proprio costo quanto
inganna/o al fin si troica
Chi lascia la via vecchia per la nova.
Il sacro recinto nel quale entra, invitatovi da Cristo
e nel quale colla comunione eucaristica. Tatto pih sublime
della credenza cattolica, consacra la sua sommissione in-
tera alla fede, simboleggia la Fede dalla quale si era
distaccato, ma forse anche l'ordine dei benedettini, al
quale, in questa maniera, preludia il ritorno.
Come compimento ed ultima prova della sincerità
^-^ della sua professione di fede, in due esametri, compose
un limo a queirurna d'oro la quale ha la fortuna di rac-
chiudere r f^ucaristia.
Seguono tre epigrammi latini, con anagrammi, un
sonetto in lode di Alberto da Carpi, ed una lettera, in
prosa italiana, contro un altro Alberto da Carpi, uno dei
detrattori, le quali composizioni sono estranee al Ca^s,
11» . .-:. Digitized by VjOOQiC
J
LXXXIII —
VII.
DEL CAOS
Il costrutto del Caos.
n Folengo, che si propose di esporre nel Caos le
fasi diverse morali e religiose, ed in parte anche le vi-
cende personali, per le quali è passato nel periodo della
sua vita avventurosa, onde provare che le acuse che gli
facevano di non religioso e naorale per avere scritto le
opere maccheroniche, non erano giuste e che egli si era
ravveduto di quegli errori, nei quali realmente era caduto,
e li confessa lui stesso, nell' intendimento di mostrarsi
degno di rientrare nella sua famiglia religiosa, possiamo
ora chiederci, raggiunse egli il triplice suo intento? Nel
Caos si intende tutto quanto si era proposto di fare in-
tendere al leggitore del libro ?
A questa ultima dimanda può servire di risposta
quanto dissi, per altro scopo a pag. lxyvii e cioè, che
se si tratta dei contemporanei del Folengo e di coloro
che conoscevano bene la di lui vita, specialmente di co-
loro che dovevano essere i giudici della sincerità e se-
rietà del suo ravvedimento, non vi ha dubbio che non
rabl>iano inteso bene; che se invece si tratta dei suoi
tardi nipoti, di noi, che di lui conosciamo così scarsa-
mente e male, un costrutto ben magro siamo in grado
di cavarci, più per la parte biografica, che per la morale,
tanto egli avvolse le cose che ha esposto, nel velo al-
legorico, e le ha diffusamente distemperate in mezzo a
tanti accidenti lottcrarii.
Per la morale ; due particolari interessanti, a mio
avviso, emergano chiari : il 1^ che i traviamenti erotici, .
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LXXXIV —
quale vennero asseriti dai biografi del poeta sembra che
si debbano escludere del tutto.
La donna che lo fa traviare^ che passandogli avanti
sopra- focoso cavallo se lo trascina dietro, quale si vede
anche disegnata sulla vignetta posta in testa alla Selva
seconda^, non è donna vera, ma una donna allegorica, la
filosofia naturale, dello studio della quale egli era inna-
morato, di che parlo più avanti. P] la Dieda stessa, dal
modo delicato e ragguardoso, con cui il Folengo la men-
ziona, dalle menzioni che fa di altre donne vere, non è
ammissibile che siano stato l'oggetto di quel amorazzo vol-
gare e sfrenato, che si ha voluto attribuirgli. Non intendo
di escludere che egli possa essere stato preso da nobih
passioni per qualche donna, forse per la Dieda stessa,
o per quella alla quale dona i guanti, a pag. 125, o per
la Catterina che fu uccisa dal marito ; la sarebbe, nel caso
che fosse vera, cosa naturahssima, e nemmeno voglio as-
serire che sia stato casto come un anacoreta della Tebaide,
non erano quelli i tempi di ciò, e Y Orlandino non ne
sarebbe una prova in favore. Tuttavia il Folengo vi-
vacemente e ripetutamente dichiara, qua, e là che nono-
stante le contrarie apparenze, la vita sua è proba, nella
lettera al Alberto da Carpi chiama Triperuno giovane
innocente. Il carattere puro e poetico di Limerno nella
seconda Selva ne è un'altra prova. Egli stacca Triperuno
da Merlino, e Merlino stesso trattiene in Matotta, come
vi attrae e trattiene Fulica.
Ma sopra tutto questa sua moralità costituisce uno
dei principali intenti del libro.
Perchè siasi formata cpiesta leggenda poco onore v^ole
intorno al Folengo le ragioni sono parecchie, ma le prin-
cipali furono, senza dubbio, T ignoranza della di lui vita,
e la leggerezza con cui furono giudicate ed interpretate
le sue opere, specialmente il Caos.
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— LXXXV —
Fu preso alla lettera quello che non era che una
allegoria.
Purgato da questa ignobile taccia, il senso morale
ed estetico delle opere sue si sublima, e vanno ad acqui-
stare quel posto alto e maestoso, nel quale il Folengo
le volle collocare, e dal quale, nienti piccole e superfi-
ciali hanno tentato, ed in parte sono anche riescite, a
farle discendere.
Non sono quindi la crapula e le brutture di un vi-
zio degradante, che il Folengo volle encomiare, e dipin-
gere in se stesso, bensì rappresentarci i tempi suoi, e se
stesso nelle aspre tenzoni del pensiero e della scienza.
Con ciò resta semplificato d' assai un altro punto
controverso della vita del Folengo, quello dei motivi del-
l'uscita del chiostro che è Taltro particolare.
Escluso che sia stata una donna che l'abbia trasci-
nato fuori della sua vita monastica, conviene cercarne
altre cagioni, e nel Caos^ pamii, che si abbiano chiare e
nette.
A pag. 62 del Caos^ nel cap. di Triperuno narrate
le grandi discordie dei benedettini, che egli contempla,
senza prendervi parte, nascosto e non veduto, al loro
cessare egli si scopre, chiede la cagione della aspra lotta,
la intende dal Cornaggiani, del quale poi vede la morte.
Dopo ciò si parte dai pastori, sale un monticello posto
in larga pianura coperta di rose e viole, indi entra in
un folto bosco, nel quale erra tanto, finché si trova di
fronte ad un palazzo, quando il sole era già alto sul-
r orizzonte.
Eccolo quindi uscito, tranquillatìienie, se non perchè
le discordie della famiglia religiosa ve lo lianno spinto.
Il fatto adunque è spogliato del lugubre ed im-
mondo carcame che lo imbrattava. Esso si presenta sem-
plice e quindi tanto più naturale, e credibile.
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LXXXVI
Tutto al pifi sarà discutibile se i motivi che lo
spinsero ad abbandonare il chiostro, sono stati tali da
giustificare la diserzione, mi si passi la parola, ma non
è piti lecito di asserirne di altri, specialmente gli immo-
rali, che furono messi fuori.
Della gravità di questi motivi noi, a tanta distanza
di tempo, e in tanta ignoranza dei fatti, non possiamo
essere, in nessuna maniera, buoni giudici.
Però non sarà una temerità, nò un calunniare il
Folengo, il pensare, che siano stati una causa occasio-
nale, della quale egli abbia approfittato ben volentieri,
per assecondare una sua intima brama di una vita più
conforme al suo carattere ed alla vivacità della sua
mente.
Uscito dal chiostro dove se ne va ?
Noi ignoriamo la data dell' uscita, come ignoriamo
dove egli sia andato tosto dopo abbandonata la famiglia
religiosa. Lo troviamo in casa Orsini precettore del gio-
vinetto Paolo, ma non sappiamo quando e per quali cir-
costanze vi sia andato, e nennneno per quanti anni vi
sia stato. Sa})piamo però e a noi lo dice lui stesso, nel
capitolo di Triperuno, per bocca di Anchinia, a pag. 28
che e stata la fama del suo sapere che lo fece ricercare:
Ed io con lei ti rnostrerò qurlV Orso
Con V Orsalino suo
e il lei si riferisce alla scienza astronomica, della quale
aveva fatto precedentemente T elogio.
Del resto mi pare che, tra l'uscita del cliiostro e
l'entrata in casa Orsini non sia corso un lungo intervallo
di tempo, ma piuttosto breve.
Precedentemente ho espresso il dubbio che vi fosse
allorché componeva la Selva terza, ma avrei potuto dire
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LXXXVII —
anche, allorché finiva la seconda. E infatti nelF esastico
del frontespizio e nella Selva stessa esalta la sua posi-
zione in cotesta casa, come quella che lo proteggerà dai
sQoi nemici, né si dark mai che alcuna forza, o prepo-
tenza, ve lo tolga, ma lo spirito che aleggia nella terza
Selva tutto ascetico, e tutto brama di fare ritorno al
chiostro, ci ingenera il dubbio che vi fosse ancora. La
predizione poi di Fulica a Triperuno che in breve can-
gerà in meglio il suo stato, ma più aucora la sua dimora
in Perissa, descritta con tinte tanto fosche, sia per il lato
morale che fisico, ed economico, sono altri indizii, se non
si vogliono prove, che non stesse più cogli Orsini, allor-
ché dettava Tultima parte della seconda Selva.
Pare altresì evidente che la dimora in Perissa sim-
boleggi un periodo di vita accaduto tra la dimora in casa
Orsini e il ritorno al chiostro, giacché è sicuro che
quando tornò egli aveva già lasciati gli Orsini.
Sarà molto interessante alla biografia del Folengo
il trovare la spiegazione dell' episodio di Perissa, che
alla apparenza riesce tanto importante.
Sopra di esso azzardo un commento più avanti. In
che consistano poi i suoi traviamenti quali ne siano state
le cagioni, giacché restano esclusi gli amorazzi volgari,
ce lo fa intendere esplicitamente.
Lo intendiamo, dalle tre donne, negli argomenti delle
tre Selve, ce la dice il Folengo e a più riprese ce la
ripete nella Selva seconda e terza, ed io Tho rilevato
nella loro esposizione nei due precedenti capitoli.
Livia dice : traviato^ cioè lasciato il chiostro, si mise
a seguire amorosamente una donna bellissima^ la quale
sopra un sfrenato cavallo gli scampa inanzi per tr arsilo
dietro. Ma non é che un'allegoria, poiché definisce la Selva
unu soperstizione tenacissima significare. Né diverso é il
costrutto di quanto dice Corona. Più esplicita è la madre
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LXXXVIII —
Paola, la quale dice ripetutamente : combattuto tra la filo-
sofia naturale ed il sopranaturale, la Umanità di Gesù
Cristo^ quindi i misteri della redenzione umana, in fine
questa è vinta dalla filosofia.
Il Folengo aveva una grandissima brama di sapere.
Lo dice nel capitolo secondo di Triperuno a pag. 19, nel
quale parla dei studi:
Quivi cuìfi brarae tanto me ne tolsi,
Clie tutto il bene che capisce in noi
Non pur lasciai^ ma nel contrario avvolsi,
e lo xìpete anche più. basso, ed anche nel primo capitolo
di Triperuno della Selva seconda, nel quale anzi di-
chiara che sarebbe suo desiderio di comj)orre un libro
sulle cause delle stagioni, e sui fenomeni tellurici e ce-
lesti che ne conseguono. Nota poi che:
Travolto in vie sì alpestre dal desio,
Che anco ne porto il viso rotto e i panni.
L quindi sopra tutto lo studio dei fenomeni della
natura, la fisica propriamente detta e l'astronomia che lo
attraeva.
Nel primo dialogo delFAsinaria, Fulica, a pag. 135,
dice a Liberato .... poi eli io^ mi sono dato agli varii
studii de la naturale filosofia^ a cercare di conoscere la
proprietadi de le cose, a voi occulte ed impenetrabili non
ebbi mai Uanimo mio tranquillo, né quieto, ed ora pia die
mai Tho travagliato e da varii diversi pensieri tutto ripieno
e distratto ....
E nella Selva terza pag. 194:
Così volse il mio fallo, die s' io spendo
Per risaper ciò che in natura cova,
Il tcìnpo invan ne pianga giustamente.
L
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G(pogle
— LXXXIX —
Potrei riferire altri esempi, ni'a parmi che bastino ^,
questi, a provarne l'asserto giudizio, il quale, dall'altra ìii
parte apparisce evidente dalla analisi che nei capitoli ;y
precedenti ho fatto delle Selve seconda e terza. . ^
Ma oltre alla filosofia naturale, il Folengo si era À
dato allo studio dell' astronomia, come lo si intende da i|
quanto pone in bocca a Cingar nella Maccheronica xiii ;|
e xrv del Baldo, e in parecchi luoghi del Caos special- * 1^
mente dove ammette la rotondità ^ella terra, ed in quei '-j
versi del cap. di Triperuno a pag. 28 ' ^
Ma viene, ecco, mio sore, che in Egitto ' ' j
Uscita, da Caldei Vuman dottrina '
Portò de le scienze a suo profitto. v
ed anele alla filosofia propriamente detta, e un cenno se ^ 4^
ne ha nel capitolo di Triperuno pag. 171 la dove dice: ;^
■h
A che esser stoico ''A
Miser ti giova^ he peripatelico ? |
■4
ma più chiai-a prova V abbiamo dagli ammonimenti che J
pone in bocca a Talia, generici invero ma a lui rivolti, ;
e specialmente in quei versi, a pag. 178
Ma dal Egeo mar un' atra nebbia,
Che tanti perder fa la dolce guida,
Levata in alto fin sotto le stelle
Ai raggi erranti cela il vero sole:
Che pili credon salir di Plato il spirto
Che Paolo e Mosè, che d'Isacco il padre.
Di questi suoi studii ne parla anche e li conferma
in quei versi della Palermitana, che riportai a pag. xl, xlt,
della prefazione ai primi due volumi, dai quali si in-
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'"'^^r^m^
— xc
tende anche che un grande studio egli aveva fatto della
lingua italiana, iieiratto stesso che la sapienza egiziana,
greca, romana e la filosofia naturale lo occupavano tanto,
versi che per la loro importanza qui pure li riferisco:
Pe?* aspri monti e temjìesiosi mari
Errai gran tempOy da dove esce il sole
E il nido ove ripone i lumi chiari.
E come quel che tallo intender ruoh%
D' Egitto pt^iaa, poi d' Atene e Roìna
Bramoso enlirir nelle onorate scole.
Qui la vi7'li(y per cui tanto si noma
L'umana sapienza, aver contesi.
Per irmi carco di sì nobil soma.
Ma poi che gli anni verdi non che i mesi^
Bai seno stoico diffalcai 'e nei sogni.
Poi che in Fiorenza tutti andaro spesi.
Io, del ver lume privo e colmo d'ogni
Nebbia fallace, tratto fui là dove
Gesù sovvenne a' nostri unum bisogni.
Pertanto lo studio di coteste scienze k) invanisce, non
sa metterle in armonia cogli insegnamenti teologici, coi
decreti pontificii. Rifiuta la dottrina del peccato d'Adamo,
s[)ecialmente per ciò che riguarda il deterioramento della
natura, e di conseguenza non capisce e non si persuade
dell'opera della redenzione umana operata da Cristo. E nel
medesimo tempo non lo soddisfano i scarsi risultati del
suo studio. Si vede davanti, nella natura, un immenso e
stupendo apparato, del quale voleva penetrale le leggi
intime, che lo producevano e lo governavano. Giudica,
esamina, confronta, ma come gli autori antichi, Aristotile,
Plinio, Averrois poco gli insegnano, specialmente per
le loro contradizioni, e i dotti moderni non lo ammae-
strano d' avvantaggio, egli stesso scarsa messa vi rac-
coglie col solo sussidio del suo ingegno. E quindi iu
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— XCI —
lui accade lo strano fatto che mentre smarrisce la fede
per la scienza, la scienza in realtà non gli entra a suf-
ficenza per sostituire fede.
E la fede egli la perdette, senza, appunto, avere
acquistata la scienza. Lo dichiara nel cap. di Trìperuno,
pag. 20:
Dunque diròj che quanto chiaro e noto
Af era, dinnanzi al ber dell'acque, sparge.
Onde fui d' ombra pieno e di sol voto.
Le parlate di Merlino in Carossa, di Furore, e quella
più ancora di Triperuno, indotto a ciò da Merlino, con-
tenute nei due madrigali a pag. 85 e 86, lo confermano
air evidenza.
Livia e Paola lo confermano esse pure, nelV argo-
mento della seconda Selva, ed anzi Paola, vi aggiugne
anche le cagioni, cioè la curiosatide per le scienze natu-
rali ed umane, e le astruserie della scienza teologica, ri-
dotta a formule scolastiche, per le quali riesciva dura ed
incomprensibile. E queste condizioni della Teologia, le
accenna quìi e là tanto nelF Orlandino quanto nel Caos.
Di questa Teologia fa un quadro desolante a pag. 135,
per bocca di Fulica nel dialogo dell'Asinaria, come quella
che era divenuta il capitale nemico della fede, e la ca-
gione principale del pullulare delle sette e del suo smar-
rimento.
La condizione vera in cui 11 Folengo si era ridotto
ce la delinea lui stesso sulla fine della prefazione alla
Selva terza, dove riassume gli argomenti delle tre donne,
ed ancora nelFesastico di Merlino, a pag. 12, che pone
quale conclusione e riassunto dei commenti al Caos delle
tre donne.
^
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\
t
~ XCII —
Tres surnus unius ium animae^ tura coì^ris. Iste
Nascitur, ille caditi tertius erigilur.
Is legi paret naturae, schismatis ille
Rèbus, ecangeUco posterus vuperio.
Nomine sub fleto Triperuni coginiur udem^
InfcmSy et juvenis, rirque^ sed unius i)u?st.
Non vi ha dubbio che egli non siasi inteso di ra]>
presentare se stesso nelle tre fasi della sua vita fisica e
morale, in questo esastico, in quella maniera che si è
fatto rappresentare nel Caos^ nei triplici argomenti, delle
tre donne e nei loro sunti.
Nel secondo dei tre stati della sua vita adunque
cade moralmente, dandosi all' errore, schismatis rebus^
mentre nel terzo si rialza, si riabilita col tornare sotto
r impero del vangelo.
Questo importantissimo punto, quindi, della vita del
poeta, tanto contrastato, cotanto dibatutto, parmi che ora
emerga rischiarato da tanta luce, che valga e farcelo
vedere in si fatta maniera da non dubitarne più.
Di quanto poi si fosse allontanato dalla credenza
cattolica, r ho sufficentemente rilevato precedentemente.
Egli non sapeva ammettere gli effetti del peccato di
Adamo, e la conseguente redenzione dell' umanità ope-
rata da Cristo. Un dubbio lo tormentava anche sulV ar-
monia della grazia divina colla libertà dell' arbitrio del-
l'uomo, e colla piena responsabilità delle sue azioni.
Nella mente del Folengo quindi erano scossi i car-
dini fondamentali del cristianesimo, e dico che erano,
scossi ma non distrutti, perchè, lo dice lui stesso, non
era che un fortissimo dubbio, sortogli nelUanimo, perchè
aveva voluto cercare le cause naturali di un fatto che
esiste totalmente nei domimi della fede. Voleva riconoscere
nella natura la prova dell'azione deleteria del peccato di
Adamo, e Y azione posteriore ricostruttiva di Cristo. Ma
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•^'«•^^'«sr
— xeni —
questa azione ricostruttiva non la vedeva nell'uomo, sem-
brandogli che le infermità fisiche e morali, che lo aggrar
vavano anche dopo la redenzione, la escludessero. Davvero
clie egli si era messo per una via senza uscita, poiché
né lui né verun altro ingegno, più del suo potente, sa-
rchile, riescito a qualche buon frutto, per quelle ragioni
che noi tutti ora conosciamo. Non vi è sano intelletto che
possa comettere, oggi, sì fatto errore. Noi conosciamo
bene i limiti della fede, e quelli delle indagini scien-
tifiche. L'intento del Folengo era paralello a quello dei
cercatori della pietra filosofale e dei fabbricatori dell'oro.
Alchimisti, costoro, fisici ; alchimista, lui, filosofico.
Ma non ci é nulla da meravigliarsi poiché il Fo-
leftìgo non era una personalità isolata. La più parte degli
ingegni su[>eriorì dell' Italia del secolo xv erano trava-
gliati da cotevsti dubbi, correvano dietro alle sperate, e
vagheggiate soluzioni di cotesti problemi. Erano alchi-
misti o per un verso, o per T altro.
A Mantova dì cotali uomini ne avevamo parecchi,
e il nostro Battista Fiera contemporaneo del Folengo, è
forse il più spiccato esempio. Medico filosofo, si era
spinto più avanti d'assai del poeta, nelle conseguenze dei
suoi studii.
Allorché le innovazioni di Lutero principiarono ad
avere un eco in Italia e quindi anche a Mantova, trova-
rono nel campo dei letterati,- degli artisti, dei filosofi, e
presso anche i ceti superiori aristocratici, una accoglienza
festosa; i quali tutti però riconobbero di- essere di già molto
più in Ik del riformatore tedesco, lungo la strada per
la quale si era messo. Ma siccome da una parte i prin-
cipi italiani vedevano che Lutero mirava ad una ribel-
lione politica, che non entrava nelle loro viste e non
era conforme ai loro interessi, essendo quasi tutti pro-
pensi ad una politica imperiale, e dall'altra il Papa ve-
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— XCIV —
deva chiara la ribellione religiosa della Germania, ognuno
cercò che la fiumana non discendesse in Italia, appog-
giando primieramente Y impero, e poscia incominciando a
prendere quei provvedimenti interni clie finirono col con-
cilio di Trento. ^)
* Era quindi naturale che Tanimo poetico del Folengo
subisse r influenza dei suoi tempi, e che vi si riperco-
tesse l'eco delle riforme luterane, non poche delle quali,
non riguardando né la fede né la politica, erano univer-
salmente riconosciute giuste.
Ma egli non aveva né Y animo * dell' innovatore, né
r ingegno superiore dello scienziato, mentre però era,
anche dal lato scientifico una delle più grandi nostre
individualità. E come l'entusiasmo della scienza gli aveva
offuscata la fede, non avendola ottenuta la scienza, ri-
tornò alla fede, e nel poema — La Humanità del Fi-
gliuól di Dio — si contiene la professione di fede di
quei principi che per poco non aveva negato.
Egli é la più bella e forse la più completa personi-
ficazione delle condizioni dei tempi suoi, in tutti i diversi
aspetti per i quali si é presentato colle sue opere e colle
sue vicende che identifica nei mistici quattro personaggi.
Egli é il poeta maccheronico, gioviale, spensierato, satirico
francamente; il poeta licenzioso nelFOrlandino. Nella vita
intima filosofo, scienziato vacillante nella fede e infine
l'ardente credente nelle opere sacre. E Merlino e Li-
merno, ma infino anche Eulica, e sopratutto Trijieruno.
E così r Italia che nel rinascimento era spensie-
rata, guadente, appassionata indagatrice della ragione dei
1) I Gonzaga, negli stessi primi due decennii del secolo XVI prin-
cipiarono ad emanare ordini, tanto in città che nel contado, contro
le discussioni religio^'3, la lettura della Bibbia. So ne hanno i docu-
menti nel loro Archivio.
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— xcv
dogmi cristiani, delle scienze filosofiche e nattu'ali, alla
metà del secolo XVI, al concilio di TrentQ diviene ligia
e mogia alla fede, quale non fu mai, perdendo o dimen-
ticando pei'sino le traccio delle indagini scientificlie del
secolo precedente.
E devo dire che a ciò non venne soltanto per le ri-
forme luterane, le quali indussero i principi! italiani a
restringere quella libertà del pensiero, che era piena in
Italia, ma ben anche per lo strano eiTore commesso nel
volere spiegare i dogmi colla scienza, e nel volere sco-
prire le traccio e le prove delle loro veracità nei feno-
meni della fisica, dell'astronomia, delle scienze naturali.
Questo ha prodotto che si radicasse il concetto che la
scienza fosse la nemica della fede, e questa di quella.
Un altro punto della vita del Folengo rimane da
esaminare, ed è quello che egli delinea narrando le av-
venture di Galanta e che ho esposto a pag. lxxii e
seguenti.
E un punto che rimase sempre fra i pia incerti ed
oscuri, e le dilucidazioni che ora vi porto, parmi che
siano più che ipotetiche.
E uno dei pochi risultati che sono riescito di otte-
nere coir esame di quanto espone il Caos in confi'onto
di quello che è narrato di lui.
Riassumo brevemente il racconto : Mentre Triperuno
era per seguire il vecchio anacoreta, Fulica, le sue orec-
chie sono colpite da grida strazianti, e tosto anche vede
fuggire giovane donna, Galanta, scarmigliata inseguita
da un suo persecutore, Laura, lo Squarcialupi. Triperuno,
si nasconde nel folto di un boschetto e vede che Ga-
lante, quasi I-aggiunta, per scampare di essere presa, si
tramuta in una donnola, e ratta si ripara sopra la pianta
di un sambuco. Se ne parte allora lo Squarcialupi, e
Triperuno, fattone certo esce del nascondiglio, va presso
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— XCVI
Galanta e con tenere espressioni, fattala scendere dalVal-
bero, se la raccoglie nel seno, e.d amorosamente custo-
dendola, si ricovera nella regione desolata di Perissa,
dove non volle restare Fulica, in una grotta, e vi dimora,
molti anni, in tristissime condizioni, e dove è costretto
di poi'si air arbitrio altrui, nel quale stato gli è tolta
Galanta, con inconsolabile suo dolore, la quale è data a
Grifalcone che la fa morire, schiacciandola tra uscio e
muro.
L'ho anche avvertito, qui è adombrata una avven-
tura dolorosa e tristissima del Folengo, una personale
persecuzione dello Spuarcialupi, e infatti dice che, vista
la metamorfosi di Galanta:
Cessò la vecchia scelerata
Tener imi via di avermi allor nel grifo.
Le persecuzioni quindi di Galanta erano dirette alla
persona del poeta, per ragioni e circostanze che non si
ponno nemmeno suppoiTe. Lo Squarcialupi voleva averlo
nelle mani, ma non vi riesce, perchè il Folengo se ne
fugge.
Da ciò e dopo ciò ha origine quel periodo lungo di
molti anni che ci descrive cosi pieno di infelicità.
Forse questo periodo, esposto in forma allegorica è
quello, stesso al quale accenna Vigaso, Cocaio, quando
dice che il Folengo in guisa di disperato andò errando
•per il mondo fatto cortigiano, poi soldato, poi romita.
Il Vigaso Cocaio, nella sua breve biografia del poeta,
non racconta i di lui fatti personali in ordine cronologico,
come non è esatto nel darci la successione delle opere
sue, tuttavia i fatti sono veri, almeno possiamo dire tali
quelli che sappiamo per altra via. E dai noti ci è lecito
arguire ai non noti, fra i quali vi sono quelli di essere stato
w
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— XCVII
cortigiano. Pertanto, come ò nel vero dicendo che è stato
cortigiano, è da supporsi che lo sia asserendo che fu
soldato e romito.
Qui, romito forse non signica religioso, bensì ramingo
e vagabondo, privo di tutto il necessario alla vita.
La descrizione clie egli fa della sua dimora in Pe-
rissa si attaglia benissimo alle condizioni nelle quali è
presnpponibile che siasi trovato in questi due stati. Da
questa stessa descrizione poi apparisce che egli fu prima
romito, pòi soldato, dato che lo sia stato, poiché, prima
si rifugia nella grotta, con Galanta nel seno, nella quale
vive lunghi anni, fra stenti e privazioni, poscia va sotto
laltrui volere, cioè diviene soldato, e in questa sua con-
dizione gli è tolta Galanta.
Se poi cotesti due episodii siano accaduti prima o
dopo di entrare in casa Orsini egli non lo lascia capire.
L'accenno che fa, nella Selva seconda, durante la di-
mora cogli Orsini, a persecuzioni, colle quali si mirava
a levamelo, la sua dichiarazione che alcuno non sarà mai
da tanto da togliergli la protezione della grande Orsa,
paiono significare e Tuna e l'altra ipotesi. Però la pre-
sunzione parmi che sia in favore della seconda ipotesi,
cioè che sia divenuto romito e soldato abbandonando gli
Orsini.
E infatti, egli era ancora frate alla fine del 1520,
allorché il Paganini si accingeva a fare la edizione to-
scolana, ma non lo era pifi al 1525, durante la battaglia
di Pavia, nel quale anno, egli compone l' Orlandino e
lo compone in casa Orsini. Ora i quattro anni che cor-
rono fra le due date non sono i molti anni passati in
Perissa. Mentre se trovavasi cogli Orsini alla fine del 1526,
allorché il Garanta chiedeva il privilegio per YOrlandino
e per il Caas, vi è molto da dubitare che ci stesse an-
cora nel seguente anno, o nel susseguente 1528, apparendo.
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XCVIII
r come dissi, dal tenore della Selva terza, e da quello
della seconda parte della seconda, che non vi fosse
f più allorché scriveva queste parti del Caos. Questa
supposizione poi non è contradetta dal tenore della di-
manda di privilegio del Garanta, perchè chiedere il pri-
vilegio della stampa di un libro, come è nel caso del
. Folengo, non vuol dire che il libro stesso fosse finito di
scrivere. Ora, .come si vedrà, nel seguente capitolo, il
V Folengo non rientrò nel chiostro che nel 1534, e tra le
5 ultime due date passano sei, o sette anni, i quali pifi
ragionevolmente sono i molti anni, nei quah sarebbe
stato romito e soldato.
Ma l'ipotesi, che ha tanta apparenza di essere at-
tendibile, è contradetta dall'asserzione di Francesco Fo-
lengo, che è contenuta nella lettera della edizione di Ci-
pada, che il poeta nell'ottobre del 1530 si partiva da
• ' Venezia per recarsi ad Ancona, onde darsi a migliori
\ studi ; da quella del fratello Giambattista, contenuta nel
i' dialogo premesso ai Pomiliones^ la quale vorrebbe dire
T-- che da casa Orsini passò direttamente nel romitaggio di
Capo Campanella, e dal trovarsi in cotesto luogo poco
dopo la sua andata ad Ancona, e dall'esservi rimasto, col
fratello, sino presso la riammissione al chiostro.
I Da ciò ne consegue che, ammessa l'esistenza del
fatto, che con colori cosi forti e tetri ci è narrato, am-
messo che possa riferirsi a quanto dice Vigaso Coraio,
■r e forse per lui il Folengo stesso, che sia stato romito e
T;, soldato, si ignori quando sia accaduto, né vi sia modo
di poterlo ragionevolmente supporre.
Una circostanza dell'episodio, però, rimane chiara, Tes-
sere cioè stata la persecuzione dello Squarcialupi che lo
fece fuggire in Perissa e passarvi miserrimi anni, dopo che
r lo aveva costretto a lasciare il chiostro, e questo spiega
I ' l'odio intenso che il Folengo nutriva verso l'abate fiorentino.
«
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/
XCIX —
Rimangono poi, senza possibili commenti, almeno
per ora, la tramutazione di Galanta in Mastella, il di-
venire proprietà di Grifalcone, . e il morire di morte si
sti-anamente tragica, che pare persino ridicola.
La parte biografica è scarsissima, e di nessun va-
lore. Gli accenni che si hanno qua e là, perchè vaghi e
indeterminati, non ci forniscono alcun dato preciso intorno
alla sua vita, né per quella parte, che è la massima, che
si ignora, né per l'altra che ci è noto. L'accenno più
importante, perchè il meno indeteiTuinato, è quello che
si legge a pag. 7 intorno alla stagione della sua na-
scita, la quale si intende che accadde nella rigida sta-
gione invernale. Ma questo stesso accenno, poi, è rive-
stito di tali circostanze, che, come dice anche lui nel
dialogo delle Tre etadi^ lo tramutano in una allegoria
delle misere condizioni in cui nasce l'uomo. E non è da
meravigliarsi di tale scarsezza, poiché avendo il Caos
un carattere ed uno scopo autoapologetici e confessionali,
egli aveva da esporre non le vicende della vita, le quali,
per il caso, non avevano alcuna importanza, ma le mo-
rali e le religiose, doveva trascurare quelle, come fuori di
luogo, ed esporre e lumeggiare queste onde raggiugnere
il suo intento.
Pertanto se da una parte abbiamo una completa
delusione, dalF altra possiamo chiamarci abbastanza sod-
disfatti di avere ottenuto questo risultato di determinare
il carattere di cotesta bizzarra composizione, la quale
andò, sino ad ora, soggetta a strane e non giuste inter-
pretazioni, tutte ia disdoro della vita e della riputazione
del poeta, che gli crearono una fama immeritata di li-
bertino, e dissoluto, tanto da apparire un tipo del genere.
Ora noi, leggendo il Caos^ siamo posti in grado
di intenderlo nel suo vero senso. Non è già T esposi-
zione di avventure erotiche, disonoranti, bensì di vicende
V
•vi
, i
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tv~
I
intellettuali, di un animo avido di scienza. Cade, di conse-
guenza, r immondo involucro, e riappare la bella figura
dell'uomo meritevole di quella fama, di quel rispetto e
di quella venerazione, che i suoi contemporanei, anche
correligionarii, gli tributarono senza limiti.
Di un'altra quistione, che ha rapporto con uno de-
gli intenti del Caos^ è d'uopo che spenda qualche parola.
11 Caos^ fra altro, mirava a porre in evidenza la
intera riprovazione delle Opere Maccheroniche, a per-
suadere del suo sincero pentimento per avere, con esse,
f sciupati gli anni migliori suoi, quelli della giovinezza, e
recato grave pregiudizio alla sua buona fama.
E infatti le condanna esplicitamente nella Confes-
sione di Triperuno a pag. 157 riassumendo così le ri-
provazioni che vi sono in altri luoghi della Selva 2*,
le condanna del pari, e non meno esplicitamente nel
lanus.
Mannello stesso momento che esprimeva cotesti pix)-
positi nel Caos^ e che dava il libro a stampare, onde
poscia il publico, leggendolo, fosse persuaso del mutato
suo animo, egli rifa da capo a fondo il Baldo, ed in
parte la Zanitonella e la Moscheide, e nell'ottobre del 1530,
partendosi égli da Venezia per Ancona, lascia il mano-
scritto già perfetto, a Francesco Folengo, perchè lo fac-
cia stampar^, quando e dove egli crederà meglio. E
(questo rifacimento è quello che si ha nella edizione di
Cipada 1530, e nella Boselliana.
La con tradizione è palese, al pari di quella, che a
pagina xxxix di questa prefazione, notai per TOrlandino
ed il Caos ; e come si spiega, o si giustifica ?
E vero che fa dire a Francesco Folengo che rifece
le opere Maccheroniche per toglierne tutte le licenzio-
sità, che le deturpavano, per le quali gli erano venute
tante censure, ma la scusa non ha valore perchè le
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— CI —
opere rifatte, per questo lato, non sono migliori delle
prime.
Io credo che siasi indotto a rifare le predette opere
da quelle stesse ragioni che lo persuasero a ritoccarle, per
lina seconda volta, assai più tardi, allorché da parecchi
anni era ritornato nella famiglia religiosa e sono quelle
stesse che, morendo, lasciò a Vigaso Cocaio e che si
leggono nelle Ravani 1552 e 1554, e nella Varisco 15G1;
1 delle quali edizioni ho parlato nella prefazione ai primi
due volumi a pag. cxii e seg.
I II suo genio lo traeva, con forza irresistibile, alla
letteratura maccheronipa, e quindi a rifare, ritoccare quelle
1 opere che, composte negli anni giovanili, gli avevano
procacciata una si grande fama, secondo il detto d'Ora-
i zio — naturala expellas fìtrca, tamen 2isq?ie reciirrif. —
Erano il suo pensiero di ogni momento, la sua quoti-
iHana occupazione. Contrariamente a quanto fecero i pi fi
grandi poeti, ad eccezione del Tasso, non si peritò di
rifarle per ben due volte, cosicché ce ne lasciò tre esem-
plari, più o meno sostanzialmente diversi, senza tenere
conto della prima produzione del Baldo incompleto, di 17
maccheroniclie.
Le riprovazioni di coteste opere, le giustificazioni
contenute nel Caos^ non hanno che un carattere ascetico,
e mirano ad accontentai-e quella parie dei suoi giudici
futiu'i, i quali disapprovavano non soltanto le licenziosità
e le tirate contro i vizii e le corruttele delle corporazioni
religiose e della stessa corte pontificia, ma ben anco le
opere in se stesse, per la loro forma burlesca e macche-
ronica, stimandole sconvenienti alle sue condizioni di
frate.
Che vi fossero di co tali censori ce lo fa conosce i*e
lui stesso, nelle lettere al Paganini, che ho riportato a
pag. Lxxxiii della prefazione ai due primi volumi, men-
^
I
,^aLli!^ Digitizedby
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. _ cu —
J;,. tre la grande maggioranza dei suoi correligionari ne lo
encomiavano apertamente.
Lo dissi e lo ripeto, che come non si può prendere,
sovverchiamente sul serio, Y enfasi ascetica della terza
ì Selva, altretanto è da farsi di tali dicliiai*azioni.
Ir
W
Vili.
DEL CAOS.
Degli stndi sul Folengo e sulla mia edizione.
In questo capitolo non parlerò che di tre soli studii,
e sarò breve pia che posso, cioè di quello di Gioachino
Di Marzo -^ Drammatiche Rappreseti fazioni in Sicilia —
Palermo Lauriel 1876; di Adolfo Gaspaiy — Portioli
Attilio^ Le Opere Maccheroniche di Merlin Cocaj\ 1883^ —
Literaiurhlatt Jur gennanische und romanische Fhilologie
Voi II; Alessandro Lazio — Nuove ricerche sul Fo-
lengo — Giornale storico della letteratura Italiana 1889.
Torino - Loescher.
La pubblicazione del Di Marzo è compresa nella
Biblioteca storica letteraria di Sicilia voi. XXIT, e vi si
contiene del Folengo l'Atto della Pinta, quale fu rappre-
sentato nel 1581 a Palermo, dal Viceré Marc' Antonio
Colonna, e la Palermitana, tolta dai due esemplari che
possiede la Comunale di Paleraio.
Di questo poemetto in terza rima ne abbiamo nella
nosti'a Comunale un esemplare manoscritto ed un altro
alla Cava dei Tireni, dei quali esemplari ho fatto cenno
a pag. civ della prefazione predetta.
Poche pagine, venti, dedica il Di Marzo, 1' egregio
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— crii —
bibliotecario della Comunale di Palermo, a questa im-
portante pubblicazione della quale noi mantovani dob-
biamo essere gratissimi : Nulla di nuovo ci dice il dotto
autore nelle poche notizie biografiche che ci lornisce^del
Folengo, mentre sono molto interessanti quelle che ci dk
dell'atto della Pinta specialmente, e delle tre tragedie
sacre di S. Cristina, Caterina e Cecilia, composte dal
Folengo, le quali a quanto pare dovevano essere una
appendice all'Atto della Pinta.
Nel suo breve scritto però aleggia quello spirito di
riverenza alla memoria del nostro grande poeta, che an-
cora gli è tradizionalmente tributato dagli abitatori delle
Ciambre.
L' illustre professore delF Università di Breslavia,
Adolfo Gaspaiy, nel sopracitato periodico tedesco ha
pubblicato un lungo scritto sul Folengo e sulla pubbli-
cazióne dei due primi volumi, giudicandole con molta
benevolenza, della quale gli rendo grazie affettuose, per
essere egli giudice competentissimo della nostra lettera-
tura e della sua storia, del Rinascimento sopra tutto,
cosi difficile di essere inteso dagli stranieri. Egli ha cre-
duto bene di fare alcuni appunti alla mia prefazione,
ai quali l'autorità della persona e la cortesia sua mi ob-
bligano di rispondere.
H prof. Gaspaiy mi fa primieramente due cortesi
rimproveri, cioè di non avere date le varianti tra il primo
Baldo del 1517 ed il secondo completo della Toscolana,
come avevo promesso di darle nella nota I. al Baldo
pag. 63, 64 del primo volume, poi di non avere fatto
un esteso esame delY Orlandino e del Caos ed anche dello
schema, che ora rimane dell'Atto della Pinta e della Pa-
lermitana, e di essermi accontentato di tutti cotesti la-
vori del Folengo di farne un semplice cenno biblio-
grafico.
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— CIV —
Una sola è la ragione di tale ommisBÌone, T econo-
mia del lavoro che ero chiamato a fare.
Per il Baldo, a conti fatti, ho veduto che il dare
tutte le varianti equivaleva a riprodurlo in nota pres-
socchè tutto per intero. Oltre a ciò il Baldo della To-
gcolana ha, per ogni Maccheronica, almeno duecento versi
di pia del Baldo della edizione prima. Saiei stato quindi
obbligato a segnai-e anche questa differenza.
In quanto all' Orlandino ed al Caos veda quanto ne
ho scritto in questa prefazione, ed egli intende bene che
tante altre cose si potevano dire.
Riguardo all'Atto della Pinta ed alla Palermitana
escivano addirittura dallo scopo e dal carattere della
pubblicazione che mi era stata affidata. Tutto al piii sa-
rebbe stato consentaneo all'indole del mio lavoro il fare
imo studio critico sui tre Baldi, cioè quello della Tosco-
lana, della Boselliana, che avev.o riconosciuto essere una
perfetta riproduzione della Cipadense, e l'ultimo delle
Ravani e Varisco 1561.
Ma questo solo lavoro avrebbe importato (*he scri-
vessi un volume intero.
Ma anche senza ciò, veda l'egregio Gaspary dove
sarei andato col solo studio del Caos e dell' Orlandino^
e colle varianti e differenze dello, prima edizione, col
Baldo della Toscolana.
I quesiti ed i dubbi che egli espone in base alla
lettera di Federico II Gonzaga al Paganini, da me pub-
blicata a pag. LXxxvi ed alla pubblicazione deìV Orlandino^
circa l'uscita dal chiostro ed il conseguente ritorno sono
giustissimi, ed ora li vede risolti dal fatto accertato clie
il Folengo abbandonò la ftmiiglia religiosa non già
nel 1515, come concordemente asseriscono i di lui bio-
grafi, ed ai quali bisogna prestare fede, sino a prova con-
trarin, bensì dopo il 1520, forse nel seguente anno e
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— cv —
non vi fece ritorno che nel 1534, come è accertato dal
documento, di capitale importanza pubblicato dal Luzio.
E nel medesimo tempo restano chiariti i quesiti sulla
composizione e sulla pubblicazione del primo Baldo.
Alla pubblicazione del primo Baldo egli era già
fi-ate, ma non si era ancora monacato allorché lo scrisse,
mentre apparteneva tuttora alla famiglia religiosa quando
compì il lavoro e si principiò, su esso, V edizione To-
scolana.
Non ammette l'ipotesi mia, che il Vigaso Coraio sia
il pseudonimo del precettore di latino, ed asserisce die
altro non sia che una invenzione, del Kavani e del Va-
risco. Credo che abbia i*agione, ma la quistione è di
poca importanza, poiché non si può negare fede quanto
la dire nel Caos a pag. 102, a Limemo. Che il Maestro
stto sia stato o meno il Vigaso Coraio non guasta come
non guasta che sia una finzione degli editori del terzo Baldo,
dal momento che è un fatto innegabile che il Folengo
rifece per due volte le Maccheroniche, e che l'ultimo ri*
facimento lo lasciò manoscritto alla sua morte, con altre
carte, il quale rifacimento venne pubblicato, per la prima
volta, 7 anni dopo che era morto. Qualcuno avrà rac-
colto le cai-te del morto poeta, le avrà curate, ed indi
fatte stampare, sia o no colui che si nasconde sotto il
suddetto pseudomino.
In nltimo accorda al mio lavoro la sua esplicita
approvazione della quale, come degli appunti fatti in
modo cortesissirao, lo ringrazio cordialmente.
Lo studio del Luzio è importante per ogni verso.
Egli ebbe la fortuna di rinvenire nell'Archivio Gonzaga
un doctunento prezioso, che ora riproduco, il quale chia-
risce il punto controverso del ritorno del Folengo al
chiostro ; reca poi anche una somma rilevante di criterii
e di giudizii sul poeta, e sulle sue opere, esatti, come
? ^L, ^ . Digitized by
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— evi —
quelli che sono il frutto di un esame accurato di coleste
opere. Egli vi ha inteso lo spirito che le domina, che le
reildono un monumento nel suo genere, inimitabile ed
f insuperabile della rinascenza.
j'. Noi mantovani dobbiamo essere sinceramente grati
deir opera sua, la quale concorre a fere sorgere nella
pubblica estimazione questa nostra grande individualità,
che i Francesi non si peritarono di riconoscerla il pro-
totipo del lora Rabelais.
5. Nei giudizi!, quindi, e nelle quistioni fondiuiientali
y mi trovo pienameate d'accoi"do con lui, non così in al-
cuni punti di secondaria importanza.
Mi occupo dei principali soltanto :
1. Il ritorno al chiostro. Le incertezze ed i di-
spareri sopra questo quesito non sono pochi, né ignorati ;
credo inutile il riferirli, molto pia che si rispecchiano an-
che nella mia prefazione del primo volume. Ora la qui-
stione è risolta mercè il documento scoperto e pubbli-
cato dal Luzio. È una lettera che il presidente della
Congi'egazione benedettina di S. Benedetto di Polirone,
assieme ai suoi definitori^ scrive al duca di Mantova, Fe-
derico 2**, in data dell' 8 Maggio 1534, nella quale gli
annuncia di avere acconsentito, dietro le sue vive istanze,
di riammettere nella famiglia religiosa i due fratelli,
egualmente profughi, Giov. Battista e Teofilo Folengo.
Questa è la lettera.
I " IlLmo ed Eccmo S.re Patrone e benefattore no-
" stro singolarissimo ecc.
" Benché Don Giov. Bap.ta e don Theophylo Fo-
" lengi, poy che usìrono de la religione, per molto tempo
^ et molte prece habbiano instato di essere de novo re-
" ceputi, non di meno mai hanno possuto impetrare la
" loix) restitutione, fin ad ora che essendosi dignata la
^ ^_
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— CVII
" S. V. IlLma beniguamente intercedere et pregare per
" e«8Ì, possendone comandare, a contemplatione di quella
^ quale non manco è amata, quanto è riverita in questa
" Congregatione, tutto el Capitolo unanime si è disposto
" condescendere alli loro desiderij et così di bona vo-
" glia li liavemo racettati, prompti a compiacerlo in
" maggior cosa, possiamo per Lev. Et sperando che sì
" come li predetti sotto l'umbra della E." V. hano con-
" seguito tal gi'atia, a pochi concessa, con tanto favore,
" che anche per rispeto suo, se debiano disporre a de*
" portarsi meglio per Tavenire che non hanno facto per
" el passato, alli comodi di quella se off remo insieme,
" alla bona gratia sua ricomandandosi, la quale el S.re
" Dio conservi lungamente felice.
" In S.to Ben.to de Padol.ne a di Vili di ma-
« gio MDXXXniL
" Di V. IlLma S. fi delissimi servitori
" Don Leonardo presidente
" ed altri defènri del Capitolo Generale „
Le conseguenze che si vengono a tiaii-e da questo
documento sono indubbie.
Egli non abbandonò il chiostro che una volta sola.
Trovando velo ancora alla fine del 1520, ne viene che
non ne sia uscito prima, e quindi cade quello, che fin
qui fu ammesso, che ne sia uscito nel 1515.
Non essendovi riamesso che verso la metà del 1534,
resta distrutta l'altra costante asserzione che il ritorno
sia accaduto nel 1527.
.Pertanto egli ne esce giù dal 1520 e vi entra alla
metà del 1534. con una assenza di 12 o 13 anni. E
questo è molto importante per la sua biografia, ma ben
più importante riesce la certezza di questo fatto nell'or-
dine morale. Con ciò, lo dissi e lo ripeto ci poniamo
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h * — CVIII —
• in grado di intendere il carattere e lo scopo del Caos^
di quel Caos, che sino ad ora, fu un vero labirinto ine-
stricabile ed impenetrabile per gli studiosi.
< Intendiamo che esso non è che la sua auto biografia,
morale e religiosa.
., Per quelle ragioni e motivi che noi ignoriamo,
I avendo deciso di ritornare alla vita religiosa, ti'pva ne-
«^ cessano di mandare avanti la sua professione di fede,
la esposizione delle sue vicende morali ed intellettuali
neir intento di provare che egli era ritornato alla vera
j, credenza, che nel suo intelletto non si dibattevano piìi
i dubbi, sórtigli per i problemi della scienza, che egli
trovava in contradizione coi dogmi religiosi, e questi con
quelli, ma che limpida e serena in lui si rifletteva la
fl\ fede, e questo con tutte quelle contradizioni che ho in
diverse riprese notato.
^ Dalla lettera del presidente benedettino intendiamo
?/ che molte, lunghe e persistenti erano state le istanze sue,
^' assieme a quelle del fratello maggiore, onde ottenere la
•: desiderata riammissione, le quali, sino alla lettera del
Duca Federico, emno rimaste inefficaci e lo sarebbero
rimaste, probabilmente per sempre, senza 1' intei*vento del
principe, al quale la Congregazione di S. Benedetto nulla
poteva negare*
La Tiascita^ lo studio a Bologna — la monacazione.
I tre quesiti si leggono insieme dalla reciproca incertezza
del punto di partenza.
^^ Dallo studio del Luzio parmi che, almeno approssi-
[ mativamente venga sciolto il secondo, dello studio di
Bologna; mentre gli altri due restano ancora nella loro
indeterminatezza, per quanto siano stringenti gli argo-
menti suoi onde dare ad essi una data diversa da quella
che fin qui ebbero dai biografi del Folengo.
Essendo certa Y andata del poeta allo studio di
k
^
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2-*?^
y
— CIX —
Bologna allorché vi era il Pomponazzo, provando, cai
documenti alla mano, dell' Archivio Gonzaga, che il Pom-
ponazzo principia il suo insegnamento nel maggio 1511,
ne viene che il Folengo vi si sia recato da questa epoca
in poi, e probabilmente tosto dopo.
Egli poi, basandosi specialmente sui primi due versi
della 2* quartina del sonetto premesso alla terza Selva,
che dicono :
TanV alto salirò^ che mi soccomba
Chi ha il giro di trenV anni ....
ed anche sugli altri due che si leggono sulla fine della
terza Selva a pag. 200.
Vedrò se 7 dehil filo non si taglia
Nel mezzo del camin di nostr*a vita,
si intese di sciogliere il quesito della nascita e ^^lla
monacazione.
Anche néìY Orlandino si accenna a questi trenta
anni, come al Gap. I stanza III
Boezio da trenf anni sul tagliere
Mi dà sempre ristor ....
Fino da quando scrissi la prima prefazione mi sono
convinto, e lo dissi, che tutta la vita del Folengo era da
rifarsi, che Tedificio penosamente costrutto dallo Zeno,
dal Fontanini, dal Gradenigo, dal Teranza non era so-
stenibile. Adesso vediamo verificarsi il giudizio, l'edifizio
sfasciarsi da pifi parti, cadere sotto i colpi di documenti
inappuntabili, vediamo i fatti asseriti essere diversi per
il tempo in cui sono accaduti, e per T indole loro, da
quelli che i suddetti biografi li hanno narrati. Però
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— ex —
credo che nella demolizione si debba andar guardinghi ;
cioè non farla accadere da supposizioni od interpreta-
zioni, le quali per quanto siano giustificate, da ragioni
ed indagini restano sempre tali quali sono. Solo i docu-
menti devono e ponno operare l'opera di distruzione, in
mancanza dei quali conviene tenere Tantico, quantunque
se ne faccia un giudizio così sfavorevole.
Non so quindi decidenni di accogliere come accer-
tate le due date che il Luzio dk alla nascita ed alla mo-
nacazione del Folengo, le quali potranno essere vere,
ma anche non lo potrebbero essere.
Egli ritiene che la monacazione sia accaduta dopo
la fuga da Bologna del Folengo, giù dal 1512, e basan-
dosi su di ciò, e sulla interpretazione dei versi succitati
che il poeta avesse 30 allorché scriveva il Caos^ che ri-
tiene nel torno del 1526, lo fa nascere nel 1496.
E il conto non sarebbe discorde con quanto dice il
Folengo della età, che aveva allorché si fece frate, 15,
o 16 anni, perchè ritardate le due date di tre anni, re-
stano ancora i 15, o 16 anni suddetti.
La prova maggiore che Luzio ha in favore della
sua tesi, per la monacazione, la attinge da questi versi
che egli toglie dalle Cipadense^ libro secondo, che corri-
sponde alla 22'"* Maccheronica, che narrano la fuga del
poeta da Bologna,
Ihlia Merlinus nobis essendo scolarus
Cantavit pa^ris, non ut zentaja bajaffat^
Quando cucullatae pralicabcU clauslra brigalae,
Nonduia finterai Baldi, confesso, volumen
Ille bisogìiavU, nascenle disordine magno.
Se scampare viam, mentemque, abitumque sub arda
Ijege baralavil, Baldum reliquil iìianem.
Questo mutamento di abito e di mente, sotto legge
severa, il Luzio crede che indichi la monacazione.
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— CXI —
Ciò è probabile, ma non panni certo. Poi vi sono
altri dubbii.
Il Poniponazzo fu chiamato a Bologna nell'Ottobre
del 1511, e vi sarà andato senza indugio, ma il Folengo
quando vi è andato? dopo del Pomponasso^ od assieme
a lui? e quanto vi stette? anni, mesi? e quando se ne
palli ?
Ritengo che abbisogni sciogliere prima questi quesiti
per essere sicuri che l'induzione della monacazione al
dicembre del 1512 sia sicura, lasciando a pai-te ogni dis-
quisizione sulla interpretazione dei surriferiti versi.
Un appoggio sicuro non parmi lo diano i versi del
CaoSy primieramente perchè non è certa la data precisa
della composizione del Caos e di tale incertezza ne par-
lai a pag. XXXVI, di questa prefazione, onde non si può
avere per punto di partenza a fare dei calcoli ciò che
non è determinato, e secondariamente perchè se nel Caos
e m\Y Orlandino si parla di trenta anni si parla anche del
mezzo del carain della vita, che non sarebbe, secondo
ropinione, comunemente ammesso, a trenta anni.
Non dico che i calcali di Luzio siano sbagliati, ben
altro, dico soltanto che sono insufficentemente provati,
perchè abbiano a distruggere la attendibilità delle due
date ammesse dai predetti biografi, quella del 1482 per
la nascita, e Taltra del 1509 per la monacazione.
Questa poi sembrami suffragata di prove più auto-
revoli di quella del Luzio, perchè TArmellini la desunse
massimamente dai registri del chiostro, ex nostris regestis^
ed io sono in grado di addurre la testimonianza di un
altro registro, proveniente dal chiostro di S. Benedetto
di Polirone, che si conserv^a fra i codici manoscritti della
nostra biblioteca comunale.
n codice, porta il titolo : Matricida — Omnium —
Mona — cho — r^a — m — Congregationis — nostrae.
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t
y — CXII —
L A cai-te 42. t. nelFeleuco generale dei professi della
Congregazione intera cassinense, sotto Tanno MVIIII, vi
è notato
h . In S. JSuphemia — D. TheophUtts de Momtua — 24 Junii.
e in margine si ha questa annotazione, sincrona alla
registrazione : Theophilus iste est — poeta qui Macaro
— neam composuit — et alia ptUcherima — opera edidit
lec — tu dignissima — et Merlinus dictus est — et se-
ptdttts in Ecclesia — Sa/nctae Crucis de Campesio — prope
Baxianmn.
A carte 189, nell'elenco speciale dei professi di S.
gt Eufemia^ abbiamo: In S. Euphemia — D. Theophilus de
Ì< MantìM^ 24 Jwaii 1609 ed in margine in carattere del-
^ r istessa epoca della prima annotazione, leggesi : n
'^ Iste jecit Ma^aroneam et — sepvltus est in Monas.
\> — S,ae Crucis de Campes.
% Tanto neir elenco generale che nello speciale dei
^ ' professi in S. Benedetto di Polirone, sotto la data del 9
Aprile 1497, professa un D. Ludovicus de Mantua.
Paiimenti fra i professi di S. Benedetto nell' uno e
'' neir altro elenco, si legge che 3 Ottobre 1507, professa
' nel monastero suddetto, un D. lo. Baptista de Mantua,
^ I nomi e la loro- provenienza da Mantova concor-
dano con quelli dei tre fratelli Folengo, monachi del-
l'ordine • benedettino, e come si potrebbe asserire che non
'y uiano essi ?
^^ Che siano essi, ne abbiamo una prova in ciò che
^ la data della professione del Griov. Battista, coincide con
I quanto egli dice nei PomUiones che nel 1542, avesse 52
f * anni di età e] che da trenta sei anni portasse il nero
^* abito benedettino, i quali 3G anni si compievano ap-
^ punto nel 1542, avendo vestito Tabito nel 1506, per il
V noviziato, e professato i voti' nel 1507.
^ Il registro fu cominciato entro il primo ventennio
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— CXIII —
della seconda metà del secolo XVI, e quindi pochi anni
dopo la morte del poeta, e perciò da un suo contempo-
raneo, che lo principiò e lo condusse sino ai primi anni
del terzo decennio. Al 1575 incomincia un' altra mano.
La compilazione, la quale ha totalmente un carat-
tere storico, e a questo intento fu fatta, venne eseguita
senza dubbio sulle memorie e sugli atti dell'ordine, che
noi sappiamo che erano accuratamente e gelosamente
custoditi. Sappiamo anche che ogni casa religiosa aveva
il proprio registro.
Il codice ha quindi una grande autorità, e concorda
con quello che consultò l'Annellini e che gli ha fornita
la notizia della monacazione del Folengo al 24 Giù-
^0 1509.
Come si può a non prestargli fede? onde potere
negare la veracità sua, o in tutto, od in parte, occor-
rono delle prove e delle testimonianze irrefragabili, che
ora non si hanno.
Né vi è il caso di equivocare, poiché noi vediamo
che, tanto nell' elenco generale di tutto Y ordine, quanto
in quelli speciali di ciascuna famiglia, né prima né dopo
il 1509, si trova un Teofilo da Mantova.
Se poi la data e il luogo della professione non sono
quelli dei tre fratelli Folengo, se costoro professarono
in qualche altra epoca, e luogo, e perciò se quelle an-
notazioni non riguardano loro, ma altri individui manto-
vani, quando ed in quale luogo professarono essi?
Lri Toscolana — La Cipadense — Le Ravani e
la Varisco 1561.
Non mi accordo col giudizio che il Luzio fa della
Cipadense e delle Ravani e Varisco 1561.
Egli ritiene il Baldo della Cipadense preferibile di
gran lunga a quello della Toscolana, e a provare la
ragionevolezza della sua preferenza adduce parecchi passi
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— CXIV —
dell'uno e dell'altro Baldo, ed è una verità che quelli
della Cipadense sono fatti con maggiore cura di detta-
glio e la scena che dipingono riesce più viva e più co-
lorita. Ma non è sempre così ; altre volte la scena fre-
sca, armonica, evidente, descritta nella Toscolana, rimane
dilavata, e stemperata nella sovrabbondanza di inutili
particolari, altra volta si trova i versi rifatti assai meno
belli dei primi. Riferisco un esempio, quello che ci narra
l'andata di Baldo a scuola — La Toscolana dice : pag. 82
Macc. IL
Ergo scolam Baldiis laetanter pergere coepil^
Inque tribus niagnum profectum fecerat annis.
lam quoscumque libros velociter ipse legébaL
Sed mox Orlandi nasaì^e volumina coepity
Non vacat ultra deponentia discere verha^
Non species, numerosa non casus atque figuras.
Non doctìHnalis versarnina tradere mentL
Fecit de norma scartozzos mille Donati
Inque Perotiimum librimi salcicia coxit. ecc.
E la Cipadense, alla terza maccheronica, cai\ 24:
Ergo scholam Baldus nisi non idtronei<s ibat
Nam quis erat tanti seu mater, sive pedanlus^
Qui tam lerribilem posset forzare putinum ?
Jamque tribus magnum prof ecium fecerat anni%
Ut quoscumque libros legeret nostrique Maronis.
Descriptas guerras fertur recitasse pedunto,
At mox Orlandi ìiasare volumina coepity
Non deponentum vacat ultra ediscere normasy
Non speciesy nunwros, non casusy atque figurai.
Non doctrinalis rersamimi tradere mentiy
Non hinCy non illiCy non hoCy non illoCy et altra.^
Mille pedantorum tradere bajasy totidenque fusaraSy
Fecit de cujus Donati deque Perotto
Scaì'tozzosy ac sub prunis salcizza cosivit.
— ^^i*^
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>^
— cxv —
Sono cinque versi di più, clie vi ha incastrato, e
con essi dei particolai'i di Baldo che va scuola non ne-
cessarii, né opportuni.
E le stesse mutazioni che ha fatto ai versi della
Toscolana ne scemano considerevolmente il pregio, V ali-
monia, la freschezza, e basti il primo verso dei citati
per provarlo.
I pregi ed i difetti delle innovazioni, ampliazioni e f^V
modificazioni della Cipadense si equilibrano ed a vicenda '■'^^
si distruggono, e perciò non la rendono né migliore, né ;V^
preferibile alla Toscolana, come opina il Luzio, tanto da
caldeggiarne una edizione. Né vale il dire che sia la
sola acconsentita dall'autore, perché in questo caso il
parere del pubblico corregge l'erroneo giudizio dell' au-
tore, come lo ha corretto, dandoci undici ristampe della
Toscolana, ed una sola della Cipadense.
Su di un altro punto dissento dal Luzio, nel giudi-
zio che fa del Baldo, edito prima dal Ravanì nel 1552*
II Gaspary, come ho notato precedentemente, volle
vedere nel Vigaso Cocaj una finzione dell'editore Ravani,
ma IjUzìo fece un passo di più, un passo lunghissimo a
vero dire, asserendo che la edizione Ravani non é che
una riproduzione della Cipadense, ora bene, ora male
raffazzonata dallo stesso editore, e quindi una ciurmeria,
una contrafazione libraria in piena regola.
H Vigaso Cocajo avrebbe operate le alterazioni, e
le manomissioni nelle tre composizioni maccheroniche
della Zanitonella, del Baldo e della Moscheide, onde, far
credere, come lo dice nella prefazione sua, che quanto
veniva a pubblicare era un nuovo lavoro, diverso dai
precedenti.
Se fosse così, la sarebbe una frode enorme, nuova
negli annali della storia letteraria.
Io non so se il Luzio abbia, a sostegno della sua
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CXVI —
asserzione altre e piìi convincenti prove di quelle che ci
ha fatte conoscere, neanche so se altri prima di Ini, ab-
biano asserita, o soltanto sospettata, la frode del Ravani,
ma non panni, perchè Luzio le avrebbe già esposte, non
essendo egli bisognoso di sotterfugi di sorta, né essendo
da tnnto da usare di cotali artifici. Se non ce le fece
conoscere vuol dire che non le ha, né presso i biografi
ed i critici del Folengo ho mai trovato che si accampi,
anche solo come semplice ipotesi, il giudizio di Luzio.
E vero che .nella Toscolana abbiamo un Epistolium
coUericum, magistri Aqtmrii ad Scardaffum Zaratanum.
Merlini poematis corruptorem^ il quale Epistolium venne
riprodotto dalla Bevilacqua 1564, dalla Varisco 1573,
dalla Imberti 1585 etc, ma lo Scardaffo Ciaratano^ non
può essere il Ravani, perché la sua edizione é posteriore
di ben 32 anni della Toscolana.
Sono di 'avviso che, tutto al più, si debba stare col
parere del Gaspary che il nome e la prefazione di Vi-
gaso Cocajo li ritiene una finzione del Ravani.
Forse sarebbe stato più semplice il dirli, addirit-
tura, una finzione dello stesso Folengo, preparata avanti
la morte, poiché cotesto espediente, si può dire che lo
ha usato in tutte le edizioni precedenti.
Lo ha usato nella Cipadense, usando del nome, e
forse anche della persona di Francesco Folengo. Lo ha
usato nella Toscolana, negando prima il manoscritto al
Paganini, dandogli poi sotto mano T Apelogetica^ e la
Normula^ che sono due cose fatte appositamente per la
stampa. Lo ha usato, nella edizione del 1517, facendo
credere un rapimento del manoscritto, e stampato, liù
insciente e contradicente.
Ma da un espediente simile ad una frode, quale de-
nuncia il Luzio, ci corre molto.
Così, adunque, come si é, non sembrami fondato il
k.
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\,
l
— CXVIl
pai-ere che Luzio fk delle Ravani, e conseguentemente
(Iella Varisco 1561, alla quale si aggiugne T anonima
del 1562, che non è che una seconda edizione del Va-
risco, diversa per tipi e formato dalla precedente, ma
identica nella sostanza. Tutto ciò non scema il merito
dello studio del Luzio, il quale studio non esito a dirlo
il più considerevole che siasi fatto, sin ad ora, intorno al
nostro poeta *).
IX.
LA cipadensp:.
Parecchie volte nello svolgimento del precedente
capitolo mi è accorso di fare cenno della edizione delle
maccheroniche del 1530, che porta la data di Cipada, che
0 Dalla cortesia del Big. Marchese Alberto Capilupi ebbi questa
memoria preziosa, che riguarda il Folengo, la quale può venire utile al-
lorché del poeta si avranno raccolte maggiori notizie, di quelle che si
hanno adesso, per scriverne la vita.
La memoria è tratta dal codice manoscritto contenente la Vita di
Lelio Capilupi seniore, assieme a quelle di altri Capilupi, compilate da
Camillo Capilupi, protonotario.
« Lelio nacque a bore XXIII del MCCCCLXXXXVII, fu mandato
dal padre allo studio di Bologna, acciocché desse opera a quello della
legge, ma egli avendo pigli ita amicitia col Folengo frate benedettino, un
poco suo parente, nel viaggio che faceva da Mantova a Bologna, il Fo-
lengo gii fece vedere più volte, in molto segreto, l'opera che lui faceva
in versi da lui chiamati maccaronici, onde poi chiamò l'opera Maccaro-
nea, et il libro intitolato Merlin Cocaj. Il Capilupi adunque invogliato
della poesia di quel genere si diede anche egli a compierne et ne fece
parecchie, con quali dilettava molto li scolari suoi compagni ed io mi
ricordo haverne udito recitare alcune a Papa Pio 4°, che era uno dei suoi
amici et cominciava — Pdsqica Felina Pintcs — alludendo ad uno sco-
lare genovese detto il Pasqna, che poi, di medico, fu fatto Cardinale dal
medesimo Papa »
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— cxvra —
per ciò è detta la Cipendense, comecché esistesse real-
mente, in c>ontradizione a quanto dichiarai nella prefa-
zione del primo volume a pag. cix. che la dissi in-epe-
peribile, nonostante le molte ricerche che io ne avevo
fatte nelle principali biblioteche europee. Ora devo spie-
gare l'apparente contradizione.
Alla perfine un' esemplare dell' edizione di Cipada
venne ritrovato, e il fortunato possessore del prezioso
libro, che, a mia cognizione, è l'unico esistente, è il par-
roco di Campese, don Francesco Sartori, il benemerito
rlstauratore del monumento sepolcrale del Folengo.
Avendo egli letto quanto io diceva di questo libro
nella suddetta mia prefazione, non indugiò, né esitò, un
istante di metterla a mia disposizione per un anno,
con atto cortesissimo, onde me ne giovassi nella ri-
stampa di questo terzo volume, del che io gli rendo le
pih vive grazie.
Le indicazioni che ne dk lo Zeno e che io riferii a
pag. Lix, della prima prefazione, sono esatte, meno quella
che la segnatura del luogo della stampa e dello stam-
patore — Cipadae^ apnd Magistrum Aquarium Lodolam^
stia sotto il busto, mentre gli sta sopra e precisamente
subito dopo la lettera di Nicolò Costanti, mentre sotto
gli epigrammi, e avanti \ errata corrige^ vi è una rap-
presentazione, che lo Zeno non ha rilevato, forse perchè
non ne intese il significato.
Vi è un agnello ritto, colla testa verso terra, da-
vanti al quale, appeso ad un tronco, sta un caitello, sul
quale si legge la parola PERIERAT, che è parte del
passo del Vangelo, perierat et inventus est, che si riferi-
sce alla parabola della pecora smai-rita.
In questa pecora smarrita, o agnello è simboleg-
giato il Folengo ravveduto e pentito, il che conferma il
carrattere confessionale del Caos.
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— CXIX —
Consta di carte 321, formato bislungo, e caratteri
aldini.
DalFesame che ne ho fatto mi sono convìnto che
avevo ragione di snppore, che la Boselliana ne fosse una
esatta riproduzione, perchè in questa nulla si trova di
mutato, o di diverso dal suo prototipo. Una cosa sola ha
ommesso la Boselliana, quella di riprodurre il busto del
Folengo, e la pecora, percui d'ora in poi gli studiosi che
non abbiano la fortuna di avere fra le mani la Cipadense,
a vece di essa, ponno adoperare la Boselliana.
Un ringraziamento lo deve anche al Marchese Ip-
polito Cavriani, e glielo faccio cordialissimo, perchè an-
che questa volta, con generoso sentimento, mise a mia
disposizione, per la durata del lavoro, tutte le sue molte
e preziose edizioni delle opere del Folengo.
Attilio Portiou.
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V^Éterir.
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L'ORLANDINO
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ORLANDINO
PER
LIMERNO PITOCCO
DA MANTOVA
COMPOSTO
FÉ
mm^
GO
Mensibus istud opus tribus indignatio fecit.
Da medium capiti notior author erit.
Orlandum canimus parvum, parvum inde volumen.
Si quid turpe sonat pagina vita proba est.
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SONETTO DEL AUTORE
Molte malìzie copre in se la volpe
I perde chi le crede fin al ^) gallo ;
Ragion però non era che '1 cavallo,
L' ossa tenendo, a lei desse le polpe.
I t' arricordo che per V altrui colpe,
Nanti la piva entrat' ì son in bailo ;
Volsi por man in trasmutar metallo,
Senz' arte, ond* è chi mi disnervi e spolpe^/.
Cotesta mercanzia mi vien di Fiandra,
Ove lo seme nacque de' pedocchi.
Che musico gentil m' han fatto d'arpia.
Così fusse l'autor de la Leandra
Acciò che 'I cancar gli mangiasse gli occhi,
hi un fondo di torre fatto a scarpa^)
1) Al: lotnbarclisrao invece di U, clic lascio, come lascio
tutti gli altri, che non sono pochi, che trovansi nel poema,
messivi appositamente dal Folengo, e cOc ne costituiscono una
caratteristica.
2) Allude alle sue peripezie di fede.
3) Non è conosciuta la cagione dello sdegno del Fo-
lengo contro Pietro Durante da Gualdo, autore del poema la
Leandra. Il Folengo bistratta il Durante anche verso la fine
della Maccheronica XXV a pag. 207 e seguente.
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Orlandino
A
FEDERIGO DI MANTOVA
Marchese Illustrissimo
CAPITOLO PRIMO
IVlAONANiMO Signor, se 'n te le stelle
Spiran cotante grazie largamente,
Piovan più tosto in me calde frittelle,
Che seco i iK)8sa ragionar col dente:
Dammi bere e mangiar, se vuoi pifi belle
Le rime mie ; eh' io d' Elicon niente
Mi curo, in fé di Dio ; che '1 bere d' acque,
Bea chi ber ne vuoi,» sempre mi spiacque.
n
Ben ti'ovo eh' un fiascone di buon grego
Versi cantar mi fa di venti piedi ;
Tanti dottori disputando allego,
Che a me più che a Tommaso e Scotto credi;
Né dirti so cotanti probo^ nego^
Purché qualche argomento mi concedi;
Non parloti (1) cristero, né supposta,
Ma qualche buon cappon, od oca rosta.
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Orlandino — Capitolo 1
III
Ti accei'to ben, ch'io canto il Miserere^
Ne ad vitulos son anco giunto mai;
Boezio (2) da trent'anni sul tagliere
Mi dà tempre ristor, si come sai ;
Però, se vuoi ch'io canti, o bel missere.
Dà del fiato alla piva o poco o assai,
Fiato di ciance nò; ma intendi bene,
Mangian e bevon anco le Camene.
IV
O tempi grassi, o giorni fortunati.
Quando e' Poeti si trovomo buoni,
Mercè Gian Bocca d'or de' Mecenati,
Che ingrossar fenno già molti Maroni ;
Or non così piìi nò ; ch'oggi pia grati
Son gli ubbria<3hi, sguattari, e buffoni.
De' quelli, che immortai pon fare altrui ;
Perchè est apprezzan piti d' eram^ e fui.
Ma tu, lettor, chi sei ? fermati al varco
Aliti che '1 mio battei entrar comince:
Tratti in disparte, se d'invidia carco
Guardi cagnesco, ed hai vista di lince;
Tal mercanzia, t'avviso, non imbarco.
Perchè talor la collera mi vince,
E la senapa montami si al naso
Ch'io non sto a dir, va dietro^ Satarmso*^
VI
Anzi col pugno ti rispondo all'occhio,
Di ciò che parli in questa e quella orecchia.
Poltron che sei, non vedi ch'ai ginocchio
Rotta ho la calza e la gonnella vecchia?
Non odi tu mia voce d' un ranocchio
Quando montar la rana si apparecchia ?
Però, s'io canto male, sia scusato,
Che '1 lupo si pentì cantar famato.
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Orlandino — Capitolo 1
vn
Ma '1 spirito gentile, (jiial si sia,
Ch' mosse amore (3) dirmi Y error mio,
Jiingrazio molto ; eh' altra cortesia
Non trovo a questa egual, in fé d'i-.Dic.
Pm- sap^r dei, ch'io son di Lombardia,
E che 'n mangiar le rape ha del restio;
Non però, se non nacqui tosco, i' piango ;
Che ancora il ciatto gode nel suo fango.
vm
Però Dante, Francesco, e Gian Boccaccio
Portato han seco tanto, che sua prole
Uscir non sa di suo proprio linguaccio ;
Che quando alcuni d'elli canfoir vqje
Non odi, se non bujo^ arreca^ e caccio^
Né mai dal suo burchiello si distole ;
E pur lor- pare che '1 tempo si perda
Da noi, se nostre rime fusser merda.
IX
Se merda son le nostre, a dirlo netto.
Né anche le sue mi sanno succo d' ape ;
Date perdon al mio parlar scorretto,
Che in chiaro lume nebbia mai non cape;
E questo voglio eh' a color sia detto,
Che chiaman Lomharduzzo mangia-rape ;
Serbo l'onor dell'inclite persone;
Ad altri grido. Tosco chiacchiarone.
Ne alcun di quelli tali m'addimande.
Di qual autore questo libro i' tolsi ;
Rispondo lor, eh' un gran sacco di glande
E duo di fave in quelle bande accolsi.
Ove trovai di libri copia grande,
E parte di essi aver con meco volsi.
Acciò le glande (4) siaii de' pari suoi ;
Ch'assai manco son gli uomini, che i buoi.
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Orlandino — Capitolo 1
XI
Ma se cortesemente alcun sincero
Me '1 chiede, come sempre deve farsi,
Ecco la causa, ecco '1 volume intiero
Gli aiTf.co^^cciò ben possa saziarsi,
E chiai'amente intenda di leggiero,
Quai libici falsi, e quai sian veri sparsi;
Ma non gli faccia mia lunghezza nausa;
Che lungo dir convien' in lunga causa. (5)
xn
Signori miei, son stato in vai Camonica
Per consultar le streghe di quel loco.
Se mi saprebbon di Turpin la Cronica
Mostrar per forza d' incantato foco ;
Una vecchiai'da in volto malenconica,
Rispose allor con un vocione roco :
Gnaffe che sì ; tu la vedrai di botto,
Elitra qui tosto meco, e non far motto.
XIII
I' non me '1 fei ridir, ma s' un montone
Ratto mi vidi al ciel con gran diletto ;
Poi volto il freno verso l'Aquilone,
Discese in Gozia (6) dentro a quel mar stretto,
Ed ivi di sua man un gran petrone
Alzando, aperse un buco sotto 1 tetto;
Si ti-assc dentro, ed io seguilla appresso
Per meraviglia fuora di me stesso.
XIV
Cento cinquantamila e più volumi,
Già non vi mento, vidi in quella tomba.
Che Goti anticamente coi costumi
De' porci, e col rumor eh' in ciel ribomba,
Trasser per tanti monti, valli, e fiumi
D'Italia fuor, la quai par che soccomba
A simile canaglia sempre mai.
La causa ben direi, ma temo guai.
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Orlandino — Capitolo 1
XV
Di Livio qui le Deche sono tutte,
E quelle di Sallustio assai pii'i buone ;
Qui di Turpin fur'anco ricondutte
Quaranta Deche in gallico sermone ;
Io tre di quelle provo esser tradutte
In lingua nostra per quatti-o persone ;
Solo il principio della prima i' tolsi,
Né '1 pargoletto Orlando passar volsi.
XVI
Sol d' Orlandin io canto, e nondimeno
-Quando Tampino divertisce altrove,
De r ordinario suo non m' alieno ;
Che donde in molti luoghi si rimove,
O quattro o cinqije stanze (7) v' incateno,
Acciocché '1 libro mio non si riprove ;
E forse sia col tempo chi su questo
Dira diffusamente tutto '1 resto.
xvn
Di quanti scartafacci e scrittarie
Oggidì cantar odo in le botteghe.
Credete a me son tutte cagarie, (8)
Più false assai de le menzogne greghe ;
Fatene, bei Signori, forbarie, (9)
Ch' ognun, il naso nò, ma '1 cui si freghe :
Sol tre n' abbiamo vere in stil toscano,
Bojardo le ti-ascrisse di sua mano.
XVIII
Come r ebbe non so, s' assel Morgana ;
Che con le streghe anch' egli ebbe mistade ;
Di che mi penso eh' entro quella tana
Fusse portato all' ultime contrade,
Onde togliesse quella pii\ soprana
Parte che valse a gran celerltade ;
Ma non finì tradurle in nostra lingua,
Che morte ogni opra pia troncar s' impingua.
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r'
.( 8 Oblandino — Capitolo 1
>f
ì
XIX
I*er?) lascia imperfetta la seconda.
La (|uul finisce Lndovico appieno;
Ne qui Francesco Cieco più s' asconda,
Che gli rubò la sesta, e nondimeno
Vi giugno assai, per farla più gioconda (10)
;| Onde gli vien da noi creduto meno :
1^ L' ultima diede con sua propria mano
Al s])iii;o gentile Poliziano. (11)
XX
Polizian fu quello eh' altamente
Cantò del gran gigante dal batajo, (12)
Ed a Luigi Pulzi suo cliente
; L'onor die senza scritto di notajo;
|. Pur dopo si pentì, ma chi si pente
J Po '1 fatto, pesta Y acqua nel mortajo ;
f Sia pur, o non sia cotesto vero,
cj'^ So ben, chi crede troppo, ha del leggiero.
XXI
Queste tre dunque deche sin quk ti'ovo
Esser dal fonte di Turpin cavate ;
Ma Tì^ebisunda, Ancroja, Spagna, e Bovo
Co r altro resto al foco sian donate ;
Apocrife son tutte, e le riprovo
Come nemighe d' ogni ventate ;
Bojardo, F Ariosto, Pidci^ e 7 Cieco
Autenticati sono, ed io con seco.
xxn
Autentico son io, perchè la prima
Deca del gran Dottore v' antepono ;
E benché era misterio d' altra lima,
Pur basta assai che '1 vero qui ragiono.
E cominciando de la storia in cima.
La corte di re Carlo pria dispono ;
Poscia diremo come, quale, e quando,
E di qual padre nacque il conte Orlando,
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Orlandino — Capitolo 1
x
xxm
Orlando che non ebbe in terra eguale
Né d' arme, né d' onor, né di fortezza,
Orlando degli erranti principale,
Oh' usava in V altrui bene sua destrezza,
Orlando, sotto '1 cui braccio fatale
Andò la fede nostra in somma altezza,
Orlando saggio. Orlando sì gentile,
Che 'n sue lode voiTei d' Omero il stile.
XXIV
Prima vi naiTO duodeci Baroni,
Che Paladini fannosi chiamare ;
Di Carlo e de la Chiesa campioni,
Buoni per teiTa, ed ottimi per mare ;
Amor, fede, ragion, arme, ronzoni
Erano lor diletto, e gioje care;
Guerre, duelli, giosti-e, torniamenti,
Son proprio pasto di sì fatte genti.
XXV
Milon d' Angi-ante era di lor primiero,
Possia duo soi fratelli, Amon, Ottone;
Danese Ugieri, e '1 Bergognon Rainiero,
Poi di Baviera Namo, e Salomone;
Rampallo che fu Padre di Ruggier<j,
Quel di Bordella, il gran Signor Ivvone;
Morando, e d'Agi-ismone Bovo, e quello
Ginnamo di Maganza iniquo e fello.
XXVI
Questi dopo Milon pari d'onore,
Furon in Corte, e ne' stipendj soi;
Non però tutti eguali eran di cuore,
Perchè sovente tra gli Franchi Eroi (Va)
Scopresi qualche ingrato e traditore,
Come leggendo intenderete poi;
Di quelli dico dal falcone bianco,
Che 'n frode mai non ebber il cor stanco,
i
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10 Orlandino — Capitolo 1
xxvn
Saper vorrei, o Astrologhi, e Greometri,
Che '1 ciel, non che la teiTa misiu-ate.
Di qual violenta stella così tetri,
Cosi maligni influssi alle contrate
Piovono di Maganza, oppur quai metri
Di Negromanti e d'importune Fate
Muovano sì cotesta gente ria,
Che un sol non è, che ti-aditor non sia.
xxvm
Né ardisca dirmi altrui che Sansone tto (14)
Di Grano esser figliuolo, o d' altro tale.
Perchè non venne mai d'un maladetto
Falsario ingannator, uomo leale;
Il volto, gli atti, ed ogni bell'effetto,
German' il fan d'Orlando naturale;
Turpin ciò scrive, e chi mi nega questo,
Nega del detto autore il fedel testo.
XXIX
Son certi pedantuzzi di montag-na,
Che poi che han letto Ancroja ed Altohello,
E dicon tutta in mente aver la Spagna^
E san chi ancise Almonte o Chiari elio.
Credono l'opre d'alti-i sian d'aragna,
Le sue non già, ma d' un saldo martello ;
E così awien, che l'asino di lira
Crede sonar, quando col cui sospira.
XXX
Ma poi (15) che furón d' elli paiate estinti,
Pai'te stracchi rimaser per ti-opp' anni,
Carlo si elesse dodici, di Aiuti (10)
Gioveni forti ai bellicosi affamii,
E, come era costume, gli ebbe cinti
Di brando, sproni, e militari panni,
Ch' oprasser meglio il brando per la fede.
Che 1 predicar a'n popol che gik crede.
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GooQle
Oblìlndino — Capitolo 1 II
XXXI
Vorrei pur veder che i nostri tanti
Teologi e soldati così vari,
Appresentati del gran Tm-co innanti
Vellent antiquos Patres imitarla
Li quali, s' oggi in cielo sono tanti,
Non r han già racquistato con denari,
Ma chi col predicare, e chi col brando.
Siccome fece Paolo, e '1 conte Orlando.
XXXII
Orlando fu di quelli capa e guida.
Poscia r invitto suo cugin Rinaldo,
Segue Olivier ove ogni ben s'annida,
Astolfo il bello avventuroso e baldo,
Gano, stirpe dì Giuda, ed omicida.
Falso de' falsi, perfido, rubaldo,
Figliuol non d' uomo, né da Dio creato,
Ma il gran diavol ebbelo cacato.
xxxin
Succede a questo lupo la colomba.
Colomba non di forze, ma di vita.
Dico Dudon, che con sonora tromba
Ciascun per santo e forte in terra addita.
Non manco di esso il gran nome (17) rimbomba
Di Malagigi, j^allido eremita.
Pur furon differenti i santi loro;
Angeli questi, diavoli coloro;
XXXIV
Poi Vivian suo frate, e Ricciardetto
C'he volse fnrsi, e non potè Gigante;
Soglie Giialtier clic fu di pifi intelletto
Che di foltezza, onde spesso le piante
Mostrò cogli altri al ciel; poi Sansonetto,
Kiccanlo poi, d'ingegno assai prestante;
Aiigelin manca dii-vi, ed Angelieri,
Avin, Avoglio, Ottone, e Bellingeri,
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12 Orlandino — Capitolo 1
XXXV
Fra duodici non vengon questi sei,
Ma Sottopaladini son chiamati,
Perchè nel gran consiglio a quattro, a sei
Entran, se alcun de' primi son mancati;
Ehber ne l'armi già molti ti-ofei,
Dico col cui in teiTa scavalcati ;
E fu tra loro tanta cortesia,
Che sempre traboccor di compagnia.
XXXVI
Orlando, sol per sua virtù, di Roma
Era Confaloniero, e Senatore,
E fu sopra di se la nobil soma
Oh' anco poi'tò Milon, suo genitore ;
Egli tenea la terra umile e doma
Sol de' suoi fatti egregi al gran rumore.
Namo, re Salomone, Grano, Ugieri,
Furon di Carlo i quattro Consiglieri.
xxxvn
Il gentil Olivier sopra un convito
Sempre fu Siniscalco ne la Corte :
D' ordir un ballo Astolfo era perito.
Ed r esservi bufton toccò per sorte.
Tmpin fu '1 cappellano, ed anco ardito
A molti Saracin diede la morte ;
Ma più del pastorale usò la lanza,
L' una smagrisce, e l' altro fa la panza.
xxxvni
Rinaldo, d'ogni bon compagno padre.
Benché più de le volte andasse in bando,
Era luogotenente ne le squadre
Del suo caro cugino conte Orlando ;
Commercio ebbe talor de genti ladre ;
Capo di parte per menar il brando
Nel sangue di Maganza, e Chiaramonte
Sua prole vendicare di tant' onte.
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Orlandino — Capitolo 1 13
XXXIX
Tal oi-diue di quella corte altera
Pose re Carlo, e qui Turpin lo scrive,
Accio ch'abbi, o lettor, la storia vera,
p] che da sogni e favole ti schive
Fatemi dunque, o genti, intorno schiera.
Ed ascoltate queste rime vive.
Vive così, che forse un gardellino
Vi pallerò di quelli del molino.
XL
Nel inclita città, eh' è capo e fonte
De Fahna Franza, dicovi Pai-igi,
Col scettro in mano e la diadema in fi^ontc
Regnava Carlo Mano e San Dionigi:
Questo di Europa regge piano e monte;
Quello tira nel ciel per suoi vestigi
Chiunque in l'alta Trinitate crede.
Alzando a son di spada la sua fede.
XLI
Eran di lano chiuse le gran porte,
E '1 bellico fiiror posto in catene ;
La pace, e libertà con bella sorte
Ivan d'invidia sciolte, e senza pene.
Le quali de' tiranni ne le corte
Riposto avean lor speme ed ogni bene ;
Ma dove ambizione e invidia regna,
Difficil è, che mai pace si tegna.
XLII .
Quanto mai cinge '1 mar, e vede il sole.
Tre capi coronati avean diviso :
Quinci Mambrino, maladetta prole,
Tien tutta 1' Asia, e brama il paradiso ;
Che quanto piti s'acquista, pia si vuole,
E chi non sa rubai-e vien deriso ;
Quindi Angólante l' Africa si gode,
E pur jion esser dio del eie! si j:'ode.
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14 Orlandino — Capitolo 1
XLm
Ah maladetta rabbia d'avarizia,
Cli' ogn' ordine sovverte di natura,
Che per servar tra' popoli amicizia,
Interpose de' regni la sgiuntura.
De' mari, fiumi, e monti; e la malizia
Tosto ruppe de' termini le mura ;
Pero r Italia non più Italia appello,
Ma d' ogni strana gente un bel bordello,
XLIV
Sol dell' Europa Carlo si contenta,
E lei difende da que' crudi cani; ♦
Che se di guen*a alcun di lor il tenta,
]\r()strali tosto, e' ha 1' unghiute mani ;
Tanto H batte, tanto li tormenta.
Che i fa morir ne' fossi e ne' pantani;
E pur sovente provano lor sorte,
Tornando in Franza ad incontrar la morte.
XLV
Starasi dunque Carlo in festa e 'n gioco,
Novellamente Imperator creato ;
Papa Adriano primo in tanto loco
L' avea meritamente sollevato ;
Donde per tutta. Europa si fa foco,
Ed odesi bombarde d'ogni lato; (18)
Ma Franza più de li altri regni gode.
Né altro che trombe, comi, e canti s'ode.
XLVI
Anco di novo 1' alta Imperati-ice
Dal regno ispano venne Galerana ;
Più de le belle bella, e più felice
Era costei d' ogni virtù fontana ; -\
Fra cento dame vergini pudice
Parca fra cento stelle ima Diana ;
Pensate che trionfo Carlo face,
Che '1 cìel cotante grazie gK compiace.
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^
Orlandino --- Capitolo 1 15
XLVn
Tutto Parigi sona cV istriiiueiiti
Per danze, giuochi, salti, e per coree ;
Diverse fogge fanno ed ornamenti
Giovani arditi, e vaghe semidee ;
Onde gli ardori crescono e i lamenti
Belli affocati amanti e amate dee;
Ma più dell' altre Berta, eh' è sorella
Di Carlo, per Milone si flagella.
xLvni
Flagellasi d'ognora nel tenace
Amor, che ha preso al capitan Milone ;
Non mai ritrova posa, non mai pace,
Non mai gli scopre tanta passione ;
Troppo l'aspetto altier, ti'oppo le piace
L' onor, le forze, gli atti del Barone ;
Egli noi sa, ma sciolto va sicuro;
Però da lei fi detto alpestro e duro.
XLIX
Pia de le care cose, cara tiene
Questa donna gentil e bella, Carlo ;
Altra suora non ha, per che gran bene
Le vuole, e falle onor quanto può farlo;
Pur s' egli mai sapesse le catene,
Ch' avvinta Y hanno, e V amoroso fcirlo.
Penso contrasterebbe a tal amore ;
Che pia alto maritarla, tien in core.
Dunque una giostra nova fu contento
Per lei, ch'assai pregollo, di bandire:
A ciò la muove l'aspro suo tormento,
E '1 sfrenato desio, e' ha di nodrire
L'occhio de' folli sguardi; ma il talento
D' un cibo tal non sa, se non mentire ;
Che quanto mangi piti, più senti fame,
Né dramma puoi scemar di quelle brame.
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16 Oklanoino — Capitolo 1
LI
Di Franza tutta, Spagna, d' Ingliilten-a ;
D' Italia bella, Grecia, e d' Alemagna
Vengon già tanti cavalier di guen-a.
Che r alpe ne son cardie, e la campaguit
La grande piaccia d'un steccato seiTa
Milon d'Angi-ante, e nulla vi sparagna,
Perdi' era il mastro ed orditor del tutto,
In fin eh' r esser suo 1' ebbe construtto.
LII
Stavasi Bei-ta sola e pensierosa
Guatando sulla piaccia dal balcone ;
E mentre su una man la guancia posa,
Ed al peggior de' suoi pensier si spone.
Ecco in un manto d' incarnata rosa
Vide r obbietto del suo cor, Milone,
Che vien lontano sopra un bel destriero,
Fallo boffare, (19) e tien nullo sentiero.
Lm
Niun sentiero quel balzano tene,
Balzano d'un sol piede estremo e manco;
Stellato in fronte, e con sottili vene.
Ha largo petto, e rotondetto il fianco ;
Alza le piante, e gioca de le schiene,
Qual neve, (20) qual carbon, qual corvo, è bianco ;
Bello è '1 cavallo e bono ; ma chi '1 regge.
Più bello e bono il fn, mentre '1 coiTCgge.
LIV
Muovel a un tempo al corso, e a un tempo il frena ;
Quello, che intende, or salta, or corre, or gira,
Boffa le nari, e foco ardente mena.
Tutto in un groppo e capo e coda tira.
Ciascun s'allarga; eh' un destrier tien piena
La via capace, e scampa^d chi 1 mira :
Berta ciò vede; onde nel cor V abbraccia,
Che, come neve al sol, convieu si sfaccia.
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Orlandino — Capitolo 1 17
LV
Amor, eh' è spirto inquieto e mai non donne,
Qui l' attendea già lungamente al varco ;
Vede natura in lor esser conforme;
Onde non gran tirar fu d' uopo d' arco ;
Clic quando cessa il mondo esser deforme
Pel ft-eddo, e vien d'erbette e fiori carco.
Quando '1 sol entra Y am-eo Montone,
Nacciue la dama, nacque il gran barone..
LVI
Leva dunque la fronte a Y improviso,
Ed incontrò co gli occhi gli occhi d'ella:
Scendeli un colpo d'un modesto riso,
Che quasi traboccoUo for di sella;
ConcoiTe il sangue, e spento lascia '1 viso;
E 'n mezzo al petto il freddo cor saltella;
Bassa la vista, e poi mirq,r vols' anco,
Allor ne venne al doppio colpo manco.
Lvn
Pallido e smorto, volta il fren altrove;
Ch' un strano caso e novo 1' addolora ;
r dico novo, quandoché mai prove
Non fatto avea d'amare fin ad ora:
Vorrebbe irsene a casa, e non sa dove
Prenda '1 sentiero, tanto è di se fora;
Pur tanto del staffier segue la traccia.
Che trova T uscio, e dentro vi si caccia.
Lvni
In quella fretta eh' uomo pria gagliardo
Da fredda febbre vien ratto assalito,
Corre a corcarsi, e pargli troppo tardo
Ogni presto servir, tant' è invilito ;
Perde la forza, e cangiasi nel sguardo.
Cresce la nausea, e fugge l' appetito ;
Cosi Milon, cangiato in un momento.
Tuttoché coiTa, il corso gli par lento.
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18 Orlandino — Capitolo 1
LIX
Salta d'arzone in gesto, qual non sole,
Che 'n mille parti ha volto lo 'ntelletto;
Chiamasi solo, e quanto può si dole,
Trovando di sospii'i colmo il letto;
Quivi si cruccia, e sfoga tai parole.
Che intenerir potrian d' azal un petto ;
Amor dicea, crudel Amor protervo.
M'hai colto piu', qual sempliciotto cervo.
LX
Per far una leggiadra tua vendetta,
E punir in un dì ben mille offese,
Celatamente V arco e la saetta
Tua man spietata in mia ruina prese.
Ah punto (22) infausto! ah stella maladetta!
Che contra te mi tolse le difese,
AUor eh' io vidi quella faccia infusa
Di tal beltade, a me sol di Medusa!
LXI
Misero me, che indamo esser sperai
Di sì onorevol giostra vincitore ;
E tu cieco fanciullo e nudo m' hai
Gettato fuori, non del corridore
In ten-a, ma di gioja in tanti guai.
Di bella libertade in tant' errore.
Deh!, Dio, se de' mortali unqua ti cale,
Dal cor mi sferri questo ardente strale.
LXII
Pazzo che sei Milon! come non vedi
Che non sei pare al gi-ado imperiale?
Se di tal vischio non ritraggo e piedi.
Che passione (23) mai sperar altro che male?
E posto che '1 suo amor ella mi credi.
Non l'averò però, eh' io non son tale,
Cui la fortuna un tanto ben dar voglia,
E pur amor di lei seguir m'invoglia.
^
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Orlandino — Capitolo 1 19
Lxm
Mentre solingo crucciasi Milone,
E mille fiate vole, e mille avole
Quel che consiglia Amor, quel che ragione,
Facendo come foglia al vento sole,
Ecco nel mar ispano si ripone
Tra le Colonne il già straccato sole,
Sorge la notte dalla parte adversa,
Ciascun in preda al sonno si riversa.
LXIV
Ed in dico, eh' amor è un bardassola,
Più che sua madre non fu mai puttana;
Chi '1 chiama dio, si mente per la gola;
Che in Dio non cape furia, e mente insana:
Amor h un barbagiani che non vola,
Benché abbia Tali, ed usi in ogni tana;
Guardatela da lui; che 1 ladro antico
Lascia la porta, ed entra nel postico.
LXV
Questo ben sa mia diva Caritunga, (24)
Quando talor col sguardo torto adocchia
Qualch' asinelio da la coda lunga.
Che falle porre a canto la conocchia.
Ma lui convien, che poscia si compunga
Deir error suo, perchè qualche pannocchia
Si studia sempre, e fassi buon platonico,
E chi non ha denari è malinconico.
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Orlandino
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COMINCIA
IL SECONDO CAPITOLO
D.
'ammi perdono, priegotì, Cupi dine,
S' e or ti biasmai colla tua madre Venere,
So ben, che mai, senza vostra libidine.
Possibile non è eh' ùom s' ingenere.
Tu sei degno d' onor e di formidine ;
Che senza te saria gik '1 mondo in cenere;
Onde, talor s' io straparlassi, tollera ;
La colpa non è mia, ma de la collera.
n
Anzi ringrazio te, gentil gargione.
Che ni' hai fatto baron di gran nomanza :
Ho sempre un centinajo di persone,
Boni da stocco, ed ottimi da lanza ;
Giammai non si mi parton dal gallone,
E fra lor grido al cielo ; Pranza, Franza ;
La qual, senza passar tant' alpe, o piano,
Con un trattato presi a Cunniano.
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Orlandino — Capitolo 2 21
ni
Grodea 1 Spagnolo, che sotto Pavia
Avea fatto prigion di Franza el Boy
Ed io nel grembo a Oaritunga mia
Ho preso tutta Franza per ma foy.
A che voler Italia in sua balia,
Passando or Adda, or il Tesin, ed Oh? (25)
Venite ad me^ Signores; faciam todos
Baron di Franza, (26) e Cavalier di Rodos.
IV
Ma questa corte sempre qui sen stia.
Che giura non andarmi mai luntano.
Per me sol un contento si desia,
Che 1 cancaro mangiasse il taliano^
Il quale, o ricco, o povero che sia,
Desidra in nostre stanze il tramontano.
Ora torniamo al testo di Turpino;
M' aweggio ben, eh' io son ftior di camino.
Levavasi gik '1 Sole fuor de le acque
Con un visaggio carco di vin corso.
Quando a Parigi il strepito rinacque
Di tante genti per lo gran concorso.
La giostra eh' anti a Berta il Re compiacque,
Si mette in punto ; chi '1 staffil, chi '1 morso.
Chi concia '1 bai'bozzale al suo destriero.
Per non deporr' il culo sul sentiero.
XI
Di fronde, erbette, e floride corone
Piena è la terra, e pai*e eh' ivi pasca
Titiro la sua greggia: ma Carlone,
Acciò che gara alcuna non vi nasca,
Ne' patti fa cotal condizione:
CM, già d arzone nel babordo casca^
Non Ha capace più del pregio posto ;
Ma della lizza fuor ttscisca tosto. (27)
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22 Orlandino — Capitolo 2
VII
Scemano li giostranti con tal gioco,
Finché r ultimo resti vincitore. (28)
Quivi non giostra sguattero, né coco,
Ma Re, Duchi, Marchesi, e d' altr' onore :
Lo premio é un scudo d' or, che 'n alto loco
Pende con un inibin di tal splendore,
Ch' ove non può del sol enti*ar il lume,
Esso del sol ardendo fa '1 costume.
vni
Sentesi già 'ì rumor al ciel diverso
Di trombe e gridi d' uomini e cavalli :
Era nel aere un tempo chiaro e terso ;
Né un picciol fumo sorge da le valli:
Chi qua, chi là, chi al lungo, chi al traverso
Urta 1 cavallo, affrena, stringe, e dalli ;
Chi su, chi giù, chi va, chi vien, chi sede ;
Chi sì, chi nò, per la gran calca vede.
IX
Re Carlo, in mezzo a cento capi d'oro,
Fermato s' era in logo piti eminente ;
Ciascun là mira, e vede il gran tesoro
Che 'ntorno lui splendea si riccamente:
Minerva non giammai si bel lavoro
Trapunse di sua mano a suo parente,
Quant' era il manto, eh' egli, in cotal giorno.
Aver, fra tanti Regi, volse intorno,
X
Ma pria clie al ver contrasto e ragionevole
Si vegna, odi lettor, che vi è da ridere ;
Perchè una trama occulta e sollacievole
Fra duodici. Re Carlo fa dividere.
Ecco improvvisa venne una festevole
Vecchiarda, che comincia forte a stridei-e
Con un suo corno, ed a cavai d'un asina,
Parendo che venisse dalla masina.
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Oblandino — Capitolo 2 23
XI
Tacquer le trombe tutte, e la bertuccia,
Che proprio di bertuccia apparve in atto,
Soffia nel conio quanto può- la buccia.
Rendendo un sono tutto contraffatto.
Ma Berta a tal novella si corruccia,
Presaga già del torto che l'è fatto;
E vede che '1 Danese nel steccato
Era su un mulo magro e vecchio, entrato.
xn
Su im mulo magro, vecchio, e zoppo ancora,
Entrat' era il Danese nella lizza;
Toccalo a' fianchi, e quello in men d' un' ora
Si volge ratto al freno, salta, e guizza.
L'elmo di zucca. Tarmi son di stòra, (29)
La sopravvesta inversa di pellizza ;
E per cimier ha in capo ima cornacchia,
Ch' ivi legata, si dimena, e gracchia.
XUI
Driccia un forcone sulla coscia, e vuole
Che tal sua lancia il scudo d' or guadagne.
Ecco sii una cavalla che si duole
Da' quatti'o piedi, ed ha cento magagne,
Morando, qual limaca, par che vole,
Coperto a fine piastre di lasagne,
E porta una pignatta per elmetto,
La qual si fa cimier del suo cazzetto;
XIV
Abbassa una cannuccia, e fassi targa
Contra '1 Danese con un calderone ;
Sprona la bestia, e vien gridando, guarda:
Danese volge a lui col suo forcone ;
Dannosi un' aspra botta, benché tarda
Fusse per spazio di quattr' ore bone ;
Fra '1 qual tempo Rampallo vi vien anco,
Di speronar un'asinel già stanco,
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I."^'*^"^'
24 Orlandino — Capitolo 1
XV
Un asinel poledro, che venf anni
Stentato avea de' Frati in un convento ;
Pensate, quante pene, quanti danni
Ivi sofferse V animai scontento ;
Alfin ruppe 'l capestro, e fuor d'affanni
Calci e coiTCgge trette (30) più di cento;
E scampandone, fè da buon ladrone,
Rubò agli frati la discrezione.
XVI
Credete a me^ eh' un' oncia, ch'una mica
Non vi lasciò di quella il gran dottore.
Rampallo, che gli è addosso, s'affatica
Urtar innanzi un tanto corridore.
Egli eh' in mente avea già la rubrica
Del breviario tutto di'ento e fore,
Sì lieto andava in simil esercizio.
Come gli frati in coro a dir 1' uffizio :
XVII
Abbassa il capo e levasi a la coda
Per poiTe a teiTa il peso inconsueto;
Sprona Rampallo, ed egli par che goda
Andai* un passo innanzi, e quattro adrieto ;
( ade il Barone su la terra soda,
Scampa, gridando, 1' animai discreto ;
Ride la turba; e il eavalier levato,
Corregli dietro, ed anco 1' ha pigliato.
xvin
Senza toccar la staffa, che non v era,
Saltii quel paladino in cima al basto ;
Arme non bave fuor eh' una pancera
Di feiTO tutta rugginoso e guasto,
Ma di tal tempra, ma di tal minerà,
Ch' al becco d' un moscon faria contrasto :
E l'elmo poi sì di splendor adorno,
Che '1 so '1 noi vide mai, se non quel gioi^no.
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Orlandino — Capitolo 2 25
XIX
Un baston di poUajo è la sua lanza.
Di perle tutta ornata, e di medaglie ;
Ponela in resta al didtto de la panza
D' uno eh' incontra vien coperto a maglie.
Era costui Ginamo di Maganza,
Ch' aiTui non volse già di carte o paglie,
Ma sì di piastre ; e per celarsi alquanto,
Di canape vestette sol un manto ;
XX
Ed un zanetto ancora, che di foco
Esser parea, lo traditor cavalca ;
Centra Rampallo il stringe^ e mancò poco
Che, mentre addosso a lui troppo si calca.
Queir indiscreto non guastasse il gioco,
E con im trave quasi lo scavalca,
Perchè '1 polti'one, per far ben del siiggio,
Venne alla giostra con quel gran vantaggio
XXI
Tal atto spiacque a tutti; ma Re Carlo
Tanto più piacque al atto che or succede;
Manda fiior del stecoato a congedarlo ;
Egli scornato, alla sua tenda riede :
Gli scherni de la turba non vi i)arlo ;
Ch' ognun gli chiocca drieto e man e piede ;
Sol Maganzesi rodon la catena,
Ma Chiaramonte n'ha letizia piena.
XXII
Fra tanto Amon, e '1 suo fratel Ottone
YéVB,n entrati insieme a son di corno ;
Parean che ducent' anni col carbone
Servito avesser di Vulcan al forno;
L' un Satanasso, e V altro par Plutone,
Tanfate, (21) coma e fiamme hanno d'intorno;
Ed a due vacche han posto briglia e sella.
Questo ha uji lavczzo, e quello una padella,
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26 Orlandino — Capitolo 2
xxm
Ciascun il suo forcone mette in resta,
E muove al corso quelle bestie pegre.
Ecco Bovo, e Raineri non s' arresta
Per tema e' haggia delle facce negre :
Portan due nasse da pescar, in testa,
Ma indosso di castron le pelli integre:
Le lance son due scope in un bastone;
Le targhe, una barilla (32) ed un cestone.
XXIV
Cavalcan senza sella due stalloni
Rognosi, e pronti a far delle sue zarde.
Grassi cosi, che agi' ossi de' galloni
Hanno appiccato, come fusser barde,
Duo gran bottazzi^ over dirò fiasconi.
Acciò le genti Tosche e le Lombarde
Intendan quel ch'io parlo; e» s'io vaneggio.
Che meraviglia? sentirete peggio.
XXV
Lascio di dirvi e' colpi che si danno
Con quelle lanze. sue non mai più usate ;
Tal è la gara e '1 gioco lor, che fanno
Romper di risa il petto a le brigate :
Dando e togliendo pel steccato vanno
E pugni, e calzi, e bone bastonate.
Non sì però, clie alcun mai si turbasse,
Né che indiscretamente altrui pestasse.
XXVI
Frattanto Salomone con gran fretta
Vien con un perticon da filo in resta;
Cavalca di galoppo una muletta,
Ed ha cusito al elmo e sopravvesta.
Gonfie vesciche, ed una assai mal netta
Bragazza da bifolco tiene in testa,
Ed una conca per sua targa poi-ta,
Ed al gallon, di légno una gi-an storta^
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Orlandino — Capitolo 2 27
xxvn
Ma per servar Ivvon la vecchia usanza,
Sa un carro a gran stiìdor di rote viene ;
Lo stimiilo da buoi porta per lanza,
E la corba del fien per scudo tiene ;
Dritto non sta, ma con la testa avanza
For delle scale appena; e per star bene,
Agiatamente siede su la paglia
Quel Baron forte, e Cavalier di vaglia.
xxvni
Un bove solo il tira infermo e lento,
E Namo fa l'ufficio del auriga;
Pensate mò, lettori, cpuiuto stento
Era di lui condur quella quadriga:
Or giunti alfine dentro il toraiamento
A torre e dar ad altri la castiga.
Già Namo di menar non si sparagna
La spada no, ma il capo, e le calcagna.
XXIX
Vedestu mai qualche poltron villano,
Poltron s'appella di suo proprio nome,
Discalzo cavalcar il suo germano,
IJ asino dico, a mezzo inverno, come
Spesso mena le gambe, qual insano,
Acciò di borea il spirito noi dome;?
Così Namo facea cazzando il bove.
Che ad ogni cento uii;ate il passo move.
XXX
Or son meschiati insieme que' Baroni
Su quelli animaluzzi magri e vecchi;
Pignatte, e pign<attelle, e calderoni.
Padelle, zucche, barilotti, e secchi
Fan gran rumore, mentre co' bastoni
Si dan buone derrate su gli orecchi.
Orecchi di destrieri, intendi bene,
Scherzo; che doglia tra lor non conviene.
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28 Orlandino — Capitolo 2
XXXI
Otton s' era affrontato col Danese ;
Quello sul mulo, e questo sulla vacca:
Gettan lor aste, e vengon alle prese.
Ed abbracciati ognun di lor s'attacca;
Morando eh' indi passa, tosto j^rese
La coda al mulo, e col tirar si stacca:
Danese dalle man d' Otton si snoda.
Che for del cui si sente andai- la coda;
XXXII !
Volge la briglia per girar Tamiento
Ma tanto fa, se quello fusse un muro.
Morando tien tirato, e tal tormento
Sente il mulaccio, che per star siciu'o
Di non perder la coda, e pioggia, e vento
Spruzzò dal buco, e d' un impiastro puro
Unse talmente il volto a chi '1 tenea,
Ch' egli non uomo, anzi sterco parca.
xxxin
Lascia la coda il buon Morando presto, :
Heiù, quia incolatiis sum, gTidando forte. i
Amon eh' era de li altri '1 più. rubesto,
Su l'altra vacca giunge quivi a sorte; !
A Bovo tolto avea la scopa e '1 cesto, j
E quasi al suo stallon diede la morte ; !
Ma non vede Rainer, che per la coda j
Tien anco la sua vacca, e via la snoda. '
XXXIV
SpiccoUa via di netto in un sol crollo
Con la facilità eh' ad un pollastro ,
Smembrar vidi talor dal busto il collo ;
Onde '1 tapin senza garbin e mastro [
Andò pur giù da banda, e rivprsoUo j
Col suo destrier in guisa di pilastro;
Né ancx) Rainer per quel tirar con forza
Puote star saldo, ma giù cadde ad orza.
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Orlandino — Capitolo 2 29
XXXV
La coda e' ave in man, saltella e guizza.
Come Hol far una Inserta monca.
PZccoti Bovo al lungo de la lizza,
Coire, eli' ha tolto a Salomon la conca ;
Quello il persegue, e finge averne stizza,'
E tanto or slunga il passo, or la via tronca,
Cli' altìu Io giunse, ove Ivvon gran briga
Prende sul can'o col suo istesso auriga.
XXXVI
Ma Namo per combatter faccia a faccia,
Volto al contrario, fa di coda briglia:
Ivvon di paglia grande copia abbraccia,
E tutta in capo al buon Namo scompiglia;
Eìrli sommerso non sa che si faccia.
Crollasi tutta, ed ha la barba e ciglia,
La bocca, il naso pien di busche e polve, (33)
Ed in un fascio a terra si provolve.
XXXVII
Ee Salomohe, quando Namo vide
Sepolto in un pagliajo andare a teiTa,
Non dubitar, baron, gridando ride,
E con Ivvon comincia un' aspra guerra ;
Quello sul caiTo al basso gifi si asside,
E pugni e calzi, e quk e là disserra;
Che Bovo ancor intorno lo lavora,
Stigando (34) questo a poppa, e quel a prora.
XXXVIII
Morando, Otton, Danese, con Kampallo
Son attaccati, stretti in una calca,
E van facendo intorno im strano ballo,
Mentr uno addosso all'altro pi fi si calca;
Ciascun, per non tomar giù da cavallo,
Col cui al basto, quanto pò, cavalca ;
E presi si han per piedi, mani, e braccia,
E scavalcarsi insieme ognun procaccia.
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30 Orlandino — Capitolo 2
XXXIX
Rampai si volge del Danese al mulo,
Che co' denti gli tiene Y asinelio ;
Fallo lasciar, e V asinetto su lo
Girar di testa, fece un' atto bello ;
Urta del naso, e colse in mezzo al culo
Della cavalla, e sente odor in quello,
Odor grato a' stalloni, e mentre il lauibe
Trovasi aver, di quatti'o, cinque gambe.
XL
AUor con la sua voce assai sonora
Quel musico gentil chiamò mercede.
Poi dritto per giosti*ar anch' esso esplora
Quella targa investir eh' anti si vede,
Stk su duo piedi, ma Rampallo, allora
Spietato e duro, tosto « gli provede, '*
Salta del basto e d' un legnalo in colmo ,
Quanto puote portar carcollo d' olmo.
XLI
E '1 mastro di capella, c'avea cura
Accomodar la voce a l' istrumento,
Non stette saldo a quella battitura,
Come al martello non sta falso argento ;
La chiave di Bè lungo forte e dura
Fatta Bè molle si ritrasse di'ento.
Si come la limaca far si sole,
Quando s' incontra a chi beccar si vole.
XLII
La risa non vi narro delle donne,
Che ciò, fingendo non guardar, vedeano,
E chi cercato ben sotto le gonne
AUor avesse, forse che rideano
Con altra bocca fra le due colonne,
Ove molte formiche discoiTeano
Per brama di mangiar non pan' o vino,
' Ma sòl di fra Bernardo il scapuccino.
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Orlandino — Capitolo 2 31
LXIII
Berta sol è colei, che mai non ride ;
Anzi lo riso d' altri piti Y offende ;
Tace di for ma divento smania e stride,
Che r ira quinci amor quindi Y incende,
Carlo che di luntano star la vide
Cosi sospesa gi-an piacer ne prende,
Ella s' accorge e via si tolse presta,
Fingendo dol di madre, o pur di testa,
LXIV
Fugge alla ciambi-a ; e come da 1 costume
D' amanti ; al letto buttasi con fretta ;
Ben si dimostra al guardo al torbo luxnc ;
Ch' una man fredda al cor le dà gran stretta;
E se di pianto al fine un largo fiume
Non vi rompea l'ardor della saetta
L' arrebbe incesa comò for si sole
D' un legno, che cent' anni coque il sole,
XLV
Levasi al fine, e un paggio di dieci anni
Chiama, eh' un Cherubin non fc piti bello
Tutt'era adorno in strafoggiati panni,
jy ini capriolo pih leggiadro e snello ;
Chiedelo Berta, volta in gi^andi affanni,
E comanda, dicendo or va dongello,
Va ratto ratto in piazza e tra le squadre
Cercando, fo che vegna a me tuo padre.
XLVI
Non ti pensar chel fonte le risponda.
Anzi qual presto gatto giù. descende.
Acciò chi sia 'l citeVo non s' asconda.
Dirollo, poi chò 'l senso qui vi pende.
Quest'angioletto da la chioma bionda,
Che 'n grembo a Vener qual' Adone splende,
Rugier da Risa nomasi, eh' è figlio
Del prò Rampallo bianco quant' un giglio.
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32 Orlandino — Capitolo 2
XLVn
Qual giglio qiial ligustro è '1 suo candore,
Co gli occhi negri ed ha capo romano,
Di sguardo lieto d' animoso core,
Di ben quadrato petto, gamba e mano.
Taccio la sua destrezza il suo valore,
Grato a ciascun più grato a Carlo mano.
Che da Rampai suo padre il volse in dono
E quel ornò del brando ed aureo sprono.
XLvm
Non cessa dunque mai, non mai s' attrìga,
In fin che trova il padre al stolo drento,
Esso cogli altri uscito era di briga,
Ch' eran caduti in quel torniamento.
Quando vide '1 figliuolo, che s' intriga
Fra li cavalli senza alcun spavento ; (35)
Pensi qualunque padre se gran pena
Cacciogli '1 sangue al cor for d' ogni vena,
XLIX
Scridalo forte e al tornar V affretta,
Come 1 severo padre al figlio sole ;
Egli securo d' arme non sospetta,
Taglia del padre V ultime parole,
Venite padre, dice, che v' aspetta
Madonna Berta che parlar vi vole;
Poscia si volge e scampa ritornando,
Rampallo il segue a piede sol («ol brando,
Verso il palazzo vola quel barone,
E con Rugier fu inanzi a quella diva;
La qual vedendol, presta in tal sermone
Proruppe, in volto neghitosa e schiva;
0 belle prove che vostre persone
San far in giostre; voglio che si scriva
Cotesti vostri fatti nelli annali,
f Dì Franza a quelli de' Roman eguali,
>•
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Oblandino — Capitolo 2 83
LI
Chi v'ha si ben instnitti? dite: quale
Fu si bon vostro mastro di brocchero?
Dricciar potrassi un can-o triumfale
Agli alti capitan del nostro impero.
O franchi cavallier, che con le scale
Su gli asini sì balzan di ligiero,
Che benedetta sia la gi-azia vostra,
Poi che m' ornati d'ima simil giostra.
LH
Qual mera^Hglia poscia, se l' ispani
Vi dicon Bottaglion, (36) Baghe di vino ;
Voi di bravar sol. boni, gli altri sti'ani
Chiamati, alle villen, paglie^ ciichino (37)
Quand' è poi tempo di menar le mani,
Sete peggior del sesso feminino,
E pe 1 vostro supè ben spesso accade,
Ch' Italia vi ritien nel fil di spade.
LHI
Rampallo eh' allor vede per grand' ira
La donna dir . quel che non sa, che dica,
Sorride alquanto e 'n parte si ritmi
Ove d' udirla pone ogni fatica,
Finché smaltisca quella voglia dira,
Che la memoria ed il parlar intrica,
Ma raquetata poi tal vento e pioggia,
Egli parlando piano a lei s' appoggia.
LIV
Madonna, vi ringrazio eh' io sia tale.
Cui dir si poscia ciò che dir vi piace ;
V'accerto ben, che sei sia ben o male
Quel eh 'n giostra intervien ])er me si tace,
Anch'io giostrai su quel vii animale
Per non esser fra gli altri il contumace,
Quando che chiar vi faccio e manifesto;
L'Imperator esser cagion di questo.
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84 Orlandino — Capitolo 2
LV
Ver è perchè ciò faccia dir non so,
Ne for che Carlo altra persona il sa;
Q^od autem habeo tantum hoc tihi do,
Ch' un vero mio pensier a me anco '1 dk ;
Vero anzi nò ma dubbio, dirlo vo.
Perchè la cosa molto queta va
Lo Re per noi questo tal scherzo fé ;
Per mal non già, clie v' ama quanto se.
LVI
Si come avviene, par eh' ognun s' appaglii
Di far r amico scorocciarsi alquanto,
Ma non gridate più, che da imbriaghi
Cotal giostra non de proceder tanto ;
Sarà chil scotto innanzi sera paghi
Se non me 'nganno e poi darassi vanto,
Quel che si vanta sempre lo spagnolo,
Aver vittoria un tratto senza duolo.
Lvn
Se noi baghe di vino e bottaglioni
Chiamano, dican questo a quei di Pranza
Per che di Carlo e' dodeci baroni
Sono, for che la stirpe di Maganza,
Scesi da Roma da que' Scipioni,
Coraeli Fabii, o d'altra nominanza,
Che Cesare espugnando in questa parte
Lasciovvi assai del popolo di Marte,
LVUI
E di cotesto possio fai-vi fede
Col testimon del vescovo Turpino,
Ch'un libro vecchio e autentico possedè^
Lo qual Silvestro scrisse a Costantino,
Ove la nostra origine si vede ;
Mongrana, Chiaramonte e di Pipino,
Non siamo Ispani, Franchi, ne Alemani,
Non arabeschi nò; ma Taliani,
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Orlandino — Capitolo 2 35
LIX
Italia bella, Italia fior del mondo, .
E patria nostra in monte e in campagna,
Italia forte arnese che, secondo
Si legge, ha spesso visto le calcagna
Deir inimici, quando a tondo a tondo
Ebbe tal or Tedeschi, Franza; e Spagna.
Che se non fusser le gran parti in quella,
Dominarebbe il mondo Italia bella.
LX
Berta, eh' ode il germano esser cagione
Di quel tal scherzo d'asini da basto.
Ma che giostrar si de poi con ragione,
Non fece di parole altro contrasto.
Ma chiede sol perchè non v'è Milone
Ai-raato de villani al vero pasto.
Perchè se sei vilan e voi star bene,
Recipe un pezzo d' olmo su le schiene.
LXI
Rampallo disse a lei : mi meraviglio,
Madonna, assai di questo che non venne
Or or m'avento a lui perchè consiglio
Pigliar volomo insieme del solenne
Contrasto ch'esser deve: or stanne figlio
Qui con madona e detto ciò le penne
Spiegando a' piedi l' alte scale scende,
E alla stanza di Milon si stende.
Lxn
Ma ritorniamo al rustico certame
De' paladini fatti mulatieri;
Or voto il carro avea Iwon di strame,
E d' altro schermo gli era già mestieri,
E col suo vecchio bove fea letame.
E mentre co le spalle i cavallieri
Contendon lui col carro traboccare.
Si corse al cui del bove a riparare.
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S6 Orlandino — Capitolo 2
LXin
Ivi suppose ambe le man con fretta,
Pensate qual finttada vi racolse,
E fece un, non gik d'acqua benedetta,
Asperges me^ che Bovo proprio accolse
Del volto in mezzo; e poscia qual saetta
Pien'anco i pugni di quel puzzo tolse,
E così dritto il bon arcier il scocca,
Ch' a Salamon stoppò gì' occhi e la bocca.
LXIV
EUi abbatuti più da la vergogna,
Fuggon for del steccato immantinente,
Carlo gli fa, per più scherno e vergogna.
Sbatter gli piedi e man di-ieto la gente.
Lo mulo del Danese, eh' in Bologna
Anzi a Parigi stato era studente.
Ficca la testa in giù da valent' huomo,
E col cui alto fkcevi un bel tomo.
LXV
Fkcevi un tomo tale, eh '1 Danese
Una stretta da mulo ebbe a la panza ;
Morando con Otton venne a le prese.
Ed ambo di cascar stann' in balanza.
Iwon ; eh' era sul carro, qui comprese
Ch' alla vittoria poco tempo avanza
Caccia lo bove e tanto il driccia e punge,
Ch' ove son' abbracciati al fin si giunge.
LXVI
E qui con quella soga, eh' al gran trave
Noda il bifolco e stringe paglie o feno,
Acconcia un laccio^ e poi eh' acconcio l' bave
Lor osservando va^ ne più ne meno,
Ch' altrui lusinga e move il pie soave,
S' un fugito cavai segue col freno ;
Fin eh' a 1' orecchia o altrove da di mano
Torna la brigUa, e poi gli è duro e strano.
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;1
Oriandino — Capitolo 2 3f |
V
Lxvn
Così Ivvon mlentr' a fatica muove
Il carro s' accostava a li baroni, i
Poi visto il tratto gitta il gi-oppo, e dove [
Segnato avea, la corda su' galoni ' \
Cadendo tira e quei legati smove, ;•
Traendoli sul can-o da gli arzoni, ;
Come talor si vede stanco e lasso f
Lo villanel tirar di legna un tasso. ;
Lxvin
Ben vi so dir, che gli sudò la braga,
Nanti, c'avesse il carro su le scale, ;
E se di lor ogn' un stretto non caga ;
Convien che for coreggie al manco exale.
Non mai veduto fu cosa più vaga.
Che gli ha legato sì le braccia e Tale,
Che non si moven più, se fussen zocchi (38) 1
I] se si moven punto moven gli occhi. i
LXIX !
Or qui de trombe piti di cento intorno
Comincia il tararan con gran rumore ; ;
Vittoria ciascun grida d' ogn' intorno ; l
La vecchia de la tiù-ba salta fore,
E nuda come nacque col suo corno
Or sona forte ; or grida in tal tenore ;
I\^on, viva Ivvon ; viva Bordella ;
Ch'empie di croste e yoda la scarsella.
LXX
Poi spicca un salto e balzasi sul bove,
Quella vacca leggiadra benché vecchia,
E quinci il carro triiunfante smove.
Tanto con le calcagna il bue puntecchia
Ciascun di Ivvon viste le prove.
Buttargli fior e frondi s'apparecchia
E così stando de prigion in mezzo.
Uscì for del steccato a pezzo a pezzo.
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38 Orlandino — Capitolo 2
LXXI
Dunque ti dico o savio e spuda senno;
Ch' esser ti pare un potta modenese ;
Che qualche fiata le persone denno,
Tutto che nobil sian, far del cortese.
Ecco del suo signore eh' a un sol cenno;
Han fatto Bovo, Otton, Namo, Danese;
E tu ti sdegni rustico vilano
Aver se non il dio de' gì' orti in mano :
FINISCE
IL SECONDO CAPITOLO
u-f^^è^
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'^'m^mm
bRLANDINO ;
■^« »-
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COMINCIA
IL TERZO CAPITOLO
XJhamo la coda aver del rubicondo;
Ch' eri nel fin del canto dissi a caso ;
La piccarci (39) di santa Città al tondo
Acciò, eh' ad ambi e' volti avesse il naso,
Quanto so ben : che s' io pescassi a fondo
Di questi santi ippocriti nel vaso.
Vi troverei, che '1 ciel tutti li perda,
Non muschio esser il suo, ma pura merda.
n
Tu mi dirai lettor, eh' io sia scorretto,
E eh' en parlar anzi cagar mi slargo ;
Rispondo: che se '1 buco così stretto
Stato fosse d' alcun, com' era largo.
Ne Giuvenal ne Persio aVrebber detto
Le sporche mende altrui cogl' occhi d'Argo.
Perchè, come poti*assi dir la causa
Di qualche puzzo e non ti render nausa ?
V -.1
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40 Orlandino — Capitolo 3
m
Voi tu saper qual sia la cosa, che
Cercando non ti curi trovar gik?
Quesf è : quando a V oscuro non si ve,
Ch' un soldo a te caduto e quk e Ik
Or cerclii co la mano e or col pe,
Fin che la mano in qualche stronzo va:
Tosto la odori, e ti'ovi quel che nò
Trovar volevi, e il suo cercar fé ciò.
IV
Ch' io voglia dir su questo, ben contare
Potrei, ma uscito ni' è for di cervello.
Tal atto spesso avvien in predicare
Del libro (40) arbiti-io a qualche fraticello,
Tu Todi su le spalle a Dio montare,
E cacciar per un' ago il suo Gambello,
Ma uscita non ha poi, ne sa trovarla,
Chi ascolta, poco intende, e men chi parla.
Torniamo dunque al testo, che la tort-a
Mi sente più di stizzo che di lardo,
Ma voglio qui pigliar la via più corta,
Per non giunger Orlando troppo tardo,
Qui^n Turpin la storia sua trasporta
In Africa, scrivendo del gagliai-do
Almonte primo figlio d' Agolante,
D'animo, forza e di beltJi prestante,
VI
Le gran prove che fece e la soprana
Virtù eh' al mondo sparse per avere
D'Ettore il nobil brando, Durindana,.
E come mai noi potè possedere,
Fin che non descendessc ne la tana
D'un mago Atlante, il quale con minere
Di più metalli e col suo Farfarello
Fé in quattro mesi un' incantato anello.
'Gc_^
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Orlandino — Capitolo 3 41
VII
Quel iticantato aiiello^ cui k figlia
t)ì Gahifrone inòltò tempo dopo
Ebbe con seco a grande meraviglia,
Celandosi d' alti'ui quavid' era uopo,
E ruppe ogni alti'o incanto, che venniglia
V'era una pietra dal sin Etiopo.
Poi si ritoma il mio dottor, seguendo
Di Berta dir, a cui mie rime i' spendo.
vm
Ella sì per amor, e si perdi' era
Donna, come son l'alti*, impaziente,
Per una sua fidata messagiera
A cui scoperto avea la fiamma ardente,
Manda pel sf^gio Duca di Bavera,
E seco ragionando il fé repente
Portar al suo fratello un' ambasciata 5
Alquanto (Vun sdegnetto avvelenata,
IX
Sorrise Carlo seh'^a altra risposta,
Tacendo nftWaì lìsponde Un gran signore.
El quandt» annebbia gli occhi, senza sosta
Scampa nel porto che '1 mar fa rumore;
Ma se '1 guardo ridente miri, (41) accosta,
Accostati, ti dico, che dal cuore
L'occliio sempr' è messaggio o lieto o torbo ;
E questo imprende ogn' un fora eh' up orbq.
X H
Adunque, sazio del giostrar mendace,
Bandisce, rinnovando e' patti, il yerq :
Wd per servar tra soi baroni pace,
Anco per nova festa e gioco intero ;
Come signor che '1 popol suo compiace ;
Fa bando ch'ogni principe, e guerriero
Non porti a lato spada, stocco o maccia
Ma con le lanze sol guerra si faccia.
A
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42 Orlandino — Capitolo 3
XI
Questa fii la cagion, che due figliole
Avea Namo, Ai'meUna e Beatrice ;
S' ambe fusser al mondo belle sole,
Ciascun le vole e meritarle dice.
Danese ebbe la prima V altra vole
Amon, se può, ma Y ira emulatrice
Dei Maganzesi tenta Carlo e Namo
Che r abbia il conte ti'aditor Ginamo.
xn
L'editto dunque fu a ciascun grato,
Sol ai signori di Maganza spiacque;
Ad ogni sceleragine e peccato
Questa canagUa maledetta nacque ;
Vorria veder di Carlo e gente e stato
Sommerso in terra o 'n le marittime acque,
Gli capi d' esti cani sì malvagi.
ti Manfi-edon, Ginamo e Bortolagi.
xin
Buttò Ginamo il brando via con sdegno,
Ch'avelenato avea lo ribaldone,
Fra loro congim'ati era dissegno,
Ch'egli ferisca cautamente Amone,
Tenendosi lor certi, eh' ad un segno
Sol di stoccata morirà '1 barone,
E che sol data sia la colpa al brando,
Pur c'abbian poi Beatrice al suo comniando.
XIV
Scingesi ognun la spada con gran fretta,
Per non opporsi al bando imperiale,
Ecco 'I Danese al sono di trombetta.
Con Tasta diitta attende chi Tassale.
Stava una torma de spagnoU stretta.
De' quali Falsiron è caporjile,
E anco era concorde con Maganza,
Di scavalcar i paladin di Franza,
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Oblandino — Capitolo 3 43
XV
Elli gih non sapean tal trama ordita,
Di che contro Danese va Iwone;
Morando similmente fa pai-tita
Dal luogo suo condendo in ver Bovone ;
Bovone contra lui, eh' ognun s aita
Mandar il suo contrario al sabbione.
Ma stetter tenni questi quattro in sella,
E iron r aste rotte alla mia stella.
XVI
La stella di Saturno o sia pianeta
E quella, che mi fk d' uomo chimera,
Lo qua! non ebbi ma' ne avrò mai queta,
La mente in fantasie matin e sera.
Ciò, dico, perchè officio è del poeta
GioA'ar e dilettar con tal maniera
Di stile, eh '1 lettore non s' attedia,
E ciò fa Dante nella sua comedia.
xvn
Quel Dante, sai ?, lo qual Omer tosca,no
xVppelIar deggio sempre, come ancora
Virgilio è detto Omero mantovano.
Per cui la patria mia tanto s' onora,
E chi '1 Peti'arca fa di lui soprano.
Nel arte matematica lavora.
Che Dante vola più alto, e questa dico,
Col testimonio di Giovanni Pico.
XVIII
Lo 'quale disse ch'ambi hanno l'onore;
Questo di senso e quello di parole,
Vero e che quant' al frutto cede il fiore,
Quanto del sol il lume ad esso sole,
Cotanto d' ogni stile il bel candore
Concede a quella vasta e orrenda mole
D'un alto ingegno d'un concetto tale,
Ch'oltra T ottavo cerchio spiega l'ale.
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44 Orlandino — Capitolo 3
XIX
Tal dico ancor, eh' un Chine di Josquino, (42)
Si coinè astiai più vai di tante e tanti
Canzone e niadricai del Tamburi no,
O merdagalli gli appellar alquanti ;
Cosi pai'nii che Dante alto e divino
Si lascia pò le spalle gli altrui canti,
Che quanto piii de l'opre vai la fede,
A Beatrice tanto Laura cede.
XX
Lettor, sta queto e tien più. corto il naso,
Lode di Dante non biasman Francesco:
Credil a me, se Scotto e san Thomaso
Ebber l'onor dinnanzi, or un tedesco,
O sia di Franza, Erasmo (43) aperse il vaso,
Lo qual de' frati il stile barbaresco
Avea rinchiuso sì che nullo odore
V\h si sentia d' alcun primo dottore.
XXI
Molta scienzia i trovo d' ogni sorte,
Ma pochi bon scrittori e men giudicio;
Però col tempo s' aprino le porte
Di saper sceglier la virtù dal xacio ;
O sante, o benedette, o degne scorte
A conoscer di Christo il beneficio.
Ma perchè forse i' passo gli confini
Ora torniamo ai quattro paladini.
xxn
Ma che faranno, che non hanno spate,
E sol un breve tronco in man gì' resta
Ecco '1 piacer degl' m^i e bastonate,
Che dannosi co' fusti su la testa,
Rideno ciò vedendo le brigate,
Riden e quelli che si dan la pesta;
Fra tanto ancora di- più apprezziati
Baron' insieme sonosi tacati.
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Orlandino — Capitolo 3 45
xxni
Vinti (44) franzesi e tanti altri spagnoK
Si vanno inconti'o con lor' aste al segno ;
Diece toscani e cinque romagnuoH.
Sfideno insieme quindeci del Regno (45) ;
Tutti ad un tempo questi armati stoli
Pongon e' colpi dov' è lor disegno :
Grand' è '1 polvino, il sono, il grido, il sti'epito
Del pazzo volgo, e de le trombe il crepito.
XXIV
Ar investii' de 1' aste ecco e' tronconi
Volan in cielo e molti son' in terra;
Alzan le piante in luogo de' pennoni,
E già si vien alla piacevol guerra;
Qui\d a le pugna giocasi e bastoni, I
E questo quello, e quello questo atterra:
Non hanno spade, brandi, mazze, o stocchi,
Qual dà col pugno e qual col deto (46) in gli occhi.
XXV
Mentre si lide accosto di qualchuno.
Trenta Lombardi, e trenta Maganzesi
CoiTcndo fan di polve V aere bi-uno.
Ma di Maganza vinti son distesi
E di quel scorno ride ciascaduno ;
Sol de' Lombardi cinque Novai-esi
Tre Bergamaschi, e da Cremona un paro
Non ebber al cascar alcun ripai-o (47).
XXVI
L'aperta sua vergona ebbe a dispetto
Ginamo di Magonza, e Bertolagi.
Mossero trenta conti e lì in cospetto
Di Carlo mano e tanti uomini saggi,
Contra Lombardi vanno, che 'n obbietto
Non han se non le pugna e bon coraggi
Spiacque Tatto villano al re Cartone,
Ed accennò Rampallo, e '1 forte Amone.
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46 Orlandino — Capitolo 3
xxvn
Rampollo abbassa un legno molto grosso,
E verso Bertolagi va rincliiiiso ;
In mezzo del la faccia V ha percosso,
E un tomo fagli far col capo in ginso.
Ruppesi d'una spalla il nervo e Tosso,
Pensate, s' el mastin restò confuso.
Similmente Amone senza scale
Smontar fece Ginamo suo rivale.
XXVUI
Ivvon, Bovo, Danese con Morando,
Spartiti l'un dalFalti-o, quasi fiacclii,
Enti'oron nella torma fulminando,
E fanno a questo a quello gli occhi macchi.
Chi \aiol di pugni, n' liave al suo comando ;
Se av^^en, che addosso V unghie Amon gli attacchi,
Già vinti n' ha mandato al sabbione,
Empiendo il capo lor di stordigone.
XXIX
Chiunque for di sella si ritrova
Mister gli fa eh' uscisca de la (48) sbarra,
Sei paladini già son alla prova,
E con le pugna fan pugna bizzari'a ;
Ma par che a lor adosso il mondo })iova.
Che Falsiron è quello che li abbaiTa,
Abban-ali mandando molti in frotta,
Poi eli' ebbe ognun di loro Tasta rotta.
XXX
Qua! li percuote adrieto e qual davante,
Chi nelle spalle, e eh' hi le gambe i piglia.
Al povero Morando in un istante
Del suo (^avallo tratta fu la briglia^
Ivvone fatto è, d'uomo d'anne, un fante,
E come in teiTa sia si meraviglia.
Danese n' ha cinquanta, che 1 ritiene,
In fin che diede in ten*a de le rene.
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Orlandino — Capitolo 3 47
XXXI
Giamai non fu veduto un tal combattere,
Per cui si slegua (49) il popolo di ridere :
Là vedi Bovo e piedi e mani sbattere,
Sol per puotersi dal rumor dividere :
Qua su e gii\ Rampallo tende a battere,
Ma la gran calca puotelo conquidere :
Bovo, eh' ognun il tocca, pista, e vapola
In ten-a ne le cinge (50) al fin s' incapola.
XXXII
Morando, il cui cavallo non ha freno,
Di trotto al suo dispetto con-e intomo :
Vole attrigarlo e or la man' al creno,
Or a r orecchia il prende, ma ritomo
Non fa la bestia, eh' ad un juioco seno
Al fin si resta, e del patron con scomo
Prese un boccon la rozza di quel strame,
E insieme mastigando fea letame,
xxxm
Così mangiando insieme e stercorando
Fa che la risa intrica le trombette :
Ei eh' è sfdiernito vennesi tm-bando,
E d' ucciderlo tosto si promette,
Pone la destra per cavar il brando,
Ma no '1 ritrova onde confuso stette.
Stringesi ne le spalle, e for di lizza
Escie pien di vergogna e più di stizza
XXXIV
Già sol de' Paladini Amon è in sella ;
Tirano li altri a drieto lor cavalli
Col capo chino e rossa la masselhi,
Gridando il volgo intorno dalli dalli.
Gode Maganza e il Spagnol saltella.
Ed anco improverando drieto valli.
Onde re Carlo n' ebbe gran dispetto.
E fu per porvi fin senza rispetto.
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48 Orlandino — Capitolo 3
XXXV
Convien eh' a molti ancora ciò dispiaccia
Vedendo tanti contrastar si pochi,
Amon soletto fassi dar la piaccia
E cangia in un momento cento lochi,
Spicca le piastre e sol con Y ungie sti-accia,
E fa col pugno i visi negri e fiochi,
E pm* fu gik per far de' piedi testa,
S' era la lanza di Rainer men presta.
XXXVI
Però che in quello corso che fa im cervo,
Quand' ha deposto de le corna il peso,
Vien ratto col suo fusto di bon nervo,
Ed un Piccai'do in terra ebbe disteso.
Poi segui '1 Namo eh' un Spagnol protervo
Spinse for di 1' arzone capo peso,
Ottone corre ugual a Salomone
Quel batte un Savoin, quest un Vascone.
XXXII
Cotesti quattro in un momento a piede
Posero quanti occorser' a cavallo.
Or spera Falsiron che sian eredi
Del premio i soi Spagnoli senza fallo ;
Io son in porto, disse, già mi cedi
Carlo r onore eh' ho ridotto il ballo
Al voto nostro in scherno de' fi-anceschi,
Ch' ognun di lor non sa ciò che si peschi.
xxxvin
Punge '1 destriero e dinccia Y asta al ciglio,
E contra a Salamone si disserra ^
Lo qual senz' ulla in mano die di piglio
A quatro spanne d' asta eh' era in terra.
Sta saldo a Falsirone ma '1 periglio
Del inegual contrasto giù Y atterra.
Con simile vantaggio Balugante,
Fece, eh' el ciel mostrò Rainer le piante.
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Orlandino — Capitolo 3 49
xxxrx
O belle prove, grida il Duca Namo, *
Che fare sanno '1 vantator Spagnoli ;
liiportarete il ^dttorioso ramo,
Mercè la frode e li tramati doli :
Risponde Falsirone : or presi al amo
Avemo pur di Marte li figliuoli :
Secondo il nome tuo fai, disse Ottone,
Poi ruppeli sul capo il suo bastone.
XL
Ma Balugante, e* ha lo fusto integro ;
Percotelo nel fianco, e 'n teiTa il getta ;
Molf era il falso Falsiron allegro,
E por di sella* Namo studia, e affretta.
Amon che per stracchezza omai vieii })egro
Ne avea cinquanta intorno a grande stretta.
Onde qui spiacque Y atto sì Aallano
A Parigini, e via pifi a Carlo mano.
XLI
Lo qual, volgendo V occhio alto e soperbo,
Chiede perchè non vi è Milon d'Angnmte.
Bovo eh' era vicino, disse : io serbo
In altro tempo (pieste ingiurie tante.
Senza rispetto per lo giusto verbo ;
C hanno confuso il gioco a te davante.
Or lodano pm- te, eh' al tuo comando
Non si ti'ovammo a lato mazza o brando.
XLH
Mentre Bovo e' Spagnoli ancider ^'^ole,
E Carlo provedervi si dispeme,
Rampallo già di Berta alle parole
Entrato era '1 palazzo di Milone.
Corre alla ciambra (51) come correr sole
L' amico a 1' altro, e grida, ah vii poltrone !
Che fai nel letto ; e mentre il sconcia e tira
Ode eh' acerbamente egli sospira.
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50 Orlandino — Capitolo 3
XLHI
Aimè ! che veggo ? e perchè lagni tu V
Non odi tu, Milone V per la fé,
Che da fanciulli sempre tra noi fu,
Chi ti move a dolerti ? dillo a me.
Ahi! quanto duro questo panni e più,
Che di prudenzia egual non hai, di te,
Pm- quel proverbio al saggio sol si tìi.
Tema di traboccar chiunque sta.
XLIV
Ben traboccato son, rispose quello,
Ne sollevarmi piti giamai vi spero.
Deh fato ingiusto e di pietà rubello ;
Che sì cangiato m' hk di bianco 'in nero.
Potea fortuna pifi crudel flagello
Di questo ritrovarmi, o cavaliero ?
Chi mi consiglia dunque ? e che varrannni
S' alcun contra '1 desio consigliaramnii :
XLV
Partiti dunque, che non è curabile
Lo mal che 'n le medolle i sento pungere,
Ogni altra peste creggio (52) esser sanaliile
A mille vie di cibo taglio e ungere ;
Amor sol' è quel tosco inevitabile
Cui morbo alcun egual non si può giiuioere
Né vi si trova al mondo un sol rimedio,
For che morir d' affanno e lungo tedio.
XLVI
Stette Rampallo in quel parlar si fisso
Che tutto il volto venne contrafatto ;
Tu m' hai, disse, fratello quasi ucciso,
E posto a tal che for di me son tratto.
Per qual sì altero e sì legiadro viso
Puote smarire un animo sì fatto.
Tu, che di saviezza non hai pare,
Ti lassi dunque in tanto error cascare ?
i
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GoQgiè.
Obl ANDINO — Capitolo 3 51
XLVn
E chi è costei ? saria forse Costanza,
O più- di Namo la figliuola bella ?
Ne creder voglio, che facci mancanza,
Di Carlo amando Berta la sorella.
Tant' alto chi ponesse sua speranza,
PoiTÌa sperar dal ciel ti-ar ogni stella.
Milon non puote continersi allora,
Ma senza pensar altro, saltò fora.
XLvm
Arcana cogit amor conjiteri,
Disse r Omero nostro mantoano.
E cosi allor Milone i suoi pensieri
Scoj^erse al fido sozio a man a mano.
Ma eh' era gli occhi d' ella tanto alteri.
Che porvi speme già cred' esser vano ;
E pur se non gli vien tal fiamma tolta.
Ornai dal coi*po V alma sua sia sciolta ;
XLIX
Ne che sa imaginare modo e via.
Onde speri sfocarsi il miser core.
Per lo non aver quel si desia,
E r inusato e inegual amore,
Lo tosco, lo velen di zolosia
Già 1 conduranno al simile furore,
Che tolse a Phili, Piramo, e Didone
La vita stessa, non che la ragione.
L'
Ranipallo cotal detto fiso ascolta
Ed ascoltando rupe un largo pianto.
Trarlo di quella mente iniqua e stolta
Con boni avisi, già non si dia vanto.
Non mai verragii tanta pena tolta,
Se non allontanandol da lei tanto.
Che non la veda ; e così a poco a poco
Spera ritrarlo dal maligno foco.
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52 Orlandino — Capitolo 3
LI
Dunque, comincia il saggio ad invitarlo,
Se gir' in Barbarla seco gì agrada.,..,
Ma non si tosto mosse ad confortarlo,
Ecco improviso al lungo di la strada
Cpnendo viene il nuntio di re Carlo,
E dice, che Milone senza bada
Si trovi annato in piazza con la lanza,
Per rifrancar V onor perso di Franza.
LH
Milon eh' ascolta V ambasciata, presto
Salta di letto, e chiede Y annatura.
Con lieta fronte copre il senso mesto,
E calca il petto la mordace cura.
Va, disse al nuntio, dilli, che mi vesto.
L'anni, quantunque manco di natura.
Perchè una lenta febre al mio dispetto
M' avea ridutto alquanto sopra il letto.
Lin
Mentile che '1 messagiero si diparte,
Rampallo toma al suo ragionamento :
Voi tu, disse, fratello, ruinarte ?
Voi tu si pazzo gir' al tomiamento ?
Sveglieti di tal furia, mentre 1' arte
D'amor ragion in te non anco ha spento.
Molti son' e' remedi al novo male.
Ma lo 'nvecchito (53) al tutto vien moi-fcxle.
LIV
Non ti scordar la fama tua, barone.
Non il sj^lendore, non quel savio petto.
Se tu non hai di te compassione.
Ben r arrai manco di 1' altrui diffetto.
Ritorna virilmente alla ragione,
Ne voler darti a femina soggetto.
Perchè tu perdi, seguitando amore,
Te stesso, Carlo, e l'acquistato onore.
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Orlandino — Capitolo S 53
LV
Tu reggeresti Y universo mondo ;
Ed una feminella ti governa?
In tuo servigio forte mi confondo
Vedendo quella gloria tua soperma
Vilmente sottoporsi a 'n capo biondo
D' una, non anco so, s' ella discerna
Il ner dal bianco, tenera fanciulla,
Tolta testé di fasce e de la culla.
LVI
Tu pur hai milli essempi avanti gli occhi,
Quanto mal vien dal sesso muliebre :
Nulla dimanco, in guisa de' ranocchi,
Siamo in tal lango sin alle palpebre,
Né conoscemo F arti, e li fenocchi
Ch' usano quelle in Y amorosa febre,
Fin che proviamo poi, che queste scroie
Bastanti sono d' arder mille troie.
Lvn
0 misero chi segue la lor traccia !
Ch' en se di ben non han, for che le forme,
Donde scolpita vien Y umana faccia,
Quantunque in luogo putrido e defomie.
O misero chi darsi si procaccia
In preda ad una belva e mostro enonne !
Cagione, da eh' è '1 mondo, d' ogni male,
Crudele, invidiosa, e bestiale.
Lvm
Mentre Rampallo tende a confortarlo.
Ecco su vien' un' altro ambasciatore.
NaiTa la doglia e ira de re Carlo,
Che '1 Spagnol esser debba \ancitore.
Milon, udendo ciò, per aiutarlo
E riportar col suo Y altrui splendore.
Non altro al cavalliero vi risponde,
Corre alla stalla, e tutto si confonde.
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54 Orlandino — Capitolo 3
LIX
Salta in arzone tosto, e l' asta piglia ;
Urta '1 corsier, galoppa, e non dimora.
Berta, eh' attende, fassi meraviglia
Ch' omai non vien ; perchè Y amante un' ora
Esser mill' anni gim-a, e assotiglia
L' ingegno sì, che tienesi talora
Veder quel che non vede, e poi se 1 vede,
Tant' è '1 piacer, che ciò veder non crede.
LX
Tessuto avea con la sua man arguta.
Una gierlanda d' araorissim' erba,
Qual' è r Ascentio, e incendiosa Ruta,
E la morte di Socrate sì acerba ;
Ma perchè al naso è grave la cicuta.
Con rose il mal odore disacerba.
Poi cautamente diedel a Rugiero,
Che ratto quella porti al cavaUero.
LXI
H qual anco non era in piazza giunto,
Quando Rugier, avendo V ale al piede,
Volando va, ne si dimora punto,
Infin che di luntano il sente e vede.
Chiamagli drieto, e poi che V ebbe aggiunto ;
Guardasi prima in cerco, e qui gli diede
Con umile saluto lì\ffirlanda.
Dicendo la persona cfte la manda.
Non avampò mai polverosi ratto.
Quando riceve la bombai-da il
Come subitamente il conte tratto^
Fu di sì acerba doglia in lieto j
Non più vole col ciel tregua ne
E sì d' ogn' altro ben gli cale poco,
Che sempre soffrirebbe starne privo,
Pm-chè sol Berta onori, e mqrto, e vivo.
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Orlandino — Capitolo 3 55
Lxin
Imponesi qiiel dono al bel cimerò,
Bascia '1 fanciullo, e segue la sua via.
Ben col destiìero va, ma col pensiero
Vola di questa in quella fantasia ;
Studia de F erbe intender il mistero,
Né mai si feima in una allegoria ;
E già qualche indovino aver delibra.
Che d' un secreto tal gli apra la fibra.
LXIV
Non tanta commentarla (54) sopra '1 Sesto,
Decreti, Decretali, e Pisanelle,
Di Galaplu'on la figlia, e tutto '1 resto
.^^^ificarunt fratres e sorelle.
Quanta facea Milone su quel testo
De le confuse erbette e rose belle ;
Ne mai vi ha fine, come fa '1 Scotista
Conti-a r utrum et probo del Tomista.
LXV
Finge chimere, sogni e fantasie.
Quali non pose mai Merlin Cocaio,
Lo qual di Cingar sotto le bugie,
Scrisse che più mai fece alcun notaio,
D' alcuni menchionazzi le pazzie,
(■he intendon rari, e io son il primaio
Che r ho provate, e forse ancora scritte
Fra genti negri, macilenti, afflitte.
LXVI
Ma pervenuto già dov' è '1 bagordo,
Voltosse a lui ciascuno a grand' onore.
Lo pazzo volgo, di veder ingordo.
Senza pensarvi su, vien a rumore ;
Alle cui voci e gridi fatt' è sordo.
Co' circostanti 1' alto imperatore.
Milon tocco '1 destrier, e quello in alto
Ben \ÌQti piedi spicca un doppio salto.
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56 Ohlandino — Capitolo 3
Lxvn
Percosse '1 ciel un sono via mischiato
Di varie voci, trombe, plausi, e comi,
Quand'egli fece il salto smisurato,
E reverentia ai biondi capei adorni
Delle dongelle, ove '1 suo dono grato
Esser stato mirando, e come adorni
Ben r elmo del suo dolce amor Milono,
Bei-ta sola si trasse ad im balcone.
Lxvin
Chiamasi accanto la sua camerera,
La quale de le donne contra Fuso,
C hanno la lingua in dir vie pifi leggiera
Del deto a Y ago, alla conocchia, al fuso,
De' suo secreti consapevol era,
Tenendo un buco aperto V altro chiuso.
Dimme, Frosina mia, che parti d' elio ?
Fu mai ne '1 più gagliardo, ne '1 più bello ?
LXIX
A le sue forze, a la sua pulcritudine
Ben mostra nato sia d' un Marte, e Venere.
O s' egli seglie ben 1' amaritudine
De r erbe e fior, e' ha in capo acerbe e tenere .
Verd' è V amor, ma se vicissitudine
Non ha, qual è dolor che più s' ingenere
Acerbo e più mortai in ciascun' anima ?
Qual fier destino più 'n bel volto exanima?
LXX
Così mentr' ella si rallegra e duole
E mescie il dolce insieme con 1' amaro,
Vien detto al gran Milone, che la prole
Spagnàrda, e Maganzesca scavalcaro
D' accordo e' più gagliardi, perchè vole
Ginamo tributando col denaro
E quest' e quello capitan spagnolo
Restar in lizza vincitore solo.
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Orlandino — Capitolo 3 57
LXXI
Milon prudente al volgo non risponde,
Ma volto il freno ad un vecchio palacelo,
Enti-avi dentro e for di certe fronde,
Tras' un lungo truncone eh' al suo braccio
Grosso, verde, nodoso corisponde,
Per mostrar che 1 diamante come un giaccio
Potrebesi spezzare con quel stecco
Contra 1 senso di Plinio senza '1 becco.
Lxxn
Gitta la lanza, e con un sti^an saluto
Voi salutarne mille, non che un matto.
Quando la turba lunge ebbe '1 veduto
Col codicil senza notar contratto,
Ridea, dicendo, quest' è ben douto
Che 'n miglior forma il scritto sia ritratto.
Or Balugante lascia star Amone,
Veduto eh' ebbe in lizza entrar Milone.
Lxxm
L' asta eh' accortamente avea sei-vata
In più oportuno tempo sin allora.
Tosto ripiglia, e in Milon dricciata.
Spera il menchion di sella trarlo fora.
Milon che '1 vede, leva il cigUo e guata
Piima colei, che tanto l' innamora,
Poi contra Y arrogantia che gli viene.
Abbassa il legno con sue forze piene.
LXXIV
Tacque ciascuno, e tien la bocca aperta
xVl smisurato incontro de' duo tori.
Di Balugante fu la botta incerta,
Perchè la lanza affise troppo fori.
Ma ben Milone, che si tien all' erta
Per bel principio de i presenti onori,
DiedeU un urto tale col stangone.
Che mezzo il sotterò nel sabione.
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usFatf^
58 Orlandino — Capitolo 3
LXXV
Poi quella turba de li congiurati
Rompe col tronco in resta, e li disj>erde.
In quattro colpi trenta scavalcati,
L' on sopra 1' altro andar distesi al verde,
L' altii confusamente rammeschiati,
Chi r elmo, eh' il braccial, chi '1 lasta perde,
Come sol far il can mastino eh' apre
Un qualche storno di barbute capre.
LXXVI
Gìk più di cento surgono di sabbia,
E for di lizza sbalorditi vannosi.
Quivi si prova del baston la rabbia,
E molti r ossa racconciare fainiosi.
Corrono in rota, come gatti in gabbia,
Quelli spagnoli, e al scampare dannosi,
Perchè non hanno tergo molto agevole,
Cui si confaccia unguento sì spiacevole.
Lxxvn
Bernardo di Maganza e Falsirone
C han steso Namo con lanzate a terra,
Per conti-aporsi al crudo perticone
Ch' e' congiurati dona, e tutti ateiTìi,
Gli vanno adosso insieme per gallone (55),
Mentr' egli incauto alti-ove piglia gueri-a ;
Dannogli con due lanze un colpo duro.
Ma puotono inclinar più tosto un muro.
Lxxvm
Non creder che Milone si contamine
Del colpo di gran forza e poca glori n ;
Volgesi a loro, e quel suo medicamine
Di Falsirone impose alla memoria :
Stendesi al piano ; ma sotto velamine
Di acquistare contro Amon vittoria,
Bernardo torna a lui con V asta al cubito,
Ma di Cariddi in Siila cadde subito»
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Orlandino. — Capitolo 3 59
LXXIX
L' astuto Amoii sì seppelo scansai-e
Che, mentre il colpo di Bernardo scon*e,
Con tanta furia un pugno gli ebbe a dare,
Ch' un monte rotto a\TÌa, non eh' una torre,
Ma Satanaso volsel aiutare,
Ch' Amon puote del colpo mal disporre ;
Coglie il cavallo, e sfiaccagli la testa.
Ed egli nel vibrar, spallato resta.
LXXX
Spiacque tal caso a Carlo, spiacque al popolo,
Ch' Amon si mostra esser d' un braccio inutile.
Quel pugno avria spezzato un sasso, un scopolo.
Ma verso un traditor fii vano e lutile.
Or sopra ciò non pifi rime v' accopolo ;
Amon è in terra di giostrar poco utile,
Fuwi raccolto, e chiamasi eh' il medica.
Concialo il mastro, ed a le piume il dedica.
LXXXI
Milon già più non fa di 1' olmo lanza.
Ma ben da un capo il piglia con due mani :
Or qui comincia la piti bella danza
Che mai si vede ai fen-aresi piani,
Quando la biscia entrata nella stanza
Di mille millia rane in que' pantani.
Chi sii, chi giù, chi al lungo, chi al traverso,
Fugge scampando con dirotto verso.
Lxxxn
Non fu giammai bastone agevol tanto
In cacciar cani di cocina fora,
O castigar un' ostinato, quanto
Era quei di Milon, eh' in men d' un ora
Sgombrò tutto '1 steccato d' ogni canto.
Non vi restando un sol soletto allora.
Pensate, se Carlone e Bei-ta gode,
E s^ Givamo e Falsiron si rode,
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60 Orlandino — Capitolo 3
Lxxxm
Amor e forza il tenne in sella fermo,
Qua! scoglio in mar da Y onde combattuto ;
Or per dar fine al mio gi-idai* infermo,
Allenta, o Musa, il canto del laguto.
Che da Grisoni non facendo schermo,
Qui sonar d' arpa voglio in nostro aiuto,
E sol raggio del sol non m' è nibello.
Spero di loro fame un gran macello.
FINISCE
IL TERZO CAPITOLO
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Orlandino
i-
71
COMINCIA
IL Ql AUTO CAPITOLO
\JvEh stridulo cantar eh' una cicada
Muove, quando su '1 palo il cui dimena,
Fa Y arpa mia, eli' assai poco m' aggrada,
Mentre m' aggraffio '1 sangue d'ogni vena (56),
E pur con\den tornaraii su la strada,
E farvi udir un' altra mia sirena ;
Ch' un carro sona, il qual mal onto e tardo
Si duole, che '1 patron gli mangia il lardo.
n
Ma se talor cantando ella scapuzza,
Candido mio lettor, qual tu ti sei,
Perchè dolerti ? anch a signori muzza
Qualche eoiTcggia in mezzo a quattro o sei.
S' io mangio male, il fiato poi mi puzza,
Mjmgiate qziae apponuntur fratres mei^
Chiama 1 vangelo ; benché tal precetto
Servato vien da molti al suo dispetto.
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62
Orlandino — Capitolo 4
m
Stette Milone solo nel stecato
Come tal volta sol far il leone,
Che fra lo stolo d' altre bestie entrato,
O fa, o finge far del compagnone ;
Ma quelle in fuga volte gli dan lato,
Di qua di là cercando alcun macchione ;
Ed egli solo resta in un istante,
Quelle mirando a se scampar davante.
IV
Ne piffaro, ne tromba, ne cornetto,
Tacquer alla vittoria del barone.
Grida ciascuno e grande e pargoletto
Intorno a lui, Milon^ viva Milone.
Ed ecco di lontan con molto affetto
Contro gli vien V imperator Carlone,
Lo quale col gran stolo contra valli,
E l'acquistato dono e premio dalli.
Balzato era di sella il cavaliero
Vista la nobil schiera, eh' a lui vene,
Sciolvesi r elmo, e gittalo al sentiero,
E prono in terra V alta gloria ottiene.
Così la santa umilità di Piero
Merto '1 papato dopo le catene,
E '1 ciel dopo la croce ; onde mi vanto
Cli' io lo chiamo, in veritade. Padre santo.
VI
Passato avea già Febo T orizonte.
Portandone da T altra parte il gionio,
Lo Siniscalco enti-ato era nel onte
E fumide coquine, ove d' intorno
Sguateri, cuoghi, e fominelle pronte
Iranno de vari cibi il luogo adorno.
Ed ove cani, gatte, crudo e cotto
Sonano un campo d' arme quand' è sotto.
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i
Orlandino — Capitolo 4 63 '^
I
VJI
Chi cuoce latesini, e chi figati,
Chi volge in speto quaghe, oche, fasani ;
Qui son caponi a hirdo impergotati (57),
Qui taglian polpe e dan V osse alli cani ;
Qual macina sapori delicati,
Qua! fa pastelli ed altri cibi strani ;
Ch' il foco iimanti, e chi dietro lo tira ;
L' odor del fumo fin al ciel s' aggira.
vni
Fra questo tanto cento paggi belli,
De' quali è eajìo il provido Rugiero,
Ornati di costumi pronti e snelli,
Scorren di qua di Ik col pie leggero.
Portando banche, scanni, urne, e vaselli,
Razzi, tapeti, e ciò che fa mistero,
Taccio r argens e d' oro la credenza,
E ciò oh' ogni alto Roy (58) non può star senza.
IX
Berta eh' el grande onor e pompa vide
Fatta per Carlo al suo diletto amante,
Piena d' amar dolcezza e piange e ride.
Or lieta, or triste, or molle, or d' adamante.
Ragion piCi nulla può, eh' amor s' asside
Vittorioso in lei saldo e costante.
Però delibra, vuole, e ferma il chiodo
Pai'lare con Milon ad ogni modo.
X
De' tutti gli animali non è '1 più
Impaziente d' una amante dorma ;
Ch' ogni rispetto lascia e manda giù
Di Lete al fiume, ove dentro 1' assonna.
Poscia 1 desìo le sale tanto in su,
Ch' in capo non si vede aver la gonna ;
E tanto il folle suo pensier la punge,
Ch' al fin si trova da se stessa lunge.
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B4
Orlandino — Capitolo 4
XI
Chiama Frosina, e tosto le comanda
Ch' a se faccia venir il bel Rugiero :
Frosina Y ubedisce, e d' ogni banda
Cerca e ricerca il nobile scudiero ;
Ma nulla fa che 1 Siniscalco il manda
Co li altri paggi, e ognun ha '1 suo doppiero,
Di ciambra in ciambra, e dan Y acque a le mani
A re, duchi, marchesi, e castellani.
xn
Berta che rotto vede '1 suo disegno,
La cosa in altro tempo differisce,
Si crucia fra se stessa e n ha gran sdegno ;
Ch' arnor pifi che mai caldo Y assalisce ;
Onde fatta per lui pronta d' ingegno.
Trenta belle dongielle a lei s' unisce,
Ch' entrar delibra in sala con tal pompa,
Che se Milon ha cuor di pietra, il rompa.
xin
Gik mille torze da gli aurati travi
Pendoli accesi, e fan di notte giorno.
Carlo fra cento capi onesti e gravi
Entra nel apparato tanto adorno.
Quivi usurari, preti, frati, o schiavi
Non ponilo far un minimo soggiorno.
Tutti scacciati sono alla malora,
Ch' en tal luoglii non deniio far dimora.
XIV
Ma Febo, e Cintia, e tutte Y altre stelle
Ecco da lunge, in Y ampia sala entraro :
Berta e Beatrice son delle più belle,
Ch' el fiato a milli amanti allor cavaro.
Carlo venendo incontro, accetta quelle.
Al cui comando tutte s' assentaro.
Ed esso in cima del convito sede.
Ove li discobendi al lungo vede.
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Orlandino — Capitolo 4 65
XV
Stanno le donne a petto de' baroni,
E sonan gli organetti co' pedali (59).
Cinto s' avea Cupido a li galoni
Duo gran turcassi colmi di più strali.
Volan e' paggi, e cento bandigioni
De cervi, lepri, vituli, cingiali
Portan di su di giù per lunghe scale,
Come convien d' un rege al carnevale.
XVI
Stava Milon rimpetto alla sua Bei-ta,
Pensa qual fogo tra quegli occhi nacque
Egli di lei, ed ella di lui più certa
Si fa, quanf in amarsi ad ambi piacque ;
Quivi con cenni occulti fann' offei-ta
De' cuori loro, e questo a quel compiacque ;
Rampollo se n' avede, e più Frosina,
Rampollo .a lui, Frosina a lei vicina.
xvn
Così r uno per Y altro si distrugge
Nei cauti 8guai:di e 'n quel sembiante opposto.
Spugna di sangue, che lor vene sugge,
Son gli occhi loro, il cui lume discosto
Giammai non va dal suo voler, ne fugge,
Ma più sempre al desio si fa disposto.
E tanto lor instiga ed urta amore,
Ch' ivi non s' ama, anzi pur s' arde e more.
xvin
0 insidioso aspetto muliebre,
Quando che piaccia a gì' occhi di che '1 mira.
Ma quanto più bel parti in le tenebre,
Ove '1 splendor de li doppier Y aspira
Vedi le labbra, il collo, le palpebre
D' Elena, di Faustina, o Deianira,
^ E chi contempla quelle, già non crede
Puoter de tal beltade farsi erede.
»^' iiéì -'■'TifniÉiiih^
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66 Orlandino — Capitolo 4
XIX
E se risponde mai cotal bellezza
Ch' un core Y altro aggi*ada, e gli occhi, gli occhi,
O pensier dolce più della dolcezza,
Qual femio stato eh' ivi non trabocchi ?
Non è sì grata e sì soav^e frezza,
Che dolcemente in loro amor non scocchi ;
Ma non si partan già questo da quello,
Che non fu mai del suo magior flagello.
XX
Era la fame gik smarita e persa,
Le mense e le vivande son rimosse.
Una sonora musica e diversa
Di tre laugutti (60), e due viole gi-osse ?
Trasse al concento ogni anima dispersa, j
Ch' ognun si sente liquefarsi V osse. |
Qui voci umane giunte a quelle corde
Mostrar, che '1 ciel di lor men' è concorde.
XXI
E pur ti'ovo eh' alcuni vecchi padri
Biasmar di concordanze cotal pratica;
Non so, lettor se chiaramente squadri,
Esser stata la mente sua lunatica.
Ver' è eh' e' gargionetti esser legiadri
Fur grati più ne la scola socratica
Di tante note, che appellaro buse.
Quasi sei buco a loro non s' incuse.
XXII
Dicean, che molle, vago, effeminato,
L' animo rende questa melodia ;
Come se '1 pescar fezza, in bucco lato (61)
Non via più molle, effeminato sia.
Vedi tu quel ipocrita velato
Di santimonia, come va per via?
Non f accostar, figliuolo, perchè porta
Nel corno il feno, ed ha sotto la storta. (62)
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ORLANDINO — Capitolo 4 67
xxm
Clii danna il canto, voi che chiaro il dica,
Qualunque biasma il canto ha del coione.
Se grata e gruve ed utile fatica
Fu quella di Virgilio e Cicerone,
Già non fia manco, mentre s' affatica
Per noi losquin comporre, e Gian Motone (G3) ;
Itene dunque, sporchi, al vostro ufficio,
Ch' è di sterco purgar Y altrui ospicio.
XXIV
Poscia eia' ebber sonato la stanghetta-.
La mora, il fons biens del tempo vecchio (63),
Carlo depose la regal bachetta.
Acciò eh' ha rispettosi fusse specchio :
In bel giuppone cavasi con fretta.
Dicendo : orsi\ signori, i' ni' apparecchio
Voler danzar ; così mi segua ognuno.
Poi voglio, eh' el suo ballo aggia ciascuno.
XXV
E ciò parlando, viene alla regina,
Che gi-avemente alzò prima le ciglia ;
Poi si rileva, ed umile s' inchina
Al alto imperator, eh' a man la piglia
Li altri, che stan' intenti alla rapina.
Seguendo lui, ciascuno s' assotiglia
Prender il meglio, ó quel che meglio pare,
E così allor cominciasi a danzare.
XXVI
Cominciaci a danzare a son de' piferi .
Con un cornetto fra lor aggi'adevole.
Al cui sono que' volti, anzi luciferi.
Quel cospetto di donne losinghevole,
Que' drappi d' or larghi ed odoriferi,
Que' passi, qnell' incesso convenevole.
Gli occhi de' spettatori sì teneano
Ch' innanimatc statue vi pareano.
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68 Orlandino — Capitolo 4
XXVII
Quivi ben conveniva quel si nomato
Cornetto padoano, Zan Maria (64) :
Non fu, non è, non mai sarà lodato
Meglior di lui, anzi eh' egual gli sia ;
Lo qual, come si dico, si ha mangiato
La lingue d' ogni augello, e 1' armonia.
Silvestro vagli a^^presso e 'n suo gemiano
E quel Trombon vomito di Bassano (65).
XXVIII
Ma per sonar gagliarde^ e lodesane^
Piferi mantovani aggian il vanto.
Tu senti quelle lingue ])iù che umane
In mile millia rimandar un canto :
Tu vedi poscia for di quelle tane
Su '1 Po saltar villane d' ogni canto ;
Che per balzar in alto, e rotolarsi,
Ogni altra stirpe a lor non può guagliarsi.
XXIX
Mentre qui dunque suonano a misura,
Rampollo invita Berta, e dalle mano.
Pai*ve a Milone strana cosa e dura,
E chiamalo fra se crudo inumano ;
Ma Venere per lui eh' anco procura,
Gli pose in cuor un atto assai soprano,
Di Berta prese a man la camarera.
Dico Frosina, e va co li altri in schiera.
XXX
Or nel serrar de mani si coni ))r onde,
Danzando, s' in amor sperar si dove.
Qui de la donna il cuore V uomo intende,
La qual è di natura dolco e love.
Se stretta stringer debbia, dubbia pende,
Al fin lunga repulsa se par gravo,
Temendo che Y amante non si sdegni,
E più non segua gli amorosi segni.
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Orlandino — Capitolo 4 69
XXXI
Qui gli occhi ambasciatori al tener cuore.
Dichiarano lor grazie e lor bellezze.
Qui cresce piti Y audacia e più 1' ardore,
Quanto più niancan V ire e le dui-ezze.
Amor insegna qui di qual valore,
Di qual effetto sono le sue frezze,
Pel cui vigore ogni Cimon Galese (66)
Di rustico divien, dolce e cortese.
xxxn
Speranza è la nutrice de* pensieri,
Tanto eh' i guardi e deti gara fanno.
Sotto '1 fallace lume de' doppieri.
Doppie bellezze in viso le donne hanno.
Però più tira amor di cento arcien ;
Qual empie d' allegrezza e qual d' affanno,
E molte un cotal foco hann' alla coda.
Che 'l fiato V escie for, non che la broda.
xxxm
0 misere donzelle, o stolte madri,
Ch' avete sì le danze a gran diletto,
S' amor d' onor è in voi, questi leggiadri
Giochi di cortigian siavi a dispetto.
Un bel rubar ci fa sovente ladri,
Ch' ove è la causa, seguevi V effetto ;
E questo in ballo awien, che rufSana
Si fa la madre, o la figlia putana,
xxxiv
Frosina avea pietà di sua madonna ;
Or esser tempo d' aiutai'la vede ;
Tira Milone a dietro una colonna,
Mentre che '1 gioco libero procede :
Venite mecum^ disse, e non v' assonna
Viltà di cuor, che voglio fan^i erede
Del più ricco tesoro eh' aggia '1 mondo,
Che r occhio di fortuna vi è secondo.
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70 Orlandino — Capitolo 4
XXXV
Egli non sa, ma ben fa congettura
Sopra r amor di Berta, onde la segue.
Un trepidante afltetto, una sciagura
Lo batte sì, eh' ei pare si dilegue.
Volgesi dietro spesso, ed ha paura,
Ch' alcun osservatore no '1 persegua (67).
Al fin giunti alla camera di Berta,
Frosina dentro il caccia, pronta, esperta.
XXXVI
Benché a Milone un' atto temei'ario
Gli paia star di Berta, nel cubicolo,
Nulla di meno vede necessario
Esser a chi ama, sponersi a pericolo.
Frosina innante il fa suo secretario,
E senza troppo lungo diverócolo
Gli aperse lai'gamente il grande ardore
Di sua madonna, e come per lui more.
XXXVII
E che continuanjente s' auge e lania
Per lo crudel arciero che la stimula ;
E eh' ale volte vienle tal insania,
Che a gran fatica in volto la dissimula:
Insognasi di notte, langue e smania,
Chiamando lui signor e dolce animula ;
Onde» per rimoverle un tanto assedio,
Convien che d' esso lui venga '1 rimedio.
xxxvni
Qai ciò eh' ebbe Milone a lei rispondere.
Lasciamolo star, eh' ognun il può comprendere,
Non molto fiato fa mestier effondere
A chi col solfo 1' esca voi incendere.
Torno a Rampallo, che non punte ascondere
A Bei-ta il tutto, anzi le fece intendere,
Cosi danzando e ragionando insieme.
Le fiamme di Milon per lei sì estreme.
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Orlandino — CAPiTOf.o 4 71
XXXIX
Berta eh' a V esca prende foco e vento,
Quivi a Rampallo gih non voi celarlo :
Narragli accoiiamente il suo tonnento,
E che per prova mai non può scacciarlo.
Ma non finitte il loro parlamento,
Che la sua danza tennina re Carlo,
E voi che la seguente abbia Milone,
E poi di grado in grado ogni barone.
XL
Milon ? ov' è Milon ? ciascun dimanda ;
Ma nulla fan, eh' altrove sta rinchiuso.
Cli* egli si trovi, Carlo allor comanda,
Al cui precetto van chi su, chi giuso.
Bampallo astutto, e sospettoso manda
Poi eh' ebbe posto giù, siccome è 1' uso.
Berta, Rugier il figlio a ritrovarlo,
E dirli, che con fretta il chiama Carlo.
XLI
Lo accortignolo e pratico dongiello
Danzar lo vide dinanzi con Frosina:
Ratto fece un pensier il giottarello.
Che gito fusse a goder la rapina ;
Onde correndo va dritto a penello
Dov' erano alla ciambra, e qui s' inchina
Per ascoltar al uscio, ma non ode
Del basso lor parlar, se non le code.
XLH
Urta la porta ben due fiate o tré,
Ode Frosina, e pallida si sta:
Torna Rugiero, e scotela col pè :
Milon temendo sotto il letto va.
Bussa il fanciullo, e chiamavi, chi è ?
Frosina disse allor, chi batte Ik?
Io son Rugiero ; è qui signor Milone ?
Ditegli che lo chiama il re Carlone.
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72 Orlandiko — Capitolo 4
XUII
Di su, di giù lo cerco in ogni loco,
Né in ciel, ne in ten-a possio ritrovarlo :
A la regal famiglia sin al cuoco
Imposto fu, che debbian dimandarlo.
Di che se indizio n' hai, dimmel un poco,
Ch' instantemente chiedelo re Carlo.
Io che danzar con teco in sala il vidi,
Mi penso, te saper ove '1 s' annidi.
LXIV
Non men Frosina pronta che J^agac^,
Bisponde : va donzello, e dilli presto.
Come Milone nel suo letto- giace.
Che per la giostra d' oggi è franto e pesto.
Allor Rugier non fé del contumace,
Ritorna in sala e con volpino gesto
Parla ch* ognun intende, aver trovato
Milon stracco nel letto suo corcato.
XLV
Tal scusa accetta Carlo e chi, chi sordo
Non è a saper '1 martial costume.
Perchè le bastonate del bagordo
( accian sovente a V ozioóe piume.
Dunque la festa seguesi id' accordo,
Là qua! non finirà che U bianco lume
Del gionio ti-overalli anco a saltare,
Come ben spesso in corte suolsi fare.
XLVI
Frosina timidetta, che non sa ve,
Come la sorte di Milon succede,
Chiudelo in ciambra, e seco tien la chiave.
Poi su la danza occultamente riede:
Bei-ta che quinci spera, e quindi pavc,
Quando tornar a se Frosina vede,
Fatta zelosa, disse in voce piana,
C hai, fatto con Milou brutta puttana ?
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Orlandino — Capitolo 4 73
XLVn
Risponde a lei Frosina sorridendo:
So ben, che zelosia vi fa ciò dire.
Non, come imaginate, condescendo
Sì largamente al dolce proferire.
Mai non provai, ma ben provar intendo,
Farsi del nostro medico guarire ;
Però se star con lui mi cale e giova,
A che portarne invidia di tal prova?
XLVm
Non dubitate, o credula padrona.
Del vostro mal non è lunge '1 rimedio.
Pur tutto questo eh' ora si ragiona,
Potria col tempo fai-vi qualche tedio ;
Che forse alcuna incognita persona
Ci tenderia nel ascoltar assedio.
Meglio sarà eh' andiamo a riposare,
Che r alba già comincia a roscigiare.
XLIX
Ove parli eh' andiamo ? disse Berta :
Quella rispose : a letto, che '1 n' è 1' ora ;
Mi fa mistier il vostro ben avverta.
Che '1 vegliar troppo, il viso vi scolora :
Disse la dama : questa è cosa certa ;
Vengon le torce, e quindi senza mora
Facendo al re Carlone, e agli altri inchino.
Verso la stanza prendon lor camino.
Rampallo già non potè più indugiare.
Si mise ragionando acompagnarla.
Fu sempre in Francia Y uso di parlare
Ciascun con qualche dames^ e basciarla:
Né qui malizia, né sospetto appare.
Pur che non voglia ad altro provocarla j
Onde tal atto molto par distrano
In queste nostre parti al taliano,
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74 ORLANDINO — Capitolo 4
LI
Lo qual vedendo, in casa sua volere
Basciar alcun francese la sua moglie,
Che fai, tosto gli parla, o bel missere?
Perchè farti signor dell' altnii spoglie ?
Così dicendo, col pugnai il fere.
Togliendogli non pur V accese voglie,
Anzi la vita istessa ; perchè mecco (69)
L'italian voi esser, e non becco.
LH
Or dunque vedi, se di Cipria (70) il figlio
Conduce ben la trama e non s' intoppa :
Quantunque porti un drappo avolto al ciglio,
Pur r arte, e la malizia non gli è stoppa,
L' arte eh' in navigar ogni periglio
Sprezza de l'onde, quando amor è in poppa.
Milon, Rampallo, e Berta nulla sanno.
Ed ecco insieme al fin si troveranno.
Lin
Non ^ perchè fusse in lor patto verano,
Cupido sol^è il mastro, sol il guida (71),
Frosina tiensi certa, ch'in ninno
Tal secrettezza, for eh' in lei s' annida.
Credesi anco Rampallo esser quell' uno,
In cui sol Berta, e sol Milon si fida.
Vorria Frosina che Rampallo andasse,
Egli, che Berta lei licenziasse.
LIV
Or giimti a 1' uscio per entrarvi drento.
Apre Fròsina,.j.onde tremò Milone : .
Berta diede congedo a più di cento.
Fra paggi, fra donzelle, fra matrone.
Ma per sfogar in parte il suo tormento,
Guida con seco in camera il barone.
Frosina chiude 1' uscio, e quivi Berta
Fra r uno e 1' altra sede a lingua aperta.
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Orlandino — Capitolo 3 76
I
[
I
I
LV
A lingua apei-ta e faccia vereconda,
Un petto di sospiri e pianti sciolse.
Rampai stupisce, eh' ella non s' asconda,
Perchè Frosina in terzo luogo volse,
Milon ascolta il tutto sotto sponda,
E sue dolci parole ben i-accolse.
Or qui Frosina, ed or Rampallo pai*la,
Cercando con speranza consolarla.
LVI
Milon comprende Y amistà sì rara
Del suo Rampallo, e V animo di Berta,
La qual dicea, eh' avrebbe morte amara.
Se non le fia concesso far offerta.
Dovendo maritarsi, di sua cara
Virginitade a quello che la mei-ta ;
Pv se colui che già V ha tolto il cuore,
Anco non tolga il resto, il frutto, e '1 fiore.
LVII
Ne al sono di tal voce, ne a Y invito
Di tal dolcezza puote star Milone,
Che ratto di là sotto, bello, ardito
Non apparisse in un d' oro giuppone.
Eccomi disse : allora scolorito
Stette Rampallo in gran confusione.
Berta sol fece un gi-ido, e poi si tenne.
Compreso in pai-te il bene che a lei venne.
Lvin
O sola, Milon disse, o sola quella,
C hai posto il freno a un cuore sì superbo.
Così volse, non so che buona stella,
Ch' essendo al sesso vosti'o iniquo acerbo,
E d' una mente a me stesso rubella,
Or sol per uno vigor mi disacerbo,
E tanto in me la tua sembianza valse,
Ch' in ghiaccio m' arse il core, e in foco m' alse.
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76 Orlandino — Capitolo 4
UX
Poscia a Rampallo volto ed a Frosìna,
Mille grazie lor rende, e poi li abbraccia:
Berta, che a morte quasi s' avvicina,
Mira lui fisso, e par che si disfaccia
Qual cera al foco, e qual al sole brina:
Non puote star, ma sparse ambe le braccia,
Perchè in amor non cape alcun rispetto,
Cinsegli '1 collo, e strinsesil al petto.
LX
Or mai, disse, ben mio dispona il cielo
Di me, come gli giova, e la fortuna:
Sue stelle, influssi, punti, caldo, e gelo
Non temo più, quando questa sol una
Grazia eh' or tengo in Y amoroso velo.
Non mai tolta mi sia, perchè ninna
Altra non voglio eccetto che vederti.
Ed a mia vita e morte sempre averti.
XLI
Perchè già non potrebbe più addolcìrme
La morte in altro tempo, che s' io moro
In queste voglie mie stabil e firme,
Morir per te, mio spirto, mio tesoro.
Qual' esca dolce può meglio nudrirme
Di questo pianto, e sì grato martoro ?
Io mi consumo, e ciò mi piace e giova.
Purché '1 mio ben da me non si rinnova.
LXII
Itene prochi (72) ornai, mi sete a noia.
Destina il ciel eh' io sia d' un tanto eroo. .
Tal nasca d' ambi noi, eh' unqua non moia
Sua faina da Y Occaso al sen Eoo.
Tal fia quel figlio, qual mantenne Troia
Mentre che visse, o qual vinse Acheloo
Nasca di noi tal Cesare, tal Marte,
Che de' suoi fatti s' empiano le carte.
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Orlandino — Capitolo 4 tt
Lxm
Milon ai dolci accenti per rispondere
De la sua diva già movea la bocca,
Quando alla porta venne a lor confondere
Non so qual voce, e chi repente chiocca.
Milon temendo tornasi nascondere ;
Rampallo, che lo vede in fida rocca.
Apre la porta, ed è clii 1 chiama presto,
Che a sorte gli toccava il ballo sesto.
LXIV
Partesi dunque tosto il cavaliero
Per non fallir di Carlo al ordinanza.
Frosina vagli dianzi, e col doppiero
La semplicetta, fin' ove si danza,
Accompagnollo insieme col scudero.
Eampallo se ne ride, che 'n la stanza
Di Bei-ta era Milon restato solo ;
Pensate se star puote il rosignolo !
LXV
Or ivi dimque amor in un steccato
Ha ricondotto quelli gladiatori ;
Ma innanzi eh' al duello insanguinato
Si vegna da quei duo feroci tori.
Assai vi fu che dii*e ; al fin cascato
L' un sopra V altro, ivi convien che mori ;
E quelle botte fur di tal possanza,
Che Berta ne portò piena la panza.
LXVI
O ciel benigno, assai qui ti conviene
Esser gagliardo in ifabbricar Orlando,
Il qual non sol si cria de' lombi e rene,
Ma r alto genitore voi, che quando
Scorre '1 vivace sangue da le vene,
Forma nel vaso matrical pigliando,
Ogni tua stella di benigna tempre
S' inchini A lui, oh' in gloria duri «énipre,
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78 Orlandino — Capitolo 4
Lxvn
Forza, bontà, prudenzìa, e cortesia,
Scendano in lui su da Y eteme idee.
Che discacciando Y orco, e arte ria,
De strige (73) e fate, e innumere medee,
Formino il corpo, ed aprino la via
Ove queir alma in mezzo alle tre dee
Infonda, per ristor di tutto T mondo.
Alto intelletto, e immaginar profondo.
Lxvm
Santificato dunque, e non fatato
Fu Orlando ne le viscere materne,
Ch' esser non puote da ferro impiegato (74),
Come ordinor' in lui le menti eterne
Quantunque i' poscia dal celeste fato
Fatato nominarlo, che Y inferne
Fate non Y affator, che d' affatare
Forza non han, ma sol di affaturare.
LXIX
Tu mi dirai, lettor, eh' io son lombarbo,
E piti sboccata) assai d' un bergamasco ;
Grosso nel proferir, nel scriver tardo.
Però dal tosco facilmente i' casco.
Io ti rispondo, che se Y antiguardo,
E retroguardo mio, che è '1 sacco e fiasco,
Non fiisse la fortezza di Durazzo,
Forse sarei Petrarca, e Gian Boccazzo.
LXX
Io qui non cerco fama, e men la fame ;
Quella mi fugge, e questa mi vìen dietro.
Anzi m' entra nel ventre, e fa letame
Dm'O così, eh' io canto un strano metro ;
E se mai vien, che presto alcun mi chiame.
Quando quel sasso for del buco i' spetro,
Mi levo amaramente con la coda
Smaltita in quatti'o giorni ferma e soda.
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Orlandino — Capitolo 4 79
LXXI
Non cerco fama nò, ch'io n'ho pur troppo,
E tal mi crede questo, eh' io son quello.
Guardatevi dal sguerzo, gobbo, e zoppo.
Signori miei, che V è di Dio rubello.
Benché '1 zoppo non corre, va galoppo.
In fin ch'intenda il nome mio novello,
Ben maladico lui, che se '1 mi scopre,
Da voi, signori mei, non mi ricopre.
Lxxn
E se pur noto fia, perchè scontento
Viver mi deggia, causa non ritrovo ;
Anzi di superstizia il guarnimento
Ho riprovato, e tuttavia riprovo.
E chi mi addimandasse, s'io mi pento
Cangiar il basto vecchio per il novo,
Io ratto gli rispondo, domine ita^
Mi doglio esser mai stato a cotal vita.
Lxxin
La causa dir non voglio, anzi m' incresce .
Che tutti omai slam figli di putana ;
E benché mi vien detto, che, qual pesce.
Io son for d' acqua, e talpa for di tana,
Questo parlar non oggidì riesce,
Ma meglio assai, qtcod scriptuìn est de rana^
La qual viver non sa for del pantano,
Come senza robar n' anche '1 villano.
FINISCE
IL QUARTO CAPITOLO
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IOrlandino
COMINCIA
IL QUINTO CAPITOLO
0
DONNA mia, e' hai gli occhi, e' hai l'orecchie
Quelli di pipastrel, queste di bracco,
Non vedi come amor per te m' invecchie.
Tal che Saturno fatto «on di Bacco ?
Non mi guardar e' aggia le scarpe vecchie,
No '1 boccalone, la schiavina, il sacco ;
Ch' io son tale però qual non fu mai,
E se tu '1 provi, forse piangerai.
n
Che s' una fiata mi concedi un baso
In quella guancia, qual persutto, rossa,
Ed anco, eh' un sol tratto i' ficca '1 naso.
In cui non dico gik, ma in quella fossa
Di tue mammelle sin al bosco raso,
Uhi Platonis requiescunt ossa^
Forse più con le schiene, che col fiato.
Il mio sonar di piva ti fia grato.
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Orlandino — Capitolo 5 81
m
Tornata era alla stanza già Frosina,
Ove Milon avea rotta la porta
Di sua madonna, e fatta tal mina,
Che di mai racconciarla si conforta.
Sopra un forciero il letto suo destina,
E tutta notte di vegghiar sopporta,
Menti'e gli amanti giocan alle braccia,
Dicendo col suo cuor : btion prò gli farcia.
IV
Fugge la breve notte col solacelo,
E dicono gli augelli, che '1 vien giorno.
La pro^dda Frosina e' ha V impaccio
Veder eh' i duo non abbian qualche scorno,
Vassine al letto, e trovali eh' in braccio
DoiTiendo 1' un di 1' altro fan soggiorno ;
Destali pianamente, e dalli avviso
Che '1 sole troveralli all' improvviso.
Con r empito e prestezza, con cui sole
Milon saltar a T arme for di letto,
Quand' ha sopra di se la grave mole
Di copie armate, e stanne con sospetto,
SfeiTasi amaramente dal bel sole
De' soi pensieri, e lascia ogni diletto.
Prende la spada, ed anche un bascio tale,
Che fu principio poi d' un lungo vale.
VI
Sol soletto mille stanze passa
Finché pervenne a 1' uscio del suo loco ;
Spingelo presto, 1' urta, batte, e quassa ;
Non è che 1' apra ; onde tutt' arse in foco :
Corre col piede, e '1 cardine fracassa,
Che risona d' un strepito non poco :
H camerier non trova, ed ei corcato.
Subitamente si fu addormentato.
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82 Oblamdino — Capitolo 5
vn
Turpin quindi si parte ad Agolante,
Che passar in Europa si destina ;
Chiede Mambrino seco, ed arma tante
Copie di bella gente saracina,
Che spera in tempo breve por le piante
Su '1 collo a Carlo, con sua gran mina.
Dopo scrive d' un dio Demogorgone,
Ch' era sopra alle fate e fatasone.
vm
Dipinge il suo giardino su nei monti
Rifei, d' oro e d' argento fabbricato :
Narra le ripe, i fiumi, T ombre, i fonti,
Ed un palazzo d' ambra edificato :
Narra di molte capillate fronti,
Figliuole di fortuna, e del gran fato,
Fra le qual ninfe, o fate altri T appella,
Era Morgante, e Alcina sua sorella.
IX
Narra, Demogorgon aver per moglie
Pandora, de le fate la più bella,
Donde nascon le pene, afianni e doglie,
E di lor empion questa pai-te e quella
Di tutto 1 mondo, ed egli par eh' invoglie
Far al suo modo il tempo ed ogni stella.
Volge Turpino lo stile poi, narrando
Un caso di Milone, atro e nefando.
Or che far deve Berta essendo gravida,
E 1 ventre di dì in dì le vien più tumido V
Si pente mille volte, che tropp' avida
Fu di mischiar col dolce caldo T umido :
Teme '1 fratello, e sempre più vien pavida.
Col volto scolorito e Y occhio tumido.
Solo Frosina è sola fida ancilla.
Che con a\asi rendela tranquilla.
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Orlandino — Capitolo 5 €3
XI
Fidel anelila non fa già Dìambra,
Ch' empir la sua lassivia non potendo,
Entrò di sua madonna nella ciambra
Di notte, ove Y ancise, lei stringendo
Nel collo co le man. S' una sicambra,
O mora (75) fosse stata, eh' io m"* incendo
D' ii-a, di rabbia, quando mi rammento,
Una Tais aver Lucrezia spento.
xn
Rampallo da Milone seppe il tutto ;
Teme al amico più eh' a se medemo,
Vedel esser in faccia smorto e brutto,
Come in un eolmo di dolor vedemo ;
Nulla dimanco acciò eh' egli distrutto
Non resti, o morto per affanno estremo,
Levai sovente con pai-lar salubre.
Rendendolo men tristo e men lugubre.
xm
ly udirsi più la facultk vien tolta.
Proverbio, eh' ogni gioimo non è festa :
Torno al palazzo va Milon tal volta.
Che '1 desio di vederla, lo molesta ;
Ma nulla fa, eh' ella sen sta sepolta.
Si come donna vergine ed onesta ;
Ond' egli più che mai sospira e langue,
E più non ha color, vita ne sangue
XIV
Ecco '1 dolce piacer sì tosto e breve,
(J hanno sovente insieme i ciechi amanti.
Se giustamente equiparar si deve
A' succedenti affanni e lunghi pianti.
Eccoti amante, s' esto amor è leve,
Che cangian in un momento in lutto i canti ;
E poi che t' ha condutto al teso laccio.
Fugge 1 protervo, e lasciati 'n impaccio.
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84 Oblakdino — Capitolo 5
XV
Mentre cektauiente passa il fatto,
E 1 grosso ventre ancor non dk sospetto, ì
Giunse a Parigi un cardinal diffatto.
Che a grande onore fu da Carlo accetto. ■
Papa Adrian il manda molto ratto, !
Per tosto opporse al stol di Macometto,
Lo qual possedè gik Cicilia tutta ;
Mezza Calabria in foco è gik distrutta.
XVI
H capitan di questi turchi e mori
È re Guaniero, frate di Agolante, i
Quel Agolante che d' imperatori
Del mondo è il più superbo ed arrogante.
Costui li cristiani d' Italia fori
Scacciar voma per vendicar Barbante
Suo padre, il qual ancise Carlo Mano
Per Grallerana nel (*.ontado ispano.
xvn
Or al consiglio Carlo si ricorre
Per contrapporsi al foco gik ideino:
Qui lo senato in un pensier concorre,
Che '1 gran Milone, sommo paladino,
Com' è sua cm-a, vogliasi disporre *
Fornir la impresa contra il Saracino.
Pensate, in qual tiavaglio allor trovossi !
Non ha pensier, che tutto no 1 disossi.
xvni
Fra questo tanto, mentre il duca Amone
Sentesi di la spalla molto male, j
Ginamo di Maganza si dispone ^
Voler per mezzo di quel cardinale
Impetrar Beatrice da Carlone
Per mogUe sua, né voi premio dotale ;
Anzi per contradote a carte schiette,
Maria et mordes dar a lei promette.
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Orlandino — , Capitolo 5 86
XIX
n saggio Namo, eh' è padre di quella,
Temendo fra Maganza e Chiaromonte
Non pululasse costion (76) novella,
Al duca non pendendo più eh' al conte,
Condusse al re Carlone la dongella,
Dicendo che cagion di eotant' onte
Esser già, non volea, ma eh' egli stesso
Dia lei marito come par ad esso.
XX
Milon odendo ciò, guarda in traverso
Ginamo se talor lo 'ncontra in via.
Egli che di quei traiti (77) è '1 più perverso.
Guardasi ben la pelle, e tuttavia
Va praticando, e con modo diverso
Drieto a Milone tien sempre la spia,
Sì per intender cliiaro il suo consiglio.
Sì per saper cavarsi di perigUo.
XXI
Ecco la gara in piede, ecco 1 travaglio
Levato già per colpa di libidine ;
Ma Carlo voi frenar de' brandi il taglio.
Che sempre alloggia Marte con Cupidine :
Tacco alla coda subito un sonaglio
Di maganzesi a molta sua formidine.
Perchè destina, eh' ambi duo giostrando,
Chi vince abbia la donna al suo comando.
xxn
Or qui Ginamo perde ogni speranza.
Sapendo ben, che '1 pregio fia d' Amone :
Va innanzi Carlo, e seco Maganza,
Pontieri, e tutta Y altra nazione :
Pensa smarrir bravando il re di Franza,
E dicegU su '1 volto, che cagione
Non ha di far a lui cotanto torto.
Per un Amon stroppiato e mezzo morto.
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86 Orlandino — Capitolo 5
xxm
Milon eh' ode il rumore stando in piazza,
Ratto su per le scale vien sbalzando,
P] fra la folta turba anti si cazza
Con tre famigli, e cinto ha sotto il brando ;
Sente che 1 traditor forte minazza,
Sen non avrk Beatrice al suo comando.
Non r avrai tu già, se pria non giostri.
Disse Milon, e, quel che sei, non mostii.
XXIV
Ginamo a quel parlai* si volse indrieto,
Vede Milon, e ratto si scolora.
Come Macario, più de li altri inqueto,
Risponde alteramente : alla bon ora ;
Non siamo morti nò ; ma starti queto
Farestu meglio, e non destar chi dorme.
Anzi pur^vegghi (78) troppo, disse il conte.
In far a Chiaromcmte oltraggi ed onte.
XXV
Macario e' ha la lingua for di denti,
Tenendo su la spalla la man destra.
Rispose : per la gola tu ne menti,
E per ferirlo subito s' addestra.
Milon non stette a dir, tu ne stramenti (79),
Anzi un roverso con la man sinestra
Menò sì ratto, eh' un polti'one zaffo
Non ebbe mai da un bravo il più bel schiaffo.
XXVI
Levasi Carlo tostamente in piede.
Che già duo millia spade esser cavate,
E contra quattro sol vibrar le vede.
Milon, che 'n mezzo tanti brandi e spate
Era con tre famigli, vi provvede
Ben tosto in quelle genti al mondo nate
Per tradir sempre ed ingi'assar la terra
Di sangue, ed ov' è pace^ porvi guerra.
L-
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Orlandino — Capitolo 5 87
xxvn
Con quella rabbia eh' un leon tra cani
Vidi cacciarsi sotto Giulio a Roma,
Smembrandovi mastini, bracchi, alani
Con la virtù sì altera, e mai non doma ;
Così Milon fra quei lupi inumani
Convien, che '1 brando in lor mal giorno proma.
Troncando spalle, busti, gambe, e braccia
Ed ov' è '1 stolo denso, ivi si caccia.
xxvm
Ma duo de' soi scudieri crudelmente
Già son in mille pezzi andati a terra ;
Lo terzo si ritu-a virilmente
Appresso il suo patrone, il qual non erra
Over spai-tir la testa in fin al dente,
O fin al petto, e tanti giìi n' atterra,
Ch' un monte n' ha d' intorno in sangue merso
Chi tronco de la testa, e chi a traverso.
XXIX-
Re Carlo, di gridar già fatto roco
Bandendo e minacciando or questo, or quello,
Addirasi talmente, che di foco
Parca nel volto aver un Mongibello :
Onde ricorse del bastone al gioco.
Rompendo qua e là più d' un cervello ;
Ma nulla, o poco fa la sua presenza,
Ove non è rispetto, e men clemenza.
XXX
jy ogni altro più Macario di Susanna
Ferir le schiene di Milon s' affretta,
Il qual, secondo il merto, lo condanna,
E fa del suo mentir aspra vendetta ;
Perchè la lingua e i denti nella canna
GU caccia d' una punta benedetta.
Onde '1 meschin ne cade, ed una palma
Di Ungua sbocca fora, e 'n sieme 1' alma.
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88 Orlandino — Capitolo 5
XXXI
Poscia ferir Bernardo non s' arresta,
Fendendolo dal capo fin al petto,
E vibra una stoccata così presta,
Cli' a Dudo passa il ventre, e ad Ugoletto.
A un altro fa due parti della testa,
A un altro un braccio, a un altro taglia netto
Dal busto il capo, e molti alla cintura
Tronca, se pasta fosse V armatura.
xxxn
Più di mille n' ha morto, e gli altri caccia
E taglia, e tronca, e crudelmente svena ;
Volano gli elmi con le teste e braccia
Mentre punte, fendenti, e scarsi mena.
L' imperatore tuttavia minaccia,
E batte col troncon ; ma non raffrena
L'ira però, ne raì)bia di Milone,
Che 'n tal eiTor si manca di ragione.
Kxxni
Cessa Milon, dicea, non far ti dico.
Io tei commando, lascia di ferh-e,
Se non, spera d' avermi tal nemico,
Qual studia giorno e notte altrui punire.
Milon cotal parole men d' un fico
Allor potea stimar in quel schei-mire ;
Onde non 1' ascoltando caccia quelli
Giù per le scale in guisa de stornelli.
xxxiv
Un sopra Y altro al fondo de le scale,
A venti, a trenta vanno rotolando :
Milon sgombra di lor tutte le sale,
Fin su la piazza i traditor cacciando ;
Dil che re Carlo in tanta furia sale,
Perch' ei non ubbidisce al suo comando,
Ch' allor allor gli fa bandir la testa,
S' andar giù del paese non s' appresta.
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Orlandino — Capitolo 5 89
I
l
XXXV
Un termine gli dk sol d' una notte,
Perchè gik Febo scampa con la luce :
Or que' tapini i)er caverne e grotte
Ove ne sol ne luna mai traluce,
Sonsi appiatati, e temon altre botte,
Che Chiaramente e quel sì fiero duce,
Che li ha scemati più di mezza parte.
Ivi non li arda in tutto, e li disquarte.
XXXVI
In quella istessa notte, o crudel rabbia!
Cadde Milone in tanta bizzaria.
Che cento maganzesi, come in gabbia.
Venne assaltare dentr' un osteria :
Non vi si parte mai fin che non li abbia
Mandati tutti a pezzi in beccaria ;
Eravi Manfredon, padi'e di Gano,
Cui trasse il core di sua propria mano.
xxxvn
E 'n la medesma notte si lo affise
Nel mezzo de la piazza con la testa,
E un breve scritto sopra quelli mise,
Che dice : ancor il tuo Carlo mi resta.
Oltre di questo in cotal notte uccise
Un capitan, chiamato il gran Tempesta,
Lo qual con la sbii-aglia in men d' un' ora
Cacciò Milon di questo mondo fora.
xxxvm
Ornai di sangue sazio in queir instante
A venti suoi compagni dà combiato (80).
Fra quali v' è Terigi, quel bon fante.
Che '1 giorno in sala sempre al fido lato
Stette del suo padron a Carlo avante ;
Ed or per ubedirlo, s' è spiccato.
Costui fu dopo a Orlando sempre caro,
E di sue cose fido secretaro.
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90 Orlandino — Capitolo 5
XXXTX
Milon si parte solo, e gli altri lassa,
Né mai per lor preghiere seco i volse ; . J
Sotto 1 regal palazzo intorno passa, j
E dietro a quel per un sentier si volse,
Fin che di pietre e sassi ad una massa
Venuto, di salirvi cura tolse \
Montavi arditamente a 1' alta cima,
E come entri 'n palazzo, seco stima.
XL
Vede spuntar di fora un certo trave, •
Levasi in alto, e quel saltando giunge, j
E benché d' arme si«. carcato e grave,
Pur forza con amor là suso il pugne.
Salito è molto spazio, e gik non pavé
Ficcar gli piedi, e de le mani Y ugne
Per buchi e per fissure di quel mm'o.
Tanto che giunse ad un balcon sicuro.
XLI
Trova qui dentro un logo bisognoso i
A r uomo, quando '1 ventre scarca e leva ;
Quindi partito da la notte ascoso
Va queto, queto, e mentre un pie solleva,
U altro tien sì, che men sia strepitoso,
In fin che giunse ove Berta piangeva,
La qual in ciambra già non può doi-niire.
Ma, sei piacesse a Dio, voma morire.
XLH
Milon accenna a V uscio leggiermente.
Berta sentendo trema di sospetto.
Cliiama Frosina, ma colei non sente,
Onde Milon per esser dentro accetto.
Disse qual' era, e Berta immantenente,
Sènza pensarvi, salta for di letto,
Corre alla porta, aprendola di botto,
É (Jui comincia un lagrìmar dirotto.
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Orlandino — Capitolo 5 91
XLin
Ma poscia che Milon ad invitarla
Si mise, per condurla seco in bando,
Ella cadendo in terra, più non parla,
Che perse ogni vigor a tal dimando.
Voi pur il cavaliero confortai-la.
Che fai' non voglia contra '1 suo comando ;
Ma nulla fa, che 'n viso impallidita
Lei vede, for di mente esser uscita.
XLIV
Frosina dorme, ne '1 rumor ascolta.
Che 1 pianto dianzi fatto con madonna
In un profondo sonno Y ha sepolta.
Milone d' un lenzolo, e d' una gonna
In un fardello tosto fa ricolta.
Poscia gagliardo toltasi la donna
Sul collo, via la porta con gran fretta,
Già sazio contra Carlo di vendetta.
XLV
Grià sazio di vendetta contra Cai-lo,
Che fé dopo '1 macello tal rapina ;
Ma sol amore non può saziarlo,
C ha posto a quella ninfa pellegrina.
Politasi 1 dolce peso, ne lasciai-lo
Mai volse infin eh' al logo s' a^'vicina,
Dond' or ne venne per la finestrella,
E quivi giunto, in ten-a pose quella.
XLVI
Ma non sì tosto giù posata Y ebbe,
(he riede al saggio lor il spirito, e '1 sangue.
Aperse gli occhi, e Y animo le crebbe ;
Dove sei, vita mia, dicendo, langue.
Milon risponde : donna, omai ti debbe
Tornar il bel color al volto esangue ;
Tessi pur tele Carlo, s' ei sa tessere ;
S' è amor per noi, chi contra voi essere.
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92 Orlandino — Capitolo 5
XLVn
Gruidarti meco voglio, se '1 ti piace,
E trarti, eh' oggi è tempo, di periglio.
Sol Dio m' è testimon, quanto mi spiace
Doverti condur meco in tal esiglio.
Ma per locarti alfin ove aia pace,
Far voglio da leon, non da coniglio,
E dei saper ch'assai minor è '1 danno
Di pover libertà, che un fier tiranno.
XLvm
. Così parlando, tuttavia le cinge
La gonna intomo, seco anti recata.
Gonna non già di quelle eh' oro pinge.
Ma da portar sotto bei manti usata.
Poscia le copre il capo, e sì la finge,
Che 'n altra donna par esser mutata;
Ne Bei'ta in guisa alcima più parca.
Ma Fillide, Neera, o Gralatea.
XLTX
Qui poi di terra il gran lenzolo piglia,
E quel divide in fascie lunghe e strette.
Annoda i capi lor, e qui s' appiglia
Con le man Berta, da Milon ben rette :
Cala per quella corda, e s' assottiglia
Ferma tenersi fin che in terra stette ;
Milon drieto le manda il drappo d' alto,
Ed animoso venne giù d' un salto.
Qual timidetta agnella che '1 pastore
Del lupo da le zanne abbia redenta,
Non anco cessa palpitarle il core,
Ne mai Y orribil tema si rallenta ;
Così Berta seguendo il suo rettore,
Par sempre eh' alle spalle Carlo senta,
Chi la persegua, e sposso a drieto guarda,
Onde di correr forte, mai non tarda.
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^
^v
Uu
Orlandino — CAPrroLO 5 99
LI
Girato avea gik mezza notte il cielo,
Che passo passo vannosi le stelle :
Anco non era caldo, ne anco gelo,
Ma la stagion quando le viti belle
Son carche d' uve, ed ogni ramo e stelo
Di rosso e giallo par che '1 mondo abbelle ;
Milone finalmente giunge al mm'o
De la cittade, molto grosso e duro-
UI
Montavi sopra, ed ha pur seco il panno,
Del quale un capo tiene, Y altro giuso
A Berta manda, cui pareva un anno
Ogni momento uscir di loco chiuso ;
Ma svelsela Milon di quel affanno,
Che su la trasse, e poi con essa giuso
Calò del muro fora in su la sabbia ;
Di bosco uccelli già, non più di gabbia.
Lin
Tutta la notte vanno senza posa.
Dal timor spinti, e da speranza tratti ;
Pur dove qualche poggio, o via petrosa,
Per cui Berta convien che giù s* appiatti,
Milon incontra, già non si riposa.
Ma in collo se la reca, e su per ratti
Monti lei porta come fido amante,
Se azzaio (81) fusse dal capo alle piante.
LIV
Scoprendosi poi Y alba for d' un monte ;
rova un bollano adosso una cavalla.
Lo qua! s' aflretta d' arrivar a 'n ponte,
d' un senato tratto al fiume calla,
lilon chiamagli drieto, e eh' éi dismonte,
>ega e riprega, ma 1 villan non falla
Dal suo costume rozzo e discortese.
Niente Y ascolta, e la via corta prese.
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94 Orlandino — Capitolo 5
LV
Prese la via più corta vemo il fiume,
Che a guazzo quello trapassar vorebbe :
Allor Milon, s' avesse a piedi piume,
Awentasigli drieto e giunto V ebbe,
Ove cosi correndo anco ressume
La cura d' insegnarli, come debbe
Caritativamente, e con ragione.
Di quella donna aver compassione.
LVI
Mi maraviglio ben del cavaliero
Che usar volesse tanta pazienzia ;
Perch' esser al villan crudo e severo.
Altro non è, se non bontà e clemenzia :
Anzi dirò, eh' un fusto grosso intiero
E quello che gli spira gran prudenzia ;
Dalli pur bastonate sode e sti-ette.
Che non si ha di guarirlo altre ricette.
Lvn
Passava Giove per un gi-an villaggio
Con Panno (82), con Priapo, e Imeneo (83) ;
Trovan eh' un asinelio in sul rivaggio
Molte pallotte del suo sterco feo.
Disse Priapo questo è gran danneggio :
En, domine fac homines ex eo.
Surge villane^ disse Giove allora:
E '1 Aallan di que' stronzi saltò lora.
F^. LVIIl
Ed in quel punto istesso, quanti pani
Fu di letame o d' asin, o di bove,
Inmrrexerunt totidem villani
Per tutto '1 mondo a far delle sue prove,
Cioè pronte in rubai- aver le mani,
E maledire il ciel, quando non piove,
Esser fallaci, traditor, maligni.
Di foco e forca per soi merti digni.
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Orlandino — Capitolo 5 95
LIX
Aspettami, ti prego, caro amico,
Dicea Milon, e non aver spavento ;
Ma quel poltrone, d' ogni ben nemico,
Vedendo eh' egli '1 tien nel vestimento,
Lasciami, disse allor, lascia ti dico :
Non so chi sei ; tu n' hai spogliato cento.
Io ti comprendo ben, che ladro sei.
Rubasti l'arma, il brando, ancor colei.
LX
Non men di me comprendesi villani,
Esser di voi soldati la più parte.
Se vi lasciate calcular le mani
Dai chiromanti nostri, che san 1' arte
Di zappe ed altri libri rusticani
Meglio, che portar picca sotto Marte ;
Eppur, quantunque bravi insuperbiti.
Tutti sete villani stravestiti.
LXI
E ciò parlando, trasse una sua daga
Lucida quanto avea sotto '1 calcagno ;
Milon eh' è di natura sempre vaga
Più presto dar che tor Y aitimi guadagno ;
Or dignamente ad un furfante impaga.
Volendolo purgar d' acque di bagno.
Afferra ne la coda la cavalla.
Ed ambi drente un fosso d' acqua avvalla.
Lxn
Quel sciagurato in guisa di ranocchio
Resta nel fango, e la giumenta uscisce.
Ecco, disse Milon, sazia pidocchio,
Ch' awien ad un villan eh' insuperbisce :
Rubaldo che tu sei : perder un occhio
Dovria chi del tuo mal non ti punisce :
Or pesca ben e' hai modo di pescare,
Ed io frattanto voglio cavalcare.
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96 Orlandino — Capinolo 5
Lxm
E detto ciò, riprese la giumenta,
Non per la coda più, ma nel capestro :
Berta, clie n' ha fastidio e si toi*menta
Per lo premier incontro assai sinestro, ■
Salir su la cavalla non fu lenta,
Maledicendo quel villan alpestro :
Milon va innanzi, e fa dello stafferò,
Tirandosila drieto pel sentiero.
LXIV ^•
Tutto quel giorno e la notte seguente ;
Non mai di caminar elli cessaro. |
Berta sempre alle spalle Carlo sente, |
Ne crede di scansarlo aver riparo ; \
Però vanno di trotto con la mente
Chimerizzando, infin eh' essi arrivaro
D'una grossa fiumara in capo, dove
Scoprono Y alto mar eh' ivi si move.
LXV
Lungo alla «piaggia volgon il sentiero, j
Lasciando in sabbia lor vestigi sculti :
Ne molto vanno eh' un simile a Piero, ■
Vecchietto pescator allì ami occulti J
Vedono trar nel legno suo leggiero j
Appesi con inganno i pesci stulti. :
Se in te, gridò Milon, avrai boutade,
Tu ci darai mangiar per caritade.
LXVI
E Cristo poi ti l'enda guiderdone,
Dandoti quella destra del navigio.
Che diede Gianni, Jacomo, e Simone,
Quando alleluia trasser di litigio.
Risponde il vecchio : quest' è ben ragione ;
E ratto a terra volge lo remigio,
Ove arrivato^ for di barca scese.
Portando il pesce quanto mai ne préée.-
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Orlandino — Capitolo 5 97
Lxvn
Poi scote aceortamente d'un acciaio,
E d' una selce' il foco su le fronde ;
Milon che vede ciò, porta un legnaio
De pruni e de vei^lti colti a Y onde,
Acceso il foco, Berta a più d' un paio
Di pesci cava l' intestine immonde ;
Milon alla cavalla trae la sella.
Sedeva suso, e tiene la patella.
Lxvm
Stride su 1 foco il pesce dentro V olio
E Pallade si scampa da Mulcibero.
Belila tien stimulato sotto 1 dolio
Fronde di tamariso e di giunibero :
Vln muffo e forte, e pan di faba e lolio
Poscia espedisce quel vecchietto libero.
Milon si abbraccia, e gli occhi spesso tange,
Come uom che soi peccati al fimao piange.
LXIX
Onde Berta sen ride, e si cpnsola
Vedendo quel tant' uomo fatto coco,
A cui pel filmo e gli occhi e il naso cola,
E brugiasi le gambe al troppo foco.
Milon che ben V intende, una pai'ola.
Piangendo tuttavia, disse per gioco :
Tre cose V uomo cacciano di casa,
H finno, il foco, e la moglie malvasa.
LXX
Berta risponde : e pm* non cura 1' uomo
Spiccarsi dalle spalle tal urtica ;
Cotanto dolce fu Y acerbo pomo,
C'Adam gustò, porgendo al' Eva antica.
Che benché sol per lei di propria domo
Scacciato fusse, parvegli fatica
Lasciar la causa drieto del suo male.
Perchè dura è ragion al sensuale.
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98 Orlandino — Capitolo 5
LXXI
Così ti vien Milon, che perula fame
D' indi non po' levarti questo fiinio.
Egli risponde : son le belle dame,
Chi ci han posto alla coda questo diuno ;
Berta ne ride, e senza voglie grame
Su '1 pesce spàrge ornai di sale un grumo.
Lo qual già cotto rende saporito,
E poi lo mette in tavola su 1 lito.
Lxxn
Quel vecchierello, a gentilezza dedito,
Arrecavi le sue vivande povere ;
Egli non ha de' campi, o fondi redito.
Se non la barca, il mar, il sole, '1 piovere.
Onde di simil sue ricchezze predito,
Quel suo vin muflfblente e pan di rovere
Appone in sua presenzia, e dice : inopia
Chi mangia di cotesta, mai non scopia
Lxxin
Quanto mi trovo, tanto nella vostra
Presenzia, o miei padroni, ho qui diflftiso.
In me il voler, ma no '1 poter si mostra
Di far, com' è tra' vostri pari 1' uso :
Ma svaria molto questa voglia nostra.
Chi tien aperto il pugno, chi '1 tien chiuso :
Tal poco n' ha, eh' altrui quel poco imparte ;
Tal molto n' ha, che ruba 1' altrui parte.
LXXIV
S' io avessi in arca V oro di Tiberio,
E li pomi del di'ago ch'ancise Ercole,
Credeti a me, ciò dico a vituperio
De' ricchi, men sarian coteste fercule.
Questi avarazzi fanno quel suo imperio
Col sparagnare infin alle cesercule.
Le scope, ed altre cose frali e frivole.
Che per disdegno tutte non descriyole.
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Orlandiko — Capitolo 5 99
LXXV
E s'io potessi, fondare! tal legge,
Ciii meglio non fondor li antichi padri,
Che chi è signore, e gli nomini corregge,
Dricciar faria le forche a pochi ladri :
E chi la robba e vita sua ben regge.
Verrebbe al sol de' loghi oscuri ed adii ;
Ch' oggi virtù sta serva del dinaro.
Come '1 pover* dottore al usm^aro.
LXXVI
Qual legge è questa? dissegli Milone,
Narraci, ti pregamo, padre c^ro.
Voglio, risponde, che niim ladrone
Abbia d' esser appeso alcun riparo,
Se piglia quel d' altrui contra ragione,
Eccetuato sol ciò e' ha Y avaro ;
Anzi vorrei, che '1 pover s' appicasse ;
Se potendo, 1' avaro non rubasse.
Lxxvn
Tu vederesti l'integri catoni
Più grati al mondo, e dal predon sicuri ;
Tu vedresti V improbi Neroni
A povertade men crudeli e diu-ì ;
Tu vederesti li empi Licaoni,
Pigliato la lor parte, non più furi ;
La parte sua, che sta nell' altrui copia,
Che '1 tuo superfluo causa la mia inopia.
Lxxvm
Che maledetta sia l' ingorda rabbia
Di questa lupa, e chi adorar la vole.
Che se quante son miche in questa sabbia,
E quanti cascan attonii dal sole (84),
Tanti denari awien, che '1 miser abbia.
Apre per anche averne mille gole.
Ne pur si sazia la sua mente avara ;
Onde, qual sia 'n piacer, mai non impara.
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JOO Orlandino — Capitolo 5
LXXIX
Tal biasxno non v' adduco senza causa ;
Che ho fatto d' un avaro mille prove.
E se '1 mio dir non vi facesse nausa,
Direi di lui la miser vita, e dove.
Rispose allor Milone : io faccio pausa ;
Eccoti da mangiare ; che 1 mi move
L'aspetto tuo talmente, ch'io starei.
Di^uno, per udirti, giorni sei. ,
LXXX
Qui narra il vecchio una faceta istoria
D' un prete fiorentino tanto avai-o,
Ch'ai fin di doglia perse la memoria,
Già divenuto pazzo pel denaro.
Ma voglio, eh' abbian altri questa gloria
Dirlo meglio di me ; che sol m' è caro
Venirne finalmente ad Orlandino,
Già molto al nascimento suo vicino.
LXXXl
Ma Caritunga mia chiedemi a cena ;
Tenetivi, signori, eh' io vi lasso.
Penso mangiar una coniacchia piena
De' sogni, che non scrive il mio Tricasso.
Poscia vo' bere d' una certa vena
D' acque distanti a quelle del Pamasso,
Le quali a molti toglion il cervello.
Ma queste li denari còl mantello.
FINISCE
IL QUINTO CAPITOLO
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Orlandino
m-^
-^^"
COMINCIA
IL SESTO CAPITOLO
0
SCURI sensi ed affettate rime,
Qual' è chi dica mai compor Limemo ?
Tal volse del Petrarca sulle cime
Salir, eh' or giace in teiTa con gi'an scherno.
Icaro per montar troppo sublime.
Credendosi avanzar il voi pateiTio,
Perse con Y ai'te Y incerate piume,
E venne giù dal ciel in un volimie.
n
Non tutti Sanazarri ed Ariosti,
Non tutti son Boiardi, ed altii eletti,
Li cui sonori accenti far composti
De r alma Clio negli ederati tetti.
Tetti sì larghi a lor, a noi sì angosti ;
E rari son pur troppo gli entro accetti:
Però, che meraviglia, se '1 gran sono
Di lor sentenzie in tanto pregio sono ?
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102 Orlandino — Capitolo 6
m
Milon da poi che '1 vecchio pose fine
A la novella ài quel scarso prete
Dimandagli, se porto in quel confine
Vi era ; mentre Y aure sono quete,
Vorrebbe oltra passar V acque marine,
Dando al nocchier le solite monete.
Non dubitate, disse '1 vecchio allora,
Lo porto non lontano qui dimora.
IV
Disse Milon, se quel non è lontano.
Voglia guidai'ci in questo tuo battello ;
E per r atto gentil e più. che umano
Che fusti a darne cibo tanto snello.
Questa giumenta lascioti, e con mano
Proprio la sottoscrivo, e ti suggello.
Mille mercè, risponde il vecchio : senza
Tanti notari prestovi credenza.
Entrati pur in barca, ch'in un tratto
Voglio condurvi al porto qui vicino.
Lasciamo qui la bestia, che diffatto
Io manderò levarla un mio cugino ;
E penso già di fame bon baratto
Drento di Corsia in \m carro di vino ;
Perchè, vi giuro, mai non pesco bene,
Se di bon vin non son le fiasche piene.
VI
Cosi parlando, accostasi alla barca ;
E Berta il vecchierel prende al traverso :
Poi d' esso peso il suo legnetto carca,
Che pargoletto quasi vien sommerso.
E tolto il remo, navigando innarca
Le schiene, com' un serpe d' oro terso.
Lo qual va sdrucciolando per un prato,
S' awien che 1 pè d' un bue V abbia calcato.
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Orlandino — Capitolo 6 103
vn
E col soave noto, eh' un aquatico
Mergo tra folghe segue alcun pescicolo
Nel lito e primo mar de l'Adriatico;
. Tal va per V onde salse il trave piccolo
Sotto il governo di quel vecchio pratico, ;
Che mai di mar non teme alcun pericolo: '|
E per levar il tedio, e fai-li ridere, ^
Cantar comincia, e con gran voce a stridere. S
vni I
Ma giunti al porto, trovano eh' un grande
Legno si parte verso Italia in fretta.
Accostasi Milone, e su vi scende i
Con la campagna, e lascia la barchetta: >?
Non è chi lui conosca, o chi '1 dimande, • 1;
E pm* d' esser compreso ivi sospetta. ^
Sta sempre aiinato, e porta cinto '1 brando, ;
Come sol fai* chi ha taglia posto in bando (85). (•
IX i;
Già febo l'aurea testa in l'onde attufFa: r
E lascia il freddo lume alla sorella, i
Quando pel vento che 'n le poppe buflfa, i
Issasi 7 velo^ come '1 volgo appella. r
Quel grave legno spinto 1' onde acciuffa, >
E rompe '1 mar che intomo gli saltella: V
Fa nov^ migHa o dieci in men d' un ora, :
E fende ciò che 'ncontra 1' altra prora.
Soldati, mercatanti, preti, e frati.
Eran con alti-a gente in quel naviglio :
Chi guatta il fìer Milon da gli omer lati ;
E chi '1 bel volto candido e vermiglio
Di Berta, e' han d' amor i gesti ornati,
Contempla sì, che dàlie già di piglio ;
Ma la presenza di Milon robusto,
Tien in cervello ogni lascivo gusto.
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104 Orlandino — Capitolo 6
XI
Or un signore V era di Calabra
Con trenta ben armati soi famigli ;
Brama di Berta egli basciar le labbra,
E agguccia, per rapirla, giJi gli artigli.
Milon non sa quella sua mente scabra,
Bench'egli co' compagni si consigli,
E r un con Y altro parli ne Y orecchia,
Ch' ognun nel ben altrui sempre si specchia.
xn
Farebbon già Y assalto ; ma che 1 giorno
Sparirò venga in tutto, attenden prima.
Bèrta con altre donne fa soggiorno
Sotto coperta de la prora in cima.
D'ogni altra cosa pensa, che del scorno,
Lo qual in lei quel tristo far estima;
Onde corcata* in grembo d'una schiava,
Col sonno le sue membra ristorava.
xm
Milon che di saper volge 1 desìo,
Se di Parigi alcun sapesse nova,
Dimanda forte : ditemi, per Dio,
S' alcun eh' il sappia dir, ti'a voi si trova,
E vero, eh' un Milon malvagio e rio
Ha fatto contra Carlo un' empia prova ?
Risponde un grande vecchio : è con effetto ;
E dir te lo saprò, se n' hai diletto.
XIV
Chi sia cotesto vecchio in fronte grave,
C'ha lunga barba, ed occhi di Saturno,
Ninno sa di quelli enti*o la nave ;
Che '1 finto volto, ed anco il ciel notturno
Lo asconde lor, ne senton che '1 gran trave
Mosso non da Levante, o da Volturno,
Ma del suo spirto, vola in tal prestezza,
Ch' un veltro non va più, anzi una frezza.
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Orlandino — Capitolo 6 105
XV
Volendo, mille forme cangia '1 volto,
Tant' è nel arte magica pwito ;
Sciolge d' amor il vinto, e vinge '1 sciolto,
Affi-ena i fiumi, e chiama i pesci al lito ;
Fa '1 matto saggio, e '1 saggio venir matto,
E cava Y ombra d' Orco e di Oocito ;
La lana, stelle, foco, piante, e marmi
Costringe alla violenza di soi carmi.
XVI
Ma '1 negromante, degno di gran lodo,
Oprar non sa, se non in ben tal arte.
Fauni, folletti, ed incubi, che 'l vodo
Cerchio tra 1 foco e terra, e la gran parte
Tengon del centro mezzo al nostro sodo.
Tutti scongium a sue sacrate carte ;
Demogorgoni, arpìe, fate, e strige.
Sepolcri, ombre, sibile, caos, e stige.
xvn
Sa quanto alcun mai seppe d' erbe, o piante.
Non d' aconito pur, tasso, e cicute,
Ma mille e mille, che furon innante
Non mai da nigromante alcun sapute.
Taccio '1 magnete, ferro, ed adamante ;
Sa di metalli, e pietre ogni virtute ;
Onde nascoso tien d' argento ed oro
Ne' monti di Carena um gran tesoro.
• xvm
Ne monti di Carena entro le grotte
Sta '1 seggio suo di smalto e sasso fino.
Atlanta ha nome, che di mezza notte
D'una sibilla nacque, e di Merlino.
Or con turbato cor e voglie rótte
Lasciato avea de l'Africa '1 confino
Per un a&ello^ il qual fece ad Almonte,
Che poscia gli dovea far danno ed óiite.
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106 Orlandino — Capitolo 6
XIX
Or dunque posto, eh' egli sol per arte
Saper potesse, aver anti Milone,
Noi sa però, che rado apre le carte
De' spirti rei, se non per gran cagione.
Ver' è, che dianzi Giove opposto a Marte,
Dissegli, che di lui nasce un barone.
Il qual. Orlando detto, iion avria
Egual d' ingegno, forza, e cortesia.
XX
Ora per soddisfar al suo dimando,
Ch' è di saper quel che sapendo poscia
Ne pianga, odendo Y impeto nefando,
Non credo più nefando esser mai poscia.
Di Carlo, anzi Neron, in ciò che '1 brando
Così vibrò, eh' ancor al ciel 1' angoscia
E gli urli van per 1' ampia uccisione
D' uomini fatta in scherno di Milone.
XXI
La causa che m' indusse, poiché attenti,
Vostra mercè, vi veggio, vo' fondarvi
Assai più innanzi mìei ragionamenti,
Venir in Francia, e poco tempo starvi,
Fu la prolissa guerra, i fier lamenti,
La trista occision de' grandi e parvi.
Che ratto de' patir la vostra Europa
Da gente tartaresca ed etiopa.
xxn
Chi fia di tanto mal cagion? Amore.
Amor che sempre fu la peste lorda
De' miseri mortali : ah, in quant' errore
Ci spinge questa fiamma tant' ingorda !
Odo già l'alte strida, il gran rumore
D'arme, ch'aggira in foco, e '1 ciel assorda;
Che dove fischia amor, cosi fier anigue, .
Subito appare ferro, foco, e sangue. ,
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Oblàndino — Capitolo 6 107
xxm
Già 8Ì rinnova quel furor vetusto,
Che 'l mondo trasse quasi al primo cap,
Quando '1 lascivo Paride ed ingiusto
Chiamossi dietro Y empio Menelao,
H quale tutta TAsia ebbe combusto,
Ove Patroclo, Ettor, Protesilao,
Achille, Troilo, ed altri capitani
Restar tra un milion d' uccisi ai piani.
XXIV
Quanf era meglio, che 1 conte Milone
Lasciato avesse Berta liel suo letto.
Carlo testé gli rende '1 guiderdone.
Che sua famiglia tutta per dispetto
Distrugge in ferro e foco ; ma un leone
È per stringer a lui la gola, il petto.
Piti non avrà V ardir di Chiaramente,
Che '1 scampi da le man d'un fier Creonte.
XXV .
Novo Creonte in queste parti viene,
Per spander tutto il cristiano sangue.
Carlo fia 1 primo, che volga le schiene
Al negro tosco, e fiscio (86) d' un tal angue :
Non gli verrà gridar : chi mi sovviene ?
Le membra stanno mal, se '1 capo langue.
Italia, Franza, Spagna, ed InghilteiTa,
Cupido e Marte gitteranno a terra.
xxyi
Ahi, maledetta stirpe di Maganza,
Ch' or godi e canti per Y altrui dolore.
Non sperar già, che falsa è tal speranza,
Gioir troppo lontan di quel favore.
Posto eh' abbi scacciato for di Franza
Di Chiaramonte la radice 1 fiore :
Volge la rota, ma '1 destin è fermio.
Ch'ai fin a tua mina non fia schermo,
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108 Orlandino — Capitolo 6
xxvn
0 stelle, o ptmti, o troppo tardi segni,
Che prometteti sd mondo un si bel sole,
Aprite^ ch'oggi è tempo, i raggi pregni
Al aureo sedo, a l'aspettata prolo.
Nascan li quattro di vertù sostegni,
Per cui rumor etemo al mondo vole,
Nasca quel forte Orlando^ alto coraggio,
Einoddoy e 1 mìo Ruggier^ Gtiidon Sehaggio.
xxvm
ly Orlando una colonna nascer deve.
Che non per Roma, anzi sostien il mondo ;
Ma de Rinaldo un orso tanto grave.
Che di sua forza il ciel sentir fa il pondo.
Ruggiero il sangue d' Este in se riceve,
D' ingegno saldo, e di virtù profondo :
Ma '1 mio Guidone infonderà Gonzaga (87),
Per cui sol nacque la tebana Maga.
XXIX
Guidon Selvaggio, di Rinaldo frate.
La sora di Ruggier avrà per moglie ;
Quindi verrà quel inclita bontate
Gonzaga, eh' in un punto il mondo accoglie :
Mantoa famosa per il primo vate.
Ma più famosa pei trofei e spoglie.
Che riportar in lei Gonzaga deve
Dal Gange al Nilo, ed iperborea neve.
XXX
Parlava lagrimando il negromante,
Ed era per narrar il gran conquasso.
Che Carlo a Chiaramonte il giorno avante
Diede, poscia ch'intese quel fracasso.
Dal fier Milón fatto in un istante ;
Ch'in una notte mandò quasi al basso
Tutta la Casa dì Maganza; e Berta
Rapita aver tenea per cosa certa.
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Orlandino — Capitolo 6 109
XXXI
Quando Raimondo, che Raimondo detto
Era quel duca, o conte calabrese,
Lascivamente Berta nel cospetto
D' uomini e donne stretta in braccio prese.
Volendo eli' abbia il suo pensier effetto.
Come uom villano, perfido, e scortese.
Bei-ta che dorme, destasi gridando ;
Milon che Y ode, tratto ha fora il brando.
XXXII
Corre a veder la causa di tal voce ;
Ma risospinto fu da trenta in drieto :
Pensate, s' ira e sdegno il cuor gli coce.
Vedendo farsi un atto si indiscreto :
Ma r aiTOganza le più volte noce ;
Salta Milon in mezzo di quel ceto,
E vi comincia a dimenarsi intorno,
Quantunque già fosse sparito il giorno.
xxxin
A cui la testa, a cui la spalla fende,
A cui lo braccio, a cui la gamba tronca :
Berta contra Raimondo si difende.
Che a caso in man venuta gli è 'na ronca ;
Ma quel ribaldo in un batello scende,
Dietro le poppe, simil a una conca ;
Quatti-o famigli allor prendon in fretta
La donna, e giù la mandan in barchetta.
xxxiv
Assai contrasta loro, e pur si vede
Alfin Berta d' un ladro esser prigione.
Chiama piangendo su dal ciel mercede,
Poiché r aiuto è vano di Milone,
Lo qual, mentre, cervelli rompe e fiode, .
Gìh presso al fin de Y aspra occisione.
La gl'ossa nave per libeccio vola,
Ma la piccina drieto resta sola.
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110 Oblandino — Capitolo 6
XXXV
Perchè tagliò la fune il fier Kaimondo
Di quel scliifetto allor che Y ebbe drente ;
E mancò poco, non andasse al fondo
La picciol barca, già ingrossando il vento.
Or qui scriver non vogliovi, secondo
Turpin, difiFusamente qual' evento
Fu di Milone, o di qual mago Atlante,
Ch' allor allora spai-ve in un istante.
XXXVI
Ne di Milon, il qual dopo la morte
Sanguinolenta di que' tapinelH,
Ebbe fortuna tal, che le ritorte,
Arbore, vela, remi, arme, vaselli,
Lo stesso legno al fin andò per sorte
Del mai' in preda: e con i soi fardelli
Li mercadanti al fondo si trovaro.
Ne lor scampò la coppia del dinaro.
xxxvn
Pur animosamente il cavaliero.
Trattosi 1' anne, nudo, come nacque,
Buttossi di fortuna ne Y impero,
Di qua, di Ik sbalzato per su Y acque.
Al fin giunse in Italia, ma leggiero
Di forze e panni su la rena giacque ;
Poscia levato da non so qual fata,
Seco sen stette, e 1' ebbe ingravidata.
xxxvm
Di costei nacque il principe Agolaceio,
Come '1 dottore in la sua Deca scrive ;
Ma ritorniamo a Berta che 'n impaccio,
Di quel fellone non sa come '1 schive :
Egli già se Y avea recata in braccio
Per adempir le voglie sue lascive ;
La donna che schermirsi piti non puote,
D' un suo coltello sotto lo percuote.
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Orlandino — Capitolo 6 111
XXXIX
Che mentre finge aprir le gambe a quello,
Ed a giostrar corcasi agiatamente,
Cacciògli ne le viscere il coltello,
Raddoppiando e' colpi virilmente.
Quel misero ferirla volse anch' elio
D' un suo pugnale, ma 1 dolor repente
Di morte V impedisce ; e Berta in mare
Spinselo fora, e s' ebbe a conservare.
XL
Or sola in quel vasello va sbalzando
La pudica dongella su per Y onde.
O sommo Dio, parlava lagrimando,
Porgimi la tua man, che non s' affondo
L' infermo legno : non che '1 mio nefando
Viver, ne le mie colpe lorde inunonde
Mertin pietà, ma quella creatura,
C ho in ventre, o padre eterno, rassicura.
XLI
Da te ricorro, non a Piero, o Andrea,
Che alti'ui mezzo non mi fa mistero :
Ben tengo a mente, che la Cananea
Non supplicò ne a Giacomo, ne Piero.
A te, somma bontk, sol si credea,
Gos' io sol di te sol, non d' altro spero.
Tu sai quel che mi è sano, over noioso,
Fa tu, signor, eh' altri pregar non oso.
XIJI
Ne insieme voglio errar col volgo sciocca),
Di soperstizia colmo e di mattezza ;
Che fa soi voti ad un Gotardo, e Rocco,
E più di te, non so, qual Bovo apprezza,
Mercè eh' un fi-aticello, al Dio Molocco
Sacrificante spesso, con destrezza
Fa che tua madre su nel ciel regina
Gli copre il sacrificio di rapina.
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112 Oblandino — Capitolo 6
XLin
Per ciò che di pietà «otto la scorza
Fassi grande vendemia di dinari ;
E col altare di Marìa si ammorsa
L' empia ingordigia de' prelati avari.
Ed anco la lor legge mi m-ta e sforza
Ch'ogni anno nell'orecchie altrui dischiari
Le mende mie, eh' io son giovin, e bella ;
E il fraticello ch'ode, si flagella.
XLIV
Flagellasi patendo le ferute.
Che mie parole di lascivia pregne
Gli danno, le qual sono tanto acute
Al cor, eh' alfin convien eh' egli s' ingegne
Con vari modi e lusinghette astute,
Ch' io di tacer la fede mia gì' impegne,
E qui trovo ben spesso un confessore
Esser più ruffiano che dottore.
XLV
Però, signor, che sai gli cuori umani,
E vedi la tua chiesa in man de' frati,
A te col cor contrito alzo le mani,
Sperando esser già spenti e' miei peccati :
E se. Dio mio, da questi flutti insani
Me scampi, che mi veggio intomo irati,
Ti faccio voto, non prestar mai fede
A ch'indulgenze per denai* concede (88).
XLVI
Cotal preghiere carehe d' eresia
Berta facea, mercè eh' era tedesca
Perchè in quel tempo la teologia
Era fatta romana e fiandresca (89) ;
Ma dubito, eh' alfin ne la Turcliia
Si troverà, vivendo alla moresca;
Perchè di Cristo l'inconsutil vésta
Squarciata è sì, che più non ve ne resta.
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Oblandino — Capitolo 6 118
XLVn
Non volse Dio però giiar^dai* a quella
Perfidia d' una donna d' Alemagna ;
Ma fece, che con lei la navicella
Pervenne, ove le rijje 1' onda bagna.
Qui stanca e smorta uscisce la dongella,
E tanto va per monte e per campagna,
Di Lombardia passando in la Toscana,
Che for di Sutri (90) giunse ad una tana.
XLvm
Taccio la fame, e sete, e il caldo grande,
E lo timor de' stupratori e ladri,
Che soffre la meschina in quelle bande.
Ove son molti boschi orrendi ed adri.
Mangia sovente more, cornie, e ghiande,
Come facean gli antiqui nostri padri ;
Acque, se non di fonti, almen de stagni,
Convien che sorba, e poi eh' altr' ac(iua piagni.
XLIX
Perchè sempre facendo aspro lamento
Va miseramente contro la fortuna:
Pur finalmente giunse a salvamento,
Si come dissi poco avanti, ad una
Spelunca, ove trovò, che molto armento,
Venendo notte, un pecoraio adduna.
Deh, padre caro, disse, abbi mercede
Di me, eh' omai non posso star in piede.
Quel vecchio allor di somma cortesia
Lascia le capre, e lei benigno accolse :
Onde ne vegna, o vada, o che si sia.
In quel principio chiederla non volse ;
Ma dolce, umano, e lieto tuttavia,
Ch' ella riposa, un suo scrignolo sciolse ;
Trassevi pane, cacio, e molte frutta,
E Fumile sua mensa ebbe costrutta.
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114 Orlandino — Capitolo 6
LI
Berta eli' lia fame, e dentro olii la suf^ge,
Dico lo già di dieci mesi infante,
A quelle rozze fercole confiigge.
Che '1 bon pastore 1' aiTecò davante :
Quivi la fame e gran dolor se 'n fugge,
Cli' avea del suo perduto caro amante,
E benché stia sospesa, e in volto smoi'ta.
Pur tolta r esca, molto si conforta.
LII
Ma qui diverte e naiTa il gran dottore,
Sì come di Pavia re Desidero,
Udito d' arme in aere il gran rumore,
Perchè Agolante vien per tor lo impero
Di Europa a Carlo, e farsene signore,
Mandagli prestamente un messaggiero
Per farsegli compagno, e Italia poi
Soggiogar tutta a Longobardi soi.
LEI
E come qui Milone capitando
Trovò sotto Appenino entro le grotte
Un popol infinito, eh' aspettando
Dal ciel aiuto, s' erano ridotte
Per trarsi omai di sotto a quel nefando
Re Desiderio, e darli tante botte.
Che sia poi specchio agli altri oltramontani.
Che non s' impaccin mai con italiani (91).
Lrv
Quivi Milon, orando lungamente,
Trasseli for di tenebre alla luce :
La qual ben ordinata e bella gente
In un vallon de Iiisu})ria riconduce :
E come una cittade grossamente
Edificaro, e di Milon suo duce
Le diero il nome ; dopo il volgo insano
Non più Milon^ ma T appellor Milano,
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Orlandino — Capitolo 6 115
LV
Quel gran Mìlan, eh' ha tradimento e forza
Vien tolto spesso dalli tramontani
Al nosti'o italian signore Sforza,
Onde sempre con lor siamo alle mani,
Facendoli lasciar dieti-o la scorza.
Che poi mangiati son da' lupi e cani ;
E ben scriver si potè su le mura,
Italia barharorum sepultura,
LVI
Che veramente in quell' orribil giorno
Ch' in Giosaflfatto sonerà la tromba,
Facendosi sentire al mondo intorno,
E i morti saltaran for d' ogni tomba,
Non sarà pozzo, cacatoio, e forno.
Che mentre il tararan del ciel rimbomba.
Non gitti fora svizzeri, francesi,
Tedeschi, impani, e d' alti-i assai paesi.
Lvn
E vederassi una mirabil guerra,
Fra loro combattendo gli ossi soi :
Clii un braccio, chi una man, chi un pie afferra ;
Ma vien chi dice : questi non son toi,
Anzi son mei, non sono ; e su la terra
Molti di loro avi-an gambe de boi.
Teste di muli, e d' asini le schiene.
Siccome all' opre di ciascun conviene.
Lvm
Così col mio cervello assai lunatico.
Fantastico e bizzan-o sempre i' masino.
Confesso ben, eh' io son puro gramatico^
Che tant' è dire, quanto un ptiro asino ;
Assai miglior d' un puro mattematico.
Ma peluche i capuzzati non mi annasino,
Io credo in tutto il credo^ e se non vale,
Io credo ancor in quel di dottrinale.
I
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IOrlandinó
^^^^ ♦-
COMINCIA
IL SETTIMO CAPITOLO
Xja donna, che dal ciel trasse Y origine
Mi riconduce al passo convenevole
A qualunque si sferra di caligine
Per acquistarsi un stile più lodevole ;
Ma r abito maligno e la rubigine
D' un incesso balordo e strabocchevole,
Difficil mi rende, anzi contrarie
Le vie, che mai non seppe la barbarie.
n
Ed oggi pur a nosti-o vituperio
Passate son di ih le buone lettere,
Mercè eh' abbiam commesso un adulterio
Tal, che smarrite sono Y arti vetere.
Veggio fatto volgar fino al Salterio,
Cantando su pei banchi ne le cetere.
Ne passa per taverna, o per bottega
Che Plinio, od altro simil, non si lega.
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Orlandino — Capitolo 7 117
m
La fresca aui-ora più che mai leggiadra
Da r orizzonte ornai scotea le piume.
Sorge '1 pastore a beverar la squadra
Di sue care caprette al chiaro fiume ;
Poi leva gli occhi al cielo, e ben lo squadra,
Che schietto nascerà di febo il lume ;
Di che, tolto '1 bastone, s' assicura,
E for guida V armento alla pastura.
IV
Berta sola rimane alla capanna.
Ed anco dorme di stracchezza piena ;
Pur r alma entro '1 pensier tanto s' affanna.
Che non s' acqueta la sospesa lena ;
Onde nel moto d' una picciol canna
Ratto si sveglia, e sente al cor gran pena ;
Che 1 suo Milone a lato non ritrova,
E qui di pianto un fiume si rinnova.
Stavasi dunque tutta penserosa,
La guanza riposando su la destra:
Febo, che voi, possendo, d' ogni cosa
Rendersi certo, venne alla finestra ;
Quando la dongelletta paventosa
Del parto, su quel strato di ginestra.
Sentir comincia pene di tal sorte,
Che di men doglia crede esser la morte.
VI
Stride, con alta voce, rugge, e freme.
Torcendosi su V uno e V altro fianco :
Verun non è, che 'n quelle doglie estreme
Poscia, parlando, confortarla almanco :
Chiama Frosina, ed alti-e donne insieme.
Chiama Milone, ed il chiamar vien manco,
E solamente in quelle stalle immonde
Un parete di sassi le risponde.
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118 Orlandino — Capitolo 7
vn
Ragion è ben, che d' un tal ventre uscendo
Il fior del mondo, e 1' unica possanza,
Difficil parto sia, duro, ed orrendo,
E faticoso assai più de Y usanza :
Che se le gran prodezze sue comprendo.
Quale fu mai, ne mai sarà nomanza
Di forza immensa, d' animo prestante.
Simile a quella del signor d'Anglante?
vm
Qui nacque Orlando, l' inclito barone ;
Qui nacque Orlando, senator romano :
Qui nacque Orlando, forte campione ;
Qui nacque Orlando, grande capitano ;
Qui nacque Orlando, padre di ragione ;
Qui nacque Orlando, più d' ogni altro umano ;
Qui nacque il gran spavento e la mina
De' maganzesi, e gente saracina.
IX
Guardati Almonte, guardati Agolante,
Guardati Agricane, e re Gradasso ;
Guardatevi Lusbecco, e Durastante,
Troian, Ancroia, e tu crudel Garasso ;
Guardisi più degli altri ogni gigante ;
Ch' or nasce in sua ruina il gran fracasso :
Qual durezza di monte o fin azzale
Potrà star saldo al suo ferir mortale ?
Nasce dunque l'infante in quellp. grotta,
Senz' alcun testimonio de commadre ;
Ma cosa di stupor apparve allotta.
Poscia che spinto for 1' ebbe sua madre,
Ecco de lupi airivarvi una frotta,
Di quelle selve uscendo folte ed adre,
Ch' andavano d' intomo forte urlando^
Onde per nome poi fu detto Orlando.
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Orlandino — Capitolo 7 119
XI
Senti la terra \\n tanto nascimento,
Sentillo il mare, i fimni, i rivi, i fonti ;
Sentillo il ciel di sopra, fora, e drento ;
Sentillo poggi, piani, valli, e monti,
Grandine, pioggie, neve, ed ogni vento.
Città, castella, porti, valle, e ponti ;
Sentillo pesci, armenti, fiere, augelli,
E intomo a lui par sol, che ^1 sol s' abbelli.
xn
Dricciasi Berta con gran stento in piede.
Pensate, a qual pietà movea li sassi !
Leva '1 figliuol, d' inopia sol erede,
E portalo ad un fiume a lenti passi ;
Lavalo stessa, e su la ripa sede,
Scingalo prima, e da poi il fascia, e stassi
A contemplarlo sempre lagrimando,
E già '1 dolor del parto ha posto in bando.
xm
Basciando spesso, e non può saziarsi
Succiar le fronde, gli occhi, bocca, e mento,
Sentesi di dolcezza liquefarsi ;
Onde le par men aspro ogni tormento.
Poi riede alla capanna per corcarsi.
Che 'n starseli dritta non ha valimento,
Infin che '1 vecchio pegoraro tomi,
Ch' omai temp' è, che '1 caldo lo ritorni,
XIV
Eccolo giunto co le greggie innante,
Sovente dietro a quelle sibilando.
Va ne la tana con uman sembiante,
E vagir sente il pargoletto Orlando.
La donna con vergogna in un istante
Levatasi sul braccio, il come, il quando
Nacque '1 fanciullo mentre a lui racconta.
Per debolezza quasi vi tramonta.
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120 Oblaudino — Capitolo 7
XV
Lo provido vecchietto non risponde,
Ma col pie tosto, e con la fronte allegra
Le man corre a lavarsi alle fresch^ onde.
Poi chiama una capretta bianca e negra.
La qual presto lasciando V erbe e fi-onde,
Non fa di alzar la gamba al vecchio pegra.
Egli trasse di latte un suo vasetto,
Non stomacoso no, ma bianco e netto.
E mentre vi si anmioUa un mezzo pane,
Corre di tre galline al comun nido.
Un par di uova nate in quella mane.
Sul cener caldo pose in loco fido.
Poi toma al latte, e con sue voglie umane
Lo porge a Berta: ed ella, io mi confido,
Disse, nel ciel, o padre mio, eh' ancora
Verrk, che di ciò renda il cambio, oitu
xvn
Non sempre in me fortuna turberassi,
Non sempre, ispero, mi sarà matregna:
Che se a clemenzia i movo e fiere e sassi,
Via più eh' ella si pieghi, è cosa degna.
Così parlando di quel latte vassi
Nudrendo a poco a poco, e par si spegna
La fame insieme col dolor del parto,
n qual sopra ogni pena è acerbo ed arto.
xvm
Poi sorbe l'ova, ed acque dolce beve,
Di che ne prende molto di ristoro :
Così di giorno in giorno, e 1' aspro, e grave
Vassi diminuendo suo martoro.
E dal pastore tanto ben riceve.
Che reputa del mondo tutto V oro
Bastevole non esser, per il quale
SuppHr potesse im benefìcio tale.
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Orlandino — Cawtolo 7 181
XDL
Pigliava r arco suo mattina e sera,
Quel sovra tutti bono pecoraro,
E mentre di sue pecore la schiera
Iva pascendo in loco solitaro,
Cercava il monte, il bosco, e la riviera.
Seguendo gli augelletti ; e ben fu raro
Quel eh' addocchiato fosse e saettato,
Moi-to non riportasse il strai al prato.
XX
Con questi poi nudriva la dongella,
E di pastore fattp era già coco,
Infin che più che mai leggiadra e bella
Depose il volto macilente e fioco.
Ma r Orlandinp già corre e saltella,
Già, qual poliedro, vescit stare loco^
Scampasi da la madre omai slattato,
A quel pastor, più del suo armento grato.
XXI
Cavalca una cannuccia, e con la spada
Di legno tira dritti e man roversi ;
Sempre discorre questa e quella strada.
Ne sa d' alcun affanno mai dolersi ;
Convien che cada, surga, e poi ricada.
Che ti piede fermo anco non sa tenersi ;
Ond' ha sul volto, mentre in terra il smacca.
Chiara di uovo sempre, o qualche biacca.
xxn
Vive sett' anni, e dodici ne mostra,
Tanto compiuto va di forze e membra :
Gambe da salti, ed omeri da giostra,
Donde natura ad Ettore 1' assembra ;
Porta gran pesi, e 'n qualche muro giostra,
Urta, fracassa, rompe, quassa, e smembra:
Orsi, leom, tigri non paventa,
Ma contra loro intrepido s' avventa.
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ifSoogh
122' Orlandino — Capitolo 7
xxm
Folgori, venti, pioggie, caldo, e gelo
Non pon far sì, eh' egli di lor si cure ;
Dorme di notte sotto aperto cielo,
Non su le frondi, ma su pietre dure ;
Bruno, nervoso, e 'n capo ha riccio '1 pelo
Co' piedi e mani, ove convien, s'indui-e.
Per r andar scalzo, e maneggiar bastoni,
La carne in calli, e 'n scarpe de' pedoni.
XXIV
Due pelli di capretto av^nnculate
Per piedi, su le spalle ha per vestm-a.
Cogr altii pastorelli songli grate.
Lotte, bagordi, e giochi di ventura.
Autunno, primavera, inverno, estate.
Non mai di star agiato si procura.
S' ha fame, ciò eh' incontra, egli tracanna,
O sia ne' boschi, o sia nella capanna.
XXV
Ghiande, fraghe, castagne, cornie, e more.
Pomi selvaggi, e pere si manuca.
Non più vi guarda il meglio che '1 peggiore,
Non r acetosa piti de la lattuca :
Beve di fonte, o fenno o comdore.
Ne cessa ber per fango, ovver festuca ;
Ma s' anco con sua madre si ritrova,
Mangia butirro, pane, cacio, ed ova.
XXVI
Or Berta in questo tempo intende e spia,
Eainer esser di Sutri al reggimento ;
Cade in sospetto grande che non sia
Da lui scoperta, e fa comandamento
Al figlio che con lei queto sen stia,
Ma ben più tosto avria tenuto il vento
In un rete, che mai vietair ad Orlando,
Che non vada, o ritomi al s»o comando,
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Oblandino — Capitolo 7 123
xxvn
Usanza universale tra' citelli
Era di Sutri, come far si sole,
Con sassi guerreggiare, poscia eh' elli
Fusser asciolti da Y orribil scole.
Quelli con questi, e questi con tra quelli,
Ove 9 osciu'a a tante pietre il sole.
Clii rompe, chi Y ha rotta, o gamba, o testa,
E sempre più San Stefano tempesta.
xxvm
Quivi sovente il pover Orlandino
Mal in arnese trovasi fra loro ;
Dinnanzi li altri sempre il parvolino
Le pietre fa cantar nel ciel sonoro ;
Ed è cagion sol esso col polvino
Turbar le stelle, mentre di coloro
Parte sgomenta, rompe, caccia, e dalli,
Parte con gridi ai-guti dietro valli.
XXIX
E come awien al ti-oppo baldanzoso,
Rotta la testa spesso ne riporta ;
Ma non che per sì poco vien ritroso ;
Cacciasi avanti a sol compagni scorta,
E quanto più sia tocco, più sdegnoso,
Di pietre e sassi un turbine sopporta.
Sì che alla grotta toinfia poi la sera
Tutto dirotto, e Berta si dispera.
XXX
Spesso gli parla e dice : figliuol mio ;
Perchè ti fai così tutto pestare ?
Lascia le pietre, per Y amor di Dio,
C'he '1 viso tuo d' un diavolo mi pare.
Volete, madre mia, risponde, eh' io
Mi lasci da ciascuno ingiuriare ?
Figliolo di puttana ognun mi chiama,
Ed io sopporterò perder la fama?
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124 OfiLAKDiNo — Capitolo 7
XXXI
Se un tale oltraggio fare mi permetto,
Ch' altro nome guadagno che bastardo ? *
Ed io, madre mia cara, vi prometto
Voler mostrai', che non pur son gagliardo,
Ma son per cavar il cor dal petto
A chi del vostro onor non ha riguardo ;
E se mai torna il padre mio Milone,
Dirolli sul bel volto, eh' è un poltrone.
xxxn
Perchè su le taverne consumando
Va la sostanzia nostra, e non lavora,
E noi per queste selve abbandonando.
Il chiaro sangue nostro disonora.
Ma se mai grande i vegno sì, che '1 brando
Cinger mi poscia, voglio cacciar fora
Carlo del mondo, non che d' Anglià, e Franza,
E bever tuttto '1 sangue di Maganza.
xxxm
Si che lascia pur, madre, che 'n la guerra
Di pugna e sassi adoperar mi vaglia ;
Quanti n' abbraccio, gittoli per terra,
Non li valendo ne arte, ne scrimaglia.
Ciascun mi chiama Orlando forie-guerra^
Perchè non è eh' in gueiTCggiar m' avaglia ;
Sempre davanti gli altri salto e schivo
Duo mila sassi, e pur son anco vivo.
XXXIV
Poscia chi mi dà pane, e chi del vino.
Chi carne cotta, e chi bona minestra;
Talor è chi mi dà qualche soldino,
Altri die a far la pugna m' ammaestra,
Dicendo che pararmi col mancino
Braccio mi deggia, e dai- con la man destra,
Tal eh' ad ognuno vien di me paura,
Cosa eh' esser mi penso a gran ventura.
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Oelandino — Capitolo 7 125
XXXV
Cotanto ben sa V Orlandino dire,
Che di dolcezza Berta ride, e piagne ;
Lascialo dunque a suo diletto gire,
Ch' in farsi un valentuomo non sparagne.
Or qui Turpin si vien a divertire.
Narrando di Milon le forze magne.
Che Desiderio ^ànse con grand' arte,
Cacciando Longobardi d' ogni parte.
XXXVI
Poi scrive, come in Cipro giunto Amone
Con le reliquie sue di Chiaramonte,
Di Beatrice in mezzo d' un vallone
Rinaldo nacque, le cui prove conte
Che fece nella infanzia, sol espone
AUor che '1 figlio suo, d' Anglante il conte,
Ebbe condutto fin al mar Euxino
A star col suo diletto Rinaldino.
xxxvri
Ma nauti che i doi fanti assai cresciuti
Poscian trovarsi insieme in quelle bande,
Toma il dottore a scrivere gli arguti
Consigli d' Orlandino, e il senso gi-ande ;
Lo qual un giorno co' capelli irsuti,
E con la gonna che d' intorno spande
Ben mille strazze, mendicava in Sutri,
Tanto che se con la sua madre nutrì.
xxxvm
Ecco s' incontra in un bel giovinetto,
Figliuolo di Rainer, dettò Olivero,
Lo qual turbossi, ed ebbe a gran dispetto,
Ch' Orlando 1' occupasse in su '1 sentiero.
Alza la mano, e diedegli un buffetto
Su r occhio, che gli venne tutto nero ;
Ed in quel tempo ancora il suo ragazzo
Piantóni un grosso pugno sul mostazzo.
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12€ Orlandino — Capitolo 7
XXXIX
5l^ Allor Orlando quel dongello prese,
E sotto 1 })iedi tosto si lo caccia,
^ Ed ancor V altro afferra, e gifi lo stese
"^ L' un sopra 1' altro, e ammacca lor la faccia.
Corre la plebe tutta per diffese
ÌDel figlio del signore in una piaccia ;
Prest' Orlandino lascia lor in teiTa,
Corre a la grotta, e dentro vi si serra.
XL
¥'
1^^
\
Berta, che d' una lepre in foggia vive.
La qual sempre de' cani sente, o pare
Sentir le voci, e pensa ove lor schive,
E vede il leporin a se scampare.
La faccia di pallor tutta si scrive,
Gridando al figlio : chi ti fa trottare ?
Dimmi, cavai balzano : e donde fuggi ?
Perchè, figliuol sfrenato, mi distruggi ?
XLI
Qual occhio ò quello, e nmso, che riporti
Livido sì, elle panni un saraceno ?
Rispose Orlando : voi tu die sopporti
Le bastonate altrui ne pifi ne meno
S' im mastin fussi ? tanti e tanti toi-ti
Ognor fatti mi sono, e nondimeno
Soffersi lor, se non testò, e' ho franto
Lo figlio del signore tutto quanto.
XLH
Le botte mai non son per comportare ;
Delle parole pur me 'npasserei ;
Trovo distanzia assai dal dir al fare,
Non siamo ne anche turchi, ne giudei.
Sol gli asini si possono bastonare.
Se una tal bestia fossi, patirei ;
Ma son un uomo, ed uomo esser intendo ;
E chi dieci men dà, vinti ne rendo.
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Orlandino — Capitolo 7 127
xLni
Voi ne darete, chiama lo vangelo,
Cento per uno, e così far debV io :
E a chi mi rompe, o a chi mi torze un pelo,
Il collo torzo (92), a lui come voi Dio.
E se de le scritture, anzi del cielo, j
Si mette a interpretar il senso pio, j
Ogni frate scapocchia ed ignorante, |
Anch' io poterlo far, io son bastante. |
XLIV
Parla la madre : deh, figliuol, non sai
Che '1 pesce grande, mangia il pargoletto ?
Non gir in Sutri, che se n' anderai.
Ti piglieranno i zaffi (93), ti prometto ;
Mi piglieranno ? disse Orlanda : guai
A qualunque verammi a far dispetto ;
Che se d' un papa fusse ben bastardo,
Io gli farò parer il fuggir tardo.
XLV
Ma datti pace tu, perchè '1 demonio
Già non 6 brutto, come vien dipinto :
Non sol d' una prigion i son idonio
Romper le mura, ma d' un laberinto ;
Ecco su r occhio io porto il testimonio
Che '1 figlio del signor mi l'ebbe tinto
Col ponderoso pugno, e fu '1 primero
Che mi percosse, ed anco il suo scudero.
XLVI
Così r altra mattina Y animoso
Dongello dritto corre a la cittade :
Porta il bastone duro e groppoloso,
Col qual non fuggirebbe mille spade ;
Scorre e traversa senza gir nascoso
Di quk (Ji là, per tutte le conti-ade,
E chiama in alta voce : o gente bona,
Fatimi ben, se Dio non v' abbandona.
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128 Orlandino — Capitolo 7
XLvn
Io V addiniando, per Y amor di Dio,
Un pane solo ed un boccal di vino ;
Officio non tu mai più santo e pio,
Che se pascete il pò ver pellegi-ino ;
Se non me 'n date, vi prometto eh' io,
Quantunque sia di membra sì piccino ;
Ne prenderò da me senza riguardo ;
Che salsa non vogF io di san Bernardo.
xLvni
Cancar vi mangia, datemi a mangiare,
Se non, vi butterò le porte giuso ;
Per debolezza sentomi mancare
E le budelle vannomi a riffuso.
Gente devota, e. voi persone care
Che vi leccate di bon rosto il muso.
Mandatimi, per Dio, qualclie minestra,
0 mi la trati giù da la finestra.
xux
Così gridava il pover Orlandino,
Ed or li prega, ed or più li minaccia :
Ecco gli passa innanzi un fra stoppino,
Ch' avea di pane un sacco, e con la mazza
Chiocca nel uscio a questo e quel vicino,
Ch' anco ne voi de 1' altro e più n' abbrazza
Ch' egli portar non può, coni' è 1' usanza
Di chi non san empirsi mai la panza.
Orlando se gli accosta col bastone,
E dice : o fra Sguarnazza, dammi un pane :
Questo ti vo' pregar per il cordone.
Per le gallozze, e le brettine lane (94) :
So che r aspetto tuo d' un bel poltrone.
Più presto lo darebbe a qualche cane ;
Pur fa, come ti par, eh' in ogni modo
Già di volerlo qui, piantato ho il chiodo.
1
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t
/
Orlandino — Capitolo 7 129
U
O Gesù Cristo, disse, suspirando
Quel frate allor, e via se 'n va di trotto ;
Ma più d' un gatto presto il zaffa Orlando
Per la gonella, e fel mostrar di sotto ;
Che del suo general conti-a '1 comando,
La sacca non avea del barilotto ;
Si ben quella del pane in colmo piena,
Talmente eh' egli move il passo appena.
LH
Sta saldo, disse Orlando ; perchè fuggi ?
Mi fa di te pietà, che sei sì carco :
Ola, fermati fi-ate ; che ti struggi
Peggio d' un asinelio sotto '1 carco.
A cui dico, poltron ? se non f indaggi.
Per Dio, ti mosti'erò, eh' io non son parco
Di bastonate, come tu di pane,
Lo qua! tu sei per dare alle puttane.
LEI
E dett/> ciò, come sboccato alquanto.
Che putti e polli imbrattano la casa,
Scote la polve col baston del manto,
Ch' omai poco di quella vi è rimasa :
Perse la pazienza il padre santo
Che '1 braccio d' Orlandino gusta e annasa
Esser non di fanciullo ma di Ettorre,
Le sacche getta in terra e via sen corre.
LIV
Chi cerca V orbo ? disse allor Orlando,
E preso il pane fugge vittorioso ;
Mai . non si guarda in drieto, ma scampando
Va .più che può di qua, di là nascoso.
Al tììn giunse alla grotta, e Berta quando
Lo yide con quel carco ponderoso,
Priuia si dolse pel sudor del figlio ;
Poi Visto il pane vi mutò consiglio.,
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130 Orlandino — Capitolo 7
LV
Or mangia, madre mia, gagliardamente ;
Panerà doloris qni t' arreco innanti ;
E detto ciò, se 'n leva nn grosso al dente,
E dopo quello, cinque n' ebbe franti.
Berta se 'n ride solacievolmente
Dicendo : figliuol mio, saran bastanti
Cotesti pani per un mese intero.
Voglio mandarne parte al monastero.^
LVI
Verran si duri e sodi, che speciai-li
Mistier farà T incude col martello :
Più tosto, parla Orlando, vo' eh' i tarli
Lo rodino, che darne un bocconcello
A frate alcuno : fa che non mi parli
Di questo, madre, piti ; eh' a 1 bel bordello
Ti caciarei, mi vegna la giandussa :
Pasto de' frati è fava con la gussa,
Lvn
Anzi farai tu meglio star luntana,
Se non ti curi crescer in famiglia ;
E se vengon trovarti ne la tana,
La stanga, che sta dieti-o all' uscio, piglia,
E su le schiene assettagli la lana,
Fa ciò che '1 tuo figliuolo ti consiglia ;
E se ti voglion predicar la fede.
Dilli che '1 laico più del frate crede.
Lvni
i
Così parlando, il suo baston resumé,
E coiTe alla cittade apertamente :
Ecco li zaffi, com' è '1 suo costume,
In fi-etta 1' han pigliato immantinente ;
Tutto legato stretto in un volume
Portano lui di peso leggermente.
Lo qual si scote per spezzar le corde,
E a chi '1 porta, spesso il collo morde.
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G
Oblandino — Capitolo 7 131
LIX
Or finalmente Y han condotto innanze
Al padre d' Olivier, signor del loco ;
E questo, disse, quel e' Jia tante sanze (95),
E teme il mio valore così poco ?
Or si comprenda, che le sue possanze
Son come neve al sole, e cera al foco,
Ponetilo giti in terra : dimmi, frasca,
Non sai ch'ai fin la volpe in laccio casca?
LX
La forca fugge, e tu li corri drieto,
Giotto, (96) cavestro, e ladroncel che sei :
Ancora non sei lungo com' ho '1 deto (97),
E for del ciel ti credi ti-ar i dei ?
Presontuoso, ed animale inqueto.
Che, a far bona giustizia, ti dovrei
Dar mille sta,ffilate a più non posso.
Che '1 cui di sangue avessi negro e rosso.
LXI
Rispose Orlando : perch' io son legato,
Tu mi chiami cavestro e ladroncello ?
Se delle braccia i' fussi liberato.
Ti mosti^erei, che sei di me più fello.
Io son d' italiano sangue nato,
E la mia casa Chiaramonte appello.
Mio padre vive ancor, ed è Milone,
Centra ragion bandito da Carlone.
Lxn
Però tu parli come poco saggio ;
Ne sai, chi parla troppo, se ne pente ;
Tu pensi ad un furfante dir oltraggio,
E pur lo dici a Orlando qui presente :
Forse non sempre avrai questo vantaggio,
Se '1 torto che mi fai, mio padre sente.
Guardati innanzi, e lasciami eh' io vada.
Che forse avrai barbier eh' al fin ti nida.
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132 Orlandino — Capitolo 7
Lxm
S' ho rotto ad Olivier tiio figlio il naso.
Esso in' ha rotto prima V occhio e '1 muso.
Se Nicolao Delirans (98) e Tommaso
Scendesser con soi libri dal ciel giuso,
A darmi torto in questo nostro caso,
Io gli direi, che la canocchia e il fuso
Sarebbe meglio stata ne lor mani,
Che diffinir di Dio li sensi arcani.
LXIV
Levatimi da torno queste corde,
Se non le romperò sol in un scosso ;
Ne aver al detto mio Y orecchie sorde.
Perchè ti veggio la ruina addosso,
Dico Milon, che 1 deto già si morde
Per franger il tuo corpo d' osso in osso,
E darte a' cani te con la tua schiatta,
Fin che su la radice sia disfatta.
LXV
Quando Rainer intende d' un infante
Minacce che porrian spavento in cielo,
E che si vede un Miloncin avante,
Che ben lo rassomiglia al occhio, al pelo,
Cangiossi tutto quanto nel sembiante.
Ne potè far che d' amichevol zelo
Compunto non piangesse il caro amico,
Vedendo il figlio suo fatto mendico.
LXVI
Presto che sia slegato, fa comando.
Ed ubbedito in un istante venne.
Un capriolo parve allora Orlando,
Che sciolto già, in quel loco non si tenne.
Ma per le scale giù corre saltando,
S' avesse agli alti balzi intorno penne.
Mille cittelli vannogli da tergo.
Gridando sempre fin al proprio albergo.
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Orlandino — Capitolo 7 133
Lxvn
Ove '1 cortese damigello, in vece
Di bou ministro de la madre chiesa,
Del pane tolto al frate dianzi fece
Prudentemente una pietosa impresa ;
Dando '1 a que' cittelli. Più mi lece,
Dicea, porger a questi la diffesa
Conti-a r orribil fame, che' dar pasto
Ai musici d' Arcadia sotto '1 basto.
Lxvm
Or su non più ; che d' ignoranzia un vaso
Farmi bandir dal ciel par si premetta;
E perchè di cervello non men raso
Lo veggio che di testa, in mia vendetta.
Voglio tacer, che non mi dia del naso
Là dove spesso mi forbisce e netta,
Liber novarum legum qibem de fceno
Quidam composuerunt, ventre pieno.
Lxrx
Lasciarlo dunque star in sua malora
Che non urtasse al scoglio d' una gobba,
Grobba che al vaso eguale di Pandora,
Contien di morbi un infinita robba:
Meglio sarà, che Tunica signora
Mia Caritunga, zoppa, sguerza, e gobba.
Si alzi la gonna, e mostri a lui 1' eclipsi.
Scrivendo per le vie : quod scripsi^ scripsi.
LXX
Scripsi scribenda^ e scriver anco voglio
Finché Grifalco non verrammi stanco ;
Ruppi mio legno in fortunato scogUo ;
Che più di solcar onde omai son franco ;
E se r inchiostro, la lucerna, il foglio,
E r Orsattino mio non fiami manco (96),
Anzi se morte non mi chiude il passo,
Spero di lui dirà Cirra e Parnasso.
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ìOrlandino
COMINCIA
L' OTTAVO CAPITOLO
JLi ISTORIA del beato Grriffarosto (99)
Che per domenticanza ne la penna
Rimasta mi era, or la mia musa tosto
Di lui cantando, carca su Y antenna ;
Musa che accortamente dal proposto
Cadendo, mentre dir Orlando accenna,
Un vento par che dal cuUno vaso
Minaccia le calcagna, e dà nel naso.
n
E così advenerammi finalmente
Quello che ad un pittor di villa occorre,
Ch' un santo Giorgio ai-mato col serpente
Fingendo, voi sembrarlo al fort' Ettorre :
Al fin si scopre un mastro cavadente,
Che tutte le città pel mondo scorre
S' una mulazza vecchia con le cure
Da guarir piaghe, e mille altre rotture.
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Orlandino — Capitolo 8 135
m
Io dunque d' Orlandino canto poco,
E molto piango de V aitar di Cristo ;
Io fingeiini pitocco movo a gioco,
E del fallir de' chierici m' attristo ;
Di for Cerere e Bacco, dentro invoco
Lo mio Gesù, che faccia omai sia visto
Sott' ombra spesso del nobil vangelo
Eegnar Satan d' un Cherubin col pelo.
IV
Fu in Sutri un gran prelato molto grosso,
0 fusse abbate, o qualche altro vicaro :
Cascavali la panza fin da basso,
( h' un porco tal non vide mai Gennaro ;
Per non sleguarsi andava passo passo
Alla taverna spesso, al tempio raro ;
E questo gli accadeva, perchè sempre
Jejwnium prcedicabat pieno ventre.
Rassimigliava propriamente un bove
Che tolto da V aratro, e in stalla chiuso,
Convien eh' ivi s' ingrasse, e si rinnove.
Per uscir poscia d' un in T altro buso ;
Tu '1 vedi, che a fatica il passo move.
Cascandogli 1 mentozzo in teira giuso.
Quando vien tratto al banco del beccaio,
Venduto a quattro libbre per denaio.
VI
Ma quel poltrone manco assai valea
D' un bove, onde guadagnasi la pelle.
Quando a scarcar il ventre si sedea,
Sentivasi tonar le sue budelle
Con quella tempesta che vide Enea
Portato su da lei fin alle stelle ;
E se ambracane e muschio fusse stato.
Oh d' ambracane e muschio gran mercato !
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196 Orw-ndino — Capitolo 8
vn
Mille ducati avea costui d' entrata,
Ch' andavan tutti diìeto per 1' uscita,
Dico nel cacatoio, perchè grata
Fu sempre a lui di crapular la vita.
Carne di porco, e caole con V agliata.
Trippe, pancette, e broda ben condita
Di sale e specie, d' intestine, e lardo,
Eran il suo devoto san Bernardo.
vm
Non così tosto qualche bon boccone
In piazza conipai-ia di pesce, o carne.
Che 1 padre santo, in guisa di falcone.
Lo qual giù a piombo vien, viste le stame,
Davagli d' onge tal, che le persone
Di Sutri non potean oncia mangiarne,
Mercè che '1 Griffo tutti li rapia
Sì ratto, come il ciel rapitte Elia,
IX
Cingevasi di sotto al scapularo,
Ne senza questo può salvarsi un frate,
Una gaioflfa, (100) e di braghesse un paro,
Che sempre fumo il suo fidel Acate.
Ne mai gli calse d' altro secretaro,
In cui le cose sue fosser corcate,
Non dico breviari, non messaU,
Nec librum de peccato oinginalL
Ma sempre o qualche lonza, o scannatura,
O lombo, o testa, o petto di vitello ;
Poi d' altre mille cose di mistura
In quel suo gran tascone fea rastello.
Uova, butirro, lardo, e di verdui-a
Lattuche, biete, caole, petrosello ;
E così carco di tal libraria,
Dicea non esser altra teologia.
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«FT-
Orlandino — Capitolo 8 137
XI
Era bon mastro in arte coquinaria^
Avendo in questo un' ampia biblioteca ;
Di varie lingue multa commentarla.
Non r ai'abesca, ebraica, non la greca,
Non la toscana dico temeraria,
Che a grande sua superbia oggi s' arreca
Eguarsi (101) alla romana, e tanto sale
Che assai Francesco più che Tullio vale.
xn
Ma r arciprete santo avea di lingue
Sempre di porco e manzo grande copia ;
E benché il lungo studio, il qual estingue
Lo ber color, e fa di sangue inopia,
L' avea condotto a tal eh' un ciatto (102) pingue
Parea, quando di ghiande pieno scopia,
Pur sempre conservossi, ogni mattina
Pigliando un buon cappon per medicina,
xm
Or dunque Orlando un giorno per ventura
Comprar lo vede in piazza un sturione,
Intorno a cui de gente gran strettura
Vi era per tome ognun qualche boccone ;
Ma il padre santo a quella criatura
Ch' ancor viveva, ebbe compassione
Di non veder smembrarla, e così integro
Comprandolo, si parte molto allegro.
XIV
Cacciato se Y avea ne la bisacca,
Ove mill' altre cose occulte stanno ;
Vagli Orlandino drieto con la sacca
Da bono e vigilante saccomanno ;
Che per nudrir sua madre non si stracca
Far ogni giorno a qualche ricco danno ;
Piglialo ascosamente nella toga.
Siate voi, dice, Y Arcisinagoga ?
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138 Orlandino — Capitolo 8
XV
La reverenzia vostra non si parta ;
Statemi alquanto, prego ad ascoltare.
Nimis sollicita es^ o Marta^ Marta,
Circa svhstantiam Christi devorare.
Dammi, poltron, quel pesce, eh' io '1 disquarta
Per poterlo in communi dispensare,
Nassa d' anguille che tu sei, lurcone ;
E ciò dicendo, dalli col bastone.
XVI
Non ti vergogni, sacco di letame,
Mangiar sol tu quel eh' ad un popol tocca !
Non sei tu causa della nostra fame,
Che tutto '1 mare va per la tua bocca?
E pur d' un scappuccin sotto '1 velame
Tu cerchi fra la gente vii e sciocca
Mostrarti santo, e dir quod in tonsura
Salvatur tandem omnis creatura.
xvn
Ed io t' annuncio, quod tonsura molti
Ha ricondutto al lazzo della gola.
Perchè tondar dinari son accolti
Sotten-a de' ladroni in qualche scola ;
Porcazzo che tu sei, e' hai quattro volti,
E il lardo giù dal culo sì ti scola,
Or come soffri poi di cai'ne il moto.
Tu che di castitade hai fatto voto ?
xvm
Lascia quell' infelice creatura,
C hai presa per vorarla in un boccone ;
Dimmi, li santi padri tal pastura
Mangiaron forse ? o fecer con ragione
Quel si ricerca al manto, alla tonsura,
Al fiocco, al scapolare, ed al cordone ?
Falliron elli mai lo estemo manto
Col viver parassito, e finger santo ?
In Digitized by CiOOQie
Orlandino — Capitolo 8 139
XIX
Cotai parole usava un dongelletto
Centra un prelato grave, ed attempato ;
E gik sì pel nibor, si perchè astretto
Era di comprar legna a bon mercato,
Lasciagli la gaioffa, e dal cospetto
Del volgo ch^ ivi corre, si è celato :
Prende Orlandin quel breviario, e scampa.
Che altro non fu giammai di miglior stampa.
XX
Vola per la città la fama, il grido,
Che r arciprete ha perso V instituta
Con altri libri posti in loco fido
D' un suo camero, andando ad un' arguta
Disputa fatta in capite^ divido
Sanguinem Christi^ dove si confuta
L' error de' Stoici, e provasi Epicuro
Esser in domo Dei via più sicuro.
XXI
Rainer similmente, che signore
Stava della cittade al reggimento,
Ode che '1 venerabil monsignore
Di mal di gola perso avea 1' unguento ;
Poi de la vita lui tutto '1 tenore
Tiengli narrato, ed ebbene tormento ;
Perchè di Cristo il patrimonio vede
Sovente in man di eh' oncia in Dio non crede.
xxn
r non mi meraviglio, disse allora,
Se scandalo i)atiscono gli agnelli,
E se vanno le gregge alla malora
Sotto alcun lupi, di pietà rubelli ;
Ma vogliovi provveder ora ora ;
Tosto, che quel priore qui s' appelli.
Al cui fiero precetto il cavaliere,
Con la sbirraglia corse al monastero.
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140 Orlandino — Capitolo 8
xxm
Tranno quel mostro oiTendo for di tana,
E r han condotto di Rainer al seggio ;
CoiTesi per mirar la bestia strana,
Cui di grossezza un bue non ha pareggio :
Ciascun si stoppa il naso alla profana
Puzza di vino, di sudore, e peggio ;
Chi 1 chiama porco, chi Sileno, e Bacco,
Chi bottaglion, chi di letame un sacco.
XXIV
Trativi avanti, disse a lui Rainero,
Uomo di Dio, santissimo profeta:
Del spirto divin ogni mistero
So che intendeti, e di ciascun pianeta.
La libei-tade ancor, eh' ebbe san Fiero,
Libertà grande, ma poca moneta ;
Trativi, dico, innanzi, padre santo,
Che d' un mio caso ho da parlarvi alquanto.
XXV
So che sapete ancora, quanta tripa
Richiede il vostro armario di brotagUe,
Ove più carne e pesce si discipa,
Che non han frondi tutte le boscaglie :
Ne tanta rena in lido al mar si stipa.
Quanto voi consumate tordi o quaglie ;
Però vi onoro qui ne piti ne meno
D' un animai d' urina e fezza pieno.
XXVI
Non hai tu, tripponazzo alcun rubore
Scoprirti agli occhi mai d' uomo vivente ?
Parti, eh' eletto sei d' esser pastore
De la greggia di Cristo per niente ?
Peggio di te mai Giuda il traditore
Non fé, vendendo il mastro suo clemente ;
Ne Caifa, ne Anna, ne Pilato, Erode ;
Che per te Pluto di tanf alme gode.
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Orlandino — Capitolo 8
141
xxvn
Parti che ei Benedetti, Antoni, e Favoli
Dieder cotali avisi ai soi soggetti ?
Mangiavan cardi, fabe, lente, e cavoli
Per darli assai più esempi che precetti,
Acciò schivar sapesser de' diavoli
Le frode tante, e riti maledetti :
Donnivan su T ai-ena, e freddi marmi.
Cantando giorno e notte i santi carmi.
xxvm
Stavan occulti ne' lor chiostri e queti,
For de le piazze, e dal volgo luntani ;
Benigni a' viandanti e mansueti.
Lavando i piedi lor, non che le mani ;
E quando uscir volean de' spi pareti
Per gir altrove per montagne, o piani.
Un bastoncello, o sia cavai di legno.
Era de la vecchiezza lor sostegno,
XXIX
Ma quelle sue radici, e succo d' erbe,
Son oggidì cangiati in tordi e stame ;
E le lor giande, more, e fraghe acerbe
Son ora per miracol fatte carne ;
E le paglie de' letti già in superbe
Colti-ine e piume ; e quelle facce scarne
Pigliato han volti grassi di tre gole.
Col color stesso, quando spunta il sole.
XXX
Lor verghe e bastoncelli per miracoli
Di santi d' oggi, sono be' destrieri ;
Le celle di cannuzze e gli cenacoli
Pigliato han forma de' palazzi alteri ;
E molte oggi badìe son recettacoli
Di lorde putte, cani, e sparavieri.
O stolti, pazzi, sciocchi, e forsennati,
Che '1 vostro aver lasciati a' preti, o frati.
lo
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142 Orlandino — Capitolo 8
XXXI
Qual' impietade usar si può maggiore,
Glie t^)r a' soi la facultà, i)er darla
A chi con le campane fan rumore
Di notte, e poscia in chiesa im solo parla?
Dico quelli che povertà di fore
Mostran al volgo, e tendon a lodarla,
Per adescar sott' oml^ra del capuzzo
La scardovella e guadagnar il luzzo.
XXXII
Queste parole ed altre colme d' ira,
Dicea Rainero contra ogni ragione ;
Perche (qualunque nel parlar s' adira,
Convien che '1 sentimento Y abbandono :
Ma spesso accade, eh' un signor delira,
Parlando de la chiesa a passione.
Parendo lor, e pur han torto grande,
Pasto de' frati esser le fave o giande.
xxxm
Eispose allor 1' abbate : alto signore,
Con sopportazion vi parlo schietto ;
Ecclesia dei non facit mai errore.
Non so, se' in Tullio voi l'avete letto.
Ed Aristotel, eh' è connnentatore
Oggi al vangeh) sol, dice hi effetto:
Qziod merum laictts non det judicare,
Clericam preti et fratris scapulare.
XXXIV
Ed una chiosa canta, quod prelatum
Non est sithjectus ler/i Constantina
Affirmans eo qrtod mdlum peccatuia
Accidit in persona et re divina.
Et hoc deinceps fuit rohoratnm
In capite : Ne agi-o a. C/evientina,
Et jyrincepsy qui de ecclesia se impazzabit,
Scomunicatus cito pvhlicahit
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Orlandino — Capitolo 8 143
XXXV
Ed anco Thomas dice alla seconda
Distinzione, capitolo Quo di sopra,
Qitod unde spirtus sanctus si profonda
Possibile non est^ che mal si scopra.
Per me, signor non voglio che s asconda
Il viver mio in visti, verho^ et opra^
Quando che '1 salvatore ci ammaestra,
Pai-landò a tutti, luceat lux vestra.
XXXVI
Mirate com' io porto la camisa
Di lana su la carne, e non di tela ;
Cotal cilicio solamente avisa,
S' io vada con mirabile cautela :
Mirate ancor piìi «otto. Allor la risa
Prese Rainer ; che 1 padre gli revela
Le cose sue, cribrando la scrittura
Meglio del cardinal Bonaventura.
xxxvn
Rompelo al mezzo del sermone, e dice
Vos estis docius più che non credea ;
Però cesso in cusarvi ; che non lice
Parlar de' santi a chi è de gente rea.
Oh dunque sotto 1 ciel sorte felice
Di voi prelati, qui sub diva a.'itrea
Pitniri non potestis d' alcun male ;
Che '1 mal e ben, in voi è ben eguale. ■
xxxvni
Ma perchè sete un spirito de vino,
Qual più non ebbe, o voglio dir, Platone,
Cerco saper da voi, quant' è vicino
Il ciel da terra in ogni regione.
Dico r empireo sopra 1 cristallino,
Vostra excellenzia intenda il mio sennone :
Oltra di questo, dite giustamente.
Quanto è dal Oriente al Occidente.
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144 Orlandino — Capitolo 8
xxxrx
Due cose giunte a queste, intender anco
Desidero, monsignore Griflfàrosto :
Dice, piacendo a voi, ne più ne manco :
Quante son gozze d' acqua, e' ha 1' angosto
Mar Adriano insin al lido fi-anco,
Pigliando il greco col Tirreno accosto.
Ultimamente, bon servo di Dio,
Vorrei saper, qual or è il pensier mio.
XL
E se di queste quattro dubitanze
Mi soglierete presto giustamente,
Vinti scodelle di busecche e panze
Giuro farvi mangiar incontinente.
Ma se con sillogismi ed altre zanze
Sofisticar vorrete la mia mente.
Ne rendeiini ragion che sia probabile.
Vi trattai'ò da un asin venerabile.
XLI
Tornate al monastero ; eh' io v' assegno,
Tutta la notte, il giorno a su pensai-vi ;
Assottigliate bene il vostro ingegno,
Se '1 vi cale di trippe caricarvi :
E non urtar le spalle in qualchéNegno,
Che faccia la pugnata smenticai-vi ;
Oltre di ciò, se non la indovinate,
Voi non sarete più messer lo abbate.
XLII
Trasse un sospiro tale monsignore,
Cli' una correggia si allentò per caso
D' un cotal bombo, d' un cotal odore,
Ch' altri r orecchia, alti-i s' ottura il naso.
Partesi di vergogna con dolore
Pensando pur, se in Scotto o san Tommaso
Lo coco suo trovar sapesse forse
Quattro dimande stranamente occorse.
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Gòo^fe
ì
Orlandino — Capitolo 8 146
i
XLm
Nave non stette mai sì sopra porto,
Come correa costui sovi'a pensiero ;
E sei si vide mai volar un morto,
Vedesi allor, benché fusse leggiero
Ben trenta pesi, e men lungo che corto,
Finché perveime al quondam monastero.
Entro del qual par anco si discema,
FuUse chwjsirum quod nunc est tabema.
xuv
Aveva dunque un coco non men grasso
Di se, che tutto quanto 1' assembrava ;
Trovalo eh' in coquina un gran conquasso
Facea, mentre Y agliata vi pestava ;
Ed un gobbetto ancor sedeva basso
Ch' in speto un mezzo porco rivoltava ;
Quando 1 coco venir appresso il vede,
Non creder eh' onorarlo surga in piede.
XLV
Ma gli comanda, che 1 scolato lardo
Tenda buttar sovente su lo rosto ;
Ma quello che nel core porta il dardo,
Al coco audace nulla ebbe risposto ;
Ma solamente diede un schivo sguardo
Alle pignatte, e via si tolse tosto,
Entrando in un suo studio e fido loco.
Dove seguillo prestamente il coco.
•
XLVI
Ne Cosmo, ne Lorenzo Fiorentino
De* Medici mai fece libraria
\ Simil a questa, ove '1 spirito de vino
Tenea libri assai di teologia.
Pendon al lato destro ed al mancino
aso j Di gl'eco, corso, e varia malvavsia,
; Barili, fiaschi, ed altri vasi assai,
Che in cotai libri studia sempre mai.
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146 Orlandino — Capitolo 8
V
XLvn
Lucaiiicbe, salcizze, e mortadelle,
Prosciutti, lingue, e libri di più sorte,
Bronzi, pignatte, speti con padelle,
Carneri, sacchi, ceste, conche, sporte.
Piatti, catini, e milF altre novelle,
»* Per ordine qui tengon la sua corte,
\^ Fra' quali sempre studia, e star gli giova ;
M; Ch' altro diletto, ch^ imparar, non trova.
>
:' XLVm
J ' ^ Or quivi giunto, ad un aitar secreto
Devotamente piega lo ginocchio ;
E con caldi sospiri avanti e dreto
Quinci le braghe, quindi exala Y occhio.
Un bacco grasso, rubicondo, e lieto,
f he giace sopra un strato di fenocchio,
E d' un bottazzo fassi cavezzale.
Era di santi soi lo principale.
XLIV
Ne altra Pietade, ne altro Crucifìsso
Tien su 1' altare a far orazione ;
Bacco sol è, eh' ad un parete fisso
Doi cherubini aiTCcasi al gallone,
Cioè '1 boccal dal vino, e quel dal pisso
Che quando V uno piglia, V altro pone ;
E così tutta notte il padre santo
Ne orina un fiasco, e beve 'n altro tanto.
Entrando il coco, a lui disse : volete
Cenar, o monsignor V che '1 rosto è cotto :
Ma voi, s' io ben contemplo il volto, sete
Sopra voi stesso, e d' animo con-otto.
Forse, patron, vi stimula la sete ?
Pigliate un poco questo barilotto ;
E ciò parlando^ spiccalo dal muro,
Ch' era d' un tribiano antico e puro.
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Orlandino — Capitolo 8 147
LI
Prendalo monsignore, e tienlo fermo,
Levandolo con ambe mani a Bacco :
Pater, dicea, se non si pò far schermo
Di porre il santo calice nel sacco.
Ecco la gola pronta, il spirto infermo ;
Se tal è '1 tuo voler, de lui m' attacco :
E poscia eh' ebbe orato con tremore.
Bevendo si cangiò tutto in sudore.
LH
Or egli dunque confortato alquanto,
S' asside a ragionar ; che ^1 becco è mollo :
Marcolfo, mi dicea, non fu mai santo
Pii\ martire di me, ne piti satollo
Di tante pene, aftanni, e lungo pianto.
Di rumper mi bisogna pm* il collo.
Se tu, mio bene solo, e mio solaccio
Non t' assottigli a trarmi for d' impaccio.
Lm
Mi tengo avei' già perso la Badia,
Perchè la forza incaga a la ragione ;
E sempre usanza fu di tnannia
Cercar or quella, or questa occasione
Di tanto far, che suo quel d' altri sia.
Senza eh' abbiasi a noi compassione,
A noi servi di Dio ; però ti prego,
Aiutami, che sol a te mi piego.
LIV
E qui narrogli angosciosamente
Le quattro intricatissime dimande ;
Rispondegli Marcolfo : veramente
Dubito, monsignor, che le vivando
Nostre sol per invidia de la gente
Al fin retorneranno fabe e giande ;
0 magnvm tihi et diincm infortunium^
Qui quidem nunquam noveris jejunium !
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148 Orlandino — Capitolo, 8
LV
Oimè, disse T priore, tu m' uccidi
Membrandomi ciò, e' ho sempre temuto :
Tutti son lazzi, (101) e par che ti diffidi,
Marcolfo mio, prestanui qualche aiuto ;
Trammi di man di questi abbaticidi.
Tiranni maledetti, e fammi scuto
Contra lor fame, e' han de' miei denari,
Che perderemo, se non li repari.
LVI
Lasciate a me tal cura, disse il coco,
Ch' io voglio far un scorno a quel Rainero ;
E condurrò le fraude a cotal gioco.
Che '1 storion ritornerà al camero.
Non voglio dimorar piti in questo loco,
Or or mi parto for del monastero ;
Statene allegro, e non vi date pena,
Gabrino gobbo vi dark da cena.
Lvn
Partesi dunque mentie che V abbate
Parecchiasi le bolge per empire ;
E mentre si ritrova in libertate,
Subitamente contesi guarnire
Le vestimenta dal pati'on usate ;
Poi cautamente s' ebbe a dipai-tire ;
Lo qual sì ben ne' gesti V imitava,
Ch' ognun per monsignor V appellava.
Lvni
Fra tanto V arciprete non vaneggia,
Anzi pur senza affanno sede a cena ;
Allentasi dai fianchi la coreggia ;
Che r epa voi sentirsi colma e piena.
Un grande ai-mento e smisurata greggia
Empisse a Y anno un cotal orco a pena ;
E le più volte, per star sano, mentre
Divora sin a 1' ossa, scarca il ventre.
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Orlandino — Capitolo 8 149
il
1.^
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LIX ' 'M
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Lo gobbo se gli arreca un' ampia supa
Di brodo grasso, latesini, e panze ;
Or quivi tutto il mercator si occupa
Empir del magazzen tutte le stanze ;
Ne attende ad altro la discreta lupa, j j
Se non che al servi tor niente avanze.
Omnia traham post wie, dice '1 vangelo, J?
Sempre servoUo in questo sin un pelo. ■ ^f i
Lx li;
' ''..*
Eira già il coco giunto al gran palazzo, fu
E di parlai- col signor dimanda. jt
Incontinente scendegli un ragazzo, 'i| :
Che r introduce ratto in quella banda, ;;j -
Ove dovea cavarsi for d' impazzo Jj
D'è la diversa ed ardua dimanda. /l
Quivi trova Rainer con molta gente, ; I
Che a man il prese molto allegramente. : J
LXI
Avete, disse, monsignor mio bono.
Pensato ben su le richieste nostre ?
Pensai, rispose il coco ; e quivi sono
Venuto, acciò eh' al popol si mostre
Ch' io mei-to esser ornato d' altro dono,
Che trangiotir quelle busecclie vostre,
f Le quali oggi voi laici giudicate
Esser il studio d' ogni prete, e frate.
Lxn
E pur, se non in tutto, in parte almanco.
Signor mio saggio, v' ingannate certo ;
Perchè voi sempre il negro dite bianco,
E il bianco esser il negro ab inexperto ;
Non date orecchia, prego, al volgo manco
I)' ogni giudicio ruinoso, incerto :
Or che farebbe, s' intendesse poi
Esser in stalla più asini che boi?
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150
Orlandino ^ — Capitolo 8
Lxm
Ma per non vi parer un temerario,
Volendo qui lodar il stato nostro,
Che benché morti sian Paolo e Macario,
Pur anco stan depinti intomo il chiostro,
Mi volgo ad altro dir ; che necessario
Mi veggio più circa V enigma vostro,
Che se ne Sfinge, o Edipo, toma in terra,
Possia morir, se dramma lo dissen-a.
LXIV
Oggi voi mi faceste il primo assalto,
Ch' io narri quanto '1 ciel da terra dista,
Presto rispondo, che gli è sol un salto.
Provando 1 senza il probo del scotista :
Lo diavolo cascando giJi giù d' alto,
Quando privoUo Di?Kde l'alma vistai.
Senza di tanti astrologhi^ la cura,
Vi tolse giustamente la ntisura.
LXV
opsta
•o.
poi
sta
Meravigliossi al ottima rii
D'un capo di lasagne il prò Ra'S
Alla seconda, disse, senza sosta; ,
Che perder la Badia qui fa mistero.
Risponde il coco: e questa anco ri
Tenemo e risoluta nel cantero ;
Perchè dal Oriente al Occidente
Una giornata fa, se '1 sol non mente
LXVI
Quanto alla terza ambigua dimanda,
Ch'è di saper quaiit' acque sian in mare,
Rispondo, che se ai fiumi si comanda,
Con lui non debban V onde sue meschiare.
Voglio ch'in polve il corpo mio si spanda
Se, quante gozze son, non so contare;
Perchè come potrei torvi misura,
Senza levai- de' fiumi la mistura?
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Orlandino — Capitolo 8 151
Lxvn
Or tacito Rainer per meraviglia
Parca co' circostanti esser di legno :
Stringe la bocca, e caccia su le ciglia,
E già vagli fallito il suo dissegno.
La vostra signoria se meraviglia,
Parla Marcolfo, un poco aver ingegno,
E questo accade, perchè v' ingannate,
Pensando quel eh' è coco, esser V abbate.
Lxvni
Ed ecco vi risolvo qui la quarta
Richiesta, eh' era a dir il pensier vostro :
Quesf ultima che più dolosa ed arta
Credeste, or la pii\ facile vi mostro :
Ciascun de voi, signori, non si parta,
Finché chiaro v' appaia il stato nostro :
Voi dico, immaginate senza gioco,
Ch' io sia '1 priore, e so eh' io son il coco.
LXIX
Mii-ati dunque a quello che pensate,
L' enigma vostro liquefatto giace.
Rainer confuso disse : in veritate
Che più schiiuni-pignatte, non mi piace ;
Anzi sarai tu solamente abbate.
Queir altro sarà il coco, diasi pace ;
E cosi senza indugio al suo precetto
Un cambio tal mandato fu ad effetto.
LXX
\ Veggi or, dicea, che non secondo il merito
Vien dispensato il ben ecclesiastico,
l Per cui Lorenzo un sì crudel interito
\ Ebbe col suo, non col corpo fantastico ;
le. Onde de' mali chierci per demerito
[l;i i. Difficilmente il duro freno mastico
\ A creder, che con Y arte aristotelica
iSi debba predicare 1' evangelica.
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152 Orlandino — Capitolo 8
LXXI
Cotai parole un vescovo presente
Avendo a sdegno, e eh' un soldato ignaro
Del stato ecclesiastico clemente
Fusse così mordace e temeraro,
Che lo biasmasse fra cotanta gente
Per colpa sol del nuovo coquinaro,
Disse, signor, s' io son peripatetico,
Piti vaglio almen d' un borgognon eretico.
Lxxn
Cosi parlando, il volto che fii rosso
Prima di vino, venne bianco d' ira.
Rainer si volse a lui tutto commosso,
E quasi di vagina il stocco tira.
Lo vescovo temendo si è rimosso
Dal vento, eh' en suo danno pronto mira ;
Volse partirsi : ma Rainer al core
Tornato, disse : or stati, monsignore.
Lxxm
Eretico non son, come in presenza
Del popol mi chiamate in mia vergogna:
Ma forse 1' alta vostra reverenza
Mi crede esser un bravo di Sansogna,
Lo qual a Roma faccia violenza ;
E pur ella fallisce, che Borgogna
Men crede ed al tedesco ed al ispano,
Ed al francese vesco eh' al romano.
LXXIV
Ben meglio credo in V alta Trinitade,
Padre, Figliolo, e insieme Spirto santo ;
E credo di Maria l' integritade,
Poi che di carne in lei Dio prese il manto ;
Credo ne la mirabil potestade
Da Dio concessa all' uomo, per cui vanto
Darsi egli pò, se fusse ben nefario.
Non esser Dio, ma sol di Dio vicario.
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Oblandino — Capitolo 8 153
LXXV
Credo che '1 ben Gesù facesse prima
Quello, che venne predicar in terra :
Credo eh' el suo coltello in ogni clima
Venesse pone al mondo pace, e gueri-a:
Credo che d' un rubaldo una lagrima
Dal cor, lo inferno chiude e il ciel disserra :
Credo, che del vangelo il saldo piede
Alti'o non sia, salvo la mera fede.
LXXVI
Credo eh' egli perfettamente bello
Portassi barba, e gran capellatura :
Credo che '1 sparso sangue del jignello-
In croce terminasse ogni figura,
Donde cred' io eh' uguali ad un pennello
Sian quei da' crini, e quei da la tonsura : !i
Ben credo, che sol chierici fusser quelli.
Che sempre eran al opre sue rubelli. !
Lxxvn . 1
Cred' anco, che ad istanzia d' un malegno j
Pontifice del anno (102), e farisei,
Pilato r inchiodasse al crudo legmo
Con t.anto scorno fra doi ladri rei.
Io credo eh' ivi a noi lasciasse nn pegno,
Ed una tal memoria, che per lei f
Si conoscesse a noi placato il cielo, J
Levando giù dagli occhi a Moise il velo. :
LXXVIII
Pai-lo de la sua cruda passione
E del mirabil dono di sua carne,
La qual mangiando tutte le persone,
Lascian l' antiqui coturnici e starne.
Credo che '1 bon Gesù per guiderdone
Non voglia torti colli, e facce scarne,
Ma sol il cor ; e così tengo e creggio ;
Se questo è mal, non parlo, ma vaneggio.
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154 Orlandino — Capitolo 8
LXXIX
Credo che sia V inferno, e purgatorio
In r altro mondo, e in questo il provo ancora ;
Onde con Paolo apostolo mi glorio
Esser d' acerbi casi ti'atto fora,
Non già col mio, ma sol col suo adiutorio.
Lo qual grida con voce alta e sonora,
Pericoli nei monti e tempestati,
Pericoli nel mar, e falsi frati.
LXXX
Credo veder in carne il Salvatore,
E spero gioir sempre di sua vista.
Creder -di questo più non ho valore,
Aiutami tu, vescovo albertista
Col figlio di Nicomaco, dottore
Oggi allegato in chiesa dal Tomista,
Senza la metafisica del quale
Quel primitm verbum Dei starebbe male.
LXXXl
Credo che un laico peccator si mende ;
Un chierico non mai, tal è, che '1 mosti-a,
Dico li rei ; fors' è che non m' intende,
E in domo Dei già invitami alla giostra.
Pian, piano, prego ; che qui non si vende,
Boni servi di Dio, la fama vostra ;
Anzi vi onoro, come grati a Dio,
E cangierei col vostro \ esser mio.
Lxxxn
Non dico il scapuccino, non la soga,
Non le gallozze, lo coculo, il fioco :
So ben, che superstizia non v' affoga
In creder, che pietade vi aggia loco.
Protesto a tutti, che non si deroga
A onor di frate alcuno sin al coco ;
Ma sol mi volgo ai lupi e mercenari,
Larghi nel comandar, nel far avari.
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Orlandino — Capitolo 8 155
Lxxxm
AUor il vesco, che per bono zelo
In soccorso di GrifFarosto venne,
Cotal bestemmie sotto 1 bianco pelo
Di santa e dritta fede non sostenne ;
Sgombra la sala presto, e spiega il velo
Di collera nel mar su V alte antenne.
Rainer sen ride, e spesso a dieti-o il chiama,
Dicendo : così fogge, chi non ama.
LXXXIV
Lo mercenario vede il lupo, e scampa.
Perchè non gli pertene del amiento :
Poi volto a gli altri, disse : di tal stiimpa
Son tutti, che non stan femii al cimento,
Dovendosi ammoi-tar qual eh' ampia vamj)a
D'eretici, perchè col argomento
Sol d' Aristotil vpgliono provare.
Quel che con Paolo devono salvare.
LXXXV
Sincera, pura, monda, senza macchia.
Quantunque esser la fede nostra deggia.
Nulla dimanco un sol eiTor anmiacchia
La mente mia che forse non vaneggia.
Non men (5redo al garrir d' una cornacchia,
Che al predicar .d' un frate, il qual dardeggia
Da' pulpiti chimere, sogni, e folle,
Che ne Gesù, ne Paolo mai pensolle.
LXXXVI
Qui naiTa poi Y autore, che Milone
Di mezza notte gionse armato in sella ;
Narra Y amore, e gran compassione
Ch' ebbe a la moglie, e come poi s' abbella.
Trovando un figlio in quella vii magione,
Che scorre, guizza, iubila, saltella,
Vedendo il padi-e, che menai-lo via
Quindi promette, e già prendon la via.
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156
Orlandino — Capitolo 8
Lxxxvn
Narra lo gran viaggio al mar Euxino,
Ove trovò, eh' Amone suo fratello
Scampando dal figliolo di Pipino,
Condotti avea d' annati un gran drappello ;
Ed ha con seco il forte Rinaldino,
U un angioletto più vivace e bello,
Il qual con Orlandin s accosta, e 'nsieme
Fan prova di sua forza molto estreme.
Lxxxvni
Amon quivi Costanza la Regina
Ingravidò del gran Guidon selvaggio :
Quivi narrò poi cena la ruina
Di Chiaramonte, il foco, e '1 già dannaggi<3-
Di Beatrice ancora la rapina,
La morte di Rampallo tanto saggio ;
E così Amon quel caso lor sponea.
Come di Troja fece il grand' Enea.
Onde se mai sarh. chi scriver voglia
Diffusamente questo mio compendio,
Jl libro di Virgilio avanti teglia,
Ove si narra quel troian incendio.
Ho di mangiai- che di cantar più voglia,
Però, signori, date il mio stipendio,
Il qual sai-à di laude un sacco pieno.
Ed io non mangio laude, quando ceno.
LXXXX
Ben dirvi ancor potrei, come Agolantc
Prese tutta la Europa, ed in Parigi
Di Franza incoronò lo re Barbante,
Drizzando Macometto in san Dionigi ;
La presa di re Cai-lo, e come Atlante
Tolse for de le cune Malagigi ;
E come lo condusse in certe grotte,
E qui r ammaestrava giorno e notte.
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G
r
Orlandino — Capitolo 8 157
LXXXXI
E come in Roma il giovenetto Almonte
Entrò col gran trionfo di vittoria ;
E come ne per piano, ne per monte
Non era più di Cristian memoria.
Potrei poscia tornare a Chiai-amonte,
Che, come di Tm-pin scrive V istoria,
Dieci anni andò per V Asia vagabondo
Cercando in mar, in terra, tutto '1 mondo.
LXXXXII
Potrei scrìver, eh' Orlando fatto grande
Con suo cugin Rinaldo armati insieme
Si ritornano d' Asia in queste bande.
Ove con forze smisurate estreme
Opraron sì, che le genti nefande
Di Macometto e paganesco seme,
Cacciaro virilmente, e come al fonte
Questo Mabrin, queir altro ancise Almonte.
LXXXXIII
Ma voglio, questa impresa sia d' aitimi ;
C ho detto assai, signori, e forse troppo :
Date perdon, vi prego, se pur fui
Di andata guercio e di veduta zoppo :
Puotesi mal per luoghi negri e bui
Correr di lungo senza qualche intoppo ;
Donde ne prego Dio che mi sovegna
Ed a chi mal mi voi, cancar gli vegna.
FLMSCE V ORLANDINO
DI LIMERNO PITOCCO DA MANTOVA
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158 Orlandino
CARMEN EJUSDEM AUTORIS
AD
PAULUM URSINUM
Miraris quod amem, puer o placidissime, te, cut
Non te, sis quamvis membra pusillus, amem.
Nonne sub exiguis stat vìrtus plurima gemmis,
Ferculaque exignum reddit odora piper ?
Cerne brevi quantum est formicae roboris et quam
Muneris in modica multiplicatm* ape.
Parvus es et Paulus, Rolandi nomine dignus,
Rolandi quoniam robm- et aima gens.
Stampato nel Novembre del 1888
SEGUE IL CAOS
DEL MEDESIMO AUTORE
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Orlandino 159
NOTE
(1) La Bindoni 1550 ha parlo diy forse meglio.
(2) Scherza poco opportunamente sulla radice Bò, per bue,
(li Boezio.
(3) La Molinì 1775 e la Antonelli 1842, con evidente alte-
razione del testo hanno : Ma te, spirito gentil, qual tu ti sia —
Ch'amor ti move.
(4) Sebbene non sia italiana conservo gianda, originale,
anzicchè mutarla in ghianda.
(5) Nello sdegno che mostra il Folengo in queste stanze,
contro colui, che l'ebbe a criticare sebbene dica chi sia, ma
che appar esser toscano, sta la ragione del poemetto e la
spiegazione del esametro del frontespizio. Mensibus istud opus
iribus indignatio fedi,
(6) Cioè sulla Scandinavia.
(7) La Molini e la Antonelli hanno anche questa altra ver-
sione : O nove o dieci versi v' incateno. -^
(8) La Molini ha voluto ingentilire la parola lombarda ori- W^
ginale in vacherie. '^j
(9) Anche forharie fu italianizzata dalla Molini e dall' An-
tonelli in furbarie.
(10) La Molini e la Antonelli mutono cosi questo verso :
Yi giugne assai perchè sia più gioconda. ^;
(11) Cambiano anche il principio di questo così ; Allo spirto
gentil
(12) Bataio per battaglio. Il gigante Morgante combatteva
con grosso battaglio di campana,
(13) Franchi Eroi è usato dal Folengo in senso ironico ;
e di questa ironia ne è sparso tutto il poemetto.
(14) La Molini e la Antonelli questo verso l'hanno così
mutato: Non sia che ardisca dirmi.
(15) Le suddette edizioni hanno : Poscia.
(16) Vinti^ per venti.
(17) La Molini ha: Non manco di costui '1.
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160 OrlandinOì — Note
i ^ ___„._„,
J. (18) Commette qui il Folengo un anacronismo sali' uso
t delle bombarde al tempo di Carlo Magno, di sicuro non per
b ignoranza.
J (19) La Molini e TAntonelli malamente traducono per sòi//"-
S fare, la parola lombarda hoffare^ che proprianieute significa
I ansare. Ed in questo stesso senso T usa al principio del terzo
f- verso della seguente stanza.
%[ (20) Nell'edizione originale si legge nevOy le altre hanno
ff compresa la Dindoni, hanno neve, che non può stare. Dall'altra
\ ^ parte non so quale parola vada per indicai'e un oggetto nero
f al pari del carbone e del corvo.
[ (21) Questi due versi sono del Petrarca Sonetto II.
(22) La parola punto è usata qui in senso astronomico.
(23) La Molini e la Antonelli hanno : posso io, invece di
^ passione, che credo sia la vera lezione.
: (24) Da Cariti, appellativo delle Grazie.
r (25) Oy : in dialetto mantovano, per Oglio, fiume.
^ (26) Nella Maccheronica IX del Baldo, a pag. 219 si legge:
Nonne niagis quisquani contentai ìiabere pidocchios — Quam
fieri Baro Francie? e più avanti è detto che tutti i bastaci
che crescono a Roma diventano Baroni di Plancia.
(27) La Molini e la Antonelli corressero il lombardismo
uscisca in esca.
(28) La Molini e la Antonelli hanno mntato questo vei^so
così : Finché vi resti V ultimo vittore.
(29) Stora voce lombarda pur stuoia.
(30) La Molini e la Antonelli cambiarono il lombardo frette
nell'italiano trasse.
(31) La Molini e la Antonelli hanno alte invece di ale.
(32) La Molini e la Antonelli tradussero il harilla in bar-
letta, che non ha senso.
(33) La Molini e la Antonelli mutano il busche in buschi.
(34) sugando, cioè molestando.
(35) La Molini e con essa T Antonelli mutano cosi questo
verso : Nel folto dei cavai senza spavento.
(36) Bottaglion, baghe, grossi vasi da vino usati in Lom-
bardia, specialmente nel mantovano.
(37) Storpiatore di ingiurie che i francesi indirizzavano agli
italiani ai tempi del Folengo.
(38) Zecchi, ceppi.
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Orlandino — Note 161
(39) La Sabbio 1526 ha pidccareiy che di sicuro è errato,
e che perciò io corressi in piccarei, lasciando la forma di lom-
bardismo invece di appiccare^ come hanno giustamente la
Molini e la Antonelli. — Di sante città al tondo : cioè al Co-
losseo di Roma, dove si appendevano i voti e i doni dei devoti.
(40) Cioè : Ubero. Ai tempi in cui il Folengo scrisse il poe-
metto tutta r Europa era commossa dalla riforma di Lutero,
della quale uno dei punti principali era il libero arbitrio del-
l' uomo, accennato qui dal poeta.
(41) La Molini e l'Antonelli hanno: V miro.
(42) Del losquino, il celebre maestro della capella di papa
Leone X, il Folengo fa un grande elogio a pagina 105 e se-
guenti, nella Maccheronica XX del Baldo Voi. II.
(43) Erasmo di Roterdam.
(44) Vinti: per venti.
(45) Del Regno: cioè del regno di Napoli.
{AQ) Deto: per dito.
(47) La ragione per la quale il Folengo fa fare una Augura
infelice ai Novaresi, Bergamaschi e Cremonesi, trovasi in pa-
recchi luoghi del Baldo, nel quale pone i cittadini di questa
città sotto aspetti poco favorevoli.
(48) La Molini e la Antonelli leggono : Mistier gli fa eh' egli
esca dalla
(49) Slegua: per dilegua, liquefa.
(50) Cinge: per cinghie.
(51) Ciamhra, Qui, come altrove, usa il Folengo il france-
sismo ciambre, da chambre per ragioni di scherno ai francesi.
(52) Greggi: per credo.
(53) Invecchilo fu mutato dalla Molini e dalla Antonelli in
invecchialo,
(54) L' Antonelli e la Molini tradussero il tanta commen-
laria e perciò hanno : tanti commentarla.
(55) Gallone: fianco.
(56) La Molini e la Antonelli, mutano il m' aggraffio del
testo in nx' agghiaccio,
(57) ImpergotaU dal mantovano par colà che significa lar-
dellare.
{ò8) Qui come altrove le parole francesi, o francesi italia-
nizzate, sono adoperate in senso ironico a derisione di coloro
M partito francese che, affettatamente, parlando le usavano.
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162 Orlandino — Note
(59) Questo verso va inteso in doppio senso.
(60) Languii: strana corrusione di liuto, il lentus. che il
Folengo usa spesso nella Zanitonella.
(61) La Molini e la Antonelli assai infelicemente mutano
così cotesto verso : Come se 'l pescar merda, i son sboccalo.
(62) Provverbio fatto dal . detto di Orazio : Foemmi hubet
in cornu longe fuge.
(63) Gian Motone altro musico celebre al tempo del Fo-
lengo e del pari ricordato col losquin ed altri nella Macchero-
nica XX pag. 106.
(63 bis) A questo verso manca una sillaba, che la Molini
e r Antonelli aggiungono cambiando il tons originale in tom^.
(64) Giovan Maria dal Cornetto.
(65) Luigi da Bassano.
(66) Cimon Galese : Vedi Decamerone del Boccaccio.
(67) Lascio prosegua dell' originale, sebbene non concordi
colla rima.
(60) Dal latino moecus,
(70) Cipria per Ciprigna, Venere.
(71) Strana licenza di fare, senza necessità, guida maschile,
amenocchè non V abbia tolto dal Francese per farne un espres-
sione ironica.
(72) Prochi 0 proci, in senso ridicolo.
(73) La Molini e la Antonelli mutano il strige originale in
streghe, e credo a ragione.
(74) Le stesse due edizioni correggono l'errato impiegalo
che trovasi anche in altre antiche edizioni, e leggano: im-
piagato.
(75) La Molini e la Antonelli mutano il mora, ossia negra,
originale, in morta.
(76) Lascio l'originale costione, che è parola del dialetto
mantovano per quistione, quale mettono la Molini e T Antonelli.
(77) Traiti dal francese per tradimenti.
(78) Veghii, per vegli.
(79) Siramenti. Strano accoppiamento del mantovano stra,
che non è lo slra di straordinario, che viene da extra, ma
parola propria e originale, che significa ripetizione e moltiplica-
zione di volte e di quantità.
(80) Combiato per commiato, come hanno la Molini e la
Antonelli.
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Orlandino — Note 163
(81) Azzajo^ acciaio.
(82) Panno, cioè Pane.
(83) La Molini e la Antonelli, per non so quale ragione,
mutano così questi due versi : Transihat lesus per un gran
villaggio — Con Piero, Andrea, Giovanni e con Taddeo.
(84) É singolare questo verso del Folengo che corrisponde
al portato della scienza sulla radiazione solare.
(85) La Molini e la Antonelli leggono, e credo meglio, cosi
questo verso: Come suol far chi a taglia è posto in bando.
(86) La Molini e la Antonelli hanno '/foc/^to.
(87) Anche il Folengo accoglie la parola della origine ba-
starda francese di Casa Gonzaga.
(88) Vedi Baldo, Maccheronica VII, pag. 101 e seguenti,
sotto il titolo : Gli ordini religiosi del secolo XVI, una dipin-
tura degli stesi abusi e delle stese arti fatta ben più lunga
e minuta.
(89) Allude a papa Adriano VI che era fiammingo.
(90) Piccola città in provincia di Viterbo.
(91) Si intende che in questo racconto non si può preten-
dere r esattezza storica, perchè non è che una fantasticheria
del Folengo.
(92) Torzo per torco.
(93) Chiama zaffi i birri. Nel Baldo usa spesso cotesto
epiteto.
(94) Sono indicati i colori delle tonache dei francescani,
tanto in ugia al Folengo.
(95) Sanze per ciancie.
(96) Giotto per ghiotto.
(97) Deto per dito.
(98) Cioè Nicola de Lire, teologo francese del secolo XIII.
(99) Allude al giovinetto Paolo Orsini del quale era precet-
tore, allorché scrisse l'Orlandino.
(100) Vedi nella prefazione V Apologia del Autore.
(100 bis) Gaioffa parola del dialetto bresciano, che significa
saccoccia.
(101) Lazzi, cioè lacci.
(102) Cioè il pontefice di quell'anno, poiché i pontefici
degli Ebrei si eleggevano ogni anno. •
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II.
IL CAOS
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IL CAOS
DEL
TRIPERUNO
DISTI.
Unus adest ti-iplici mihi nomine vultus in orbe.
Tres dixere Chaos: numero Deus impai'e gaudet,
I^.
GO.
HEXA.
Quse nat aquis, coeloque; interdum attoUitur ales,
Vel nat amore aquilae, vel -volat icta metu.
Nam quse solis adit, velati louis ales, acumen ?
Est Fulicse ut Mintii ludat in amne sui.
At, si illa huc humile ad stagnum descenderit, ales,
Quae nat aquis, aquilis digna erit esca suis.
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DIALOGO
DELLE TRE ETADI
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I II CAOS
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DIALOGO
DELLE TRE ETADI
PAOLA ATTEMPATA — CORONA GIOVANE
LIVIA FANCIULLA.
T . . . . i
Pag. jL u piagni, figliuola, e che ti senti tu ?
Cor. No '1 sai, madre, senza che me lo chiedi ?
Pao. Sei sapessi già non til dimanderei.
Liv. Dicerotilo io, dapoi che le molte e abondevoli la- i
grime t' interrompono la voce.
Cor. Taci là tu, pazzerella, che pur troppo è di soperchio
a me sola questo cordoglio, senza che tu v'involvi
dentro e lei ancora.
Pao. Non siano parole tra voi, o tu, o tu me lo narri
senza più indugio.
Cor. Piango la mala sorte di mio fratello Teofilo, a te
figliuolo.
Pao. è forse morto?
Cor, Sì d'onore e reputazione.
Pao. Maledetto sia Y uomo, il quale disprezza la fama sua.
Cor. Dio pur volesse, che la vergogna fiisse di lui solo.
Pao. So male che responderti, non t'intendendo ancóra:
dimmi ha commesso qualche adulterio ?
Cor, Grrandissimo.
Pao, è di carne, ma in che modo ?
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A;
V
f
Dialogo
V Cor. Qual trovasi maggior adulterio essere, che de lo
V ingegno suo pelegrino, che de le tante jhii grazie dal
'y , ciel donate, usarne male ?
S: Pao. Grande ingi'atitudine per «certo, «la comincio già la
^ causa di questo tuo rammarico intendere: ip ^poema
i>; da lui composto sotto il nome di Merlino Cocaglio,
f • ancora non ti si parte dal cuore ?
Cor. Anzi ognor più me lo parte e straccia.
Pao. Deh ! stolta, tu f affanni oltra quello, che a te non
tocca.
Cor. Più d' ogni altro mi tocca, che più d' ogn' altra son
certa ohe T amo.
Pao. Più di me ?
Cor. Più di te.
Pao. Di me, eh' io gli son madre ?
Cor. e io doppia sorella.
Pao. Non 1' ami tu già dunque se doppia gli sei.
Cor. La causa?
Pao. Tant' è dir doppio quanto falso.
Cor. Or su, non mottegiamo prego.
I Pao. In che modo gli sei dunque doppia sorocchia?
Cor. Carnale e spirituale.
Pao. Carnale sibene, spirituale non più già.
Cor. La cagione ?
Pao. S' ha gittato il basto da dosso V asinelio.
Cor. e rottosi '1 capestro ?
Liv. E tratto di calzi.
Pao. Or cangiamo cotesto ragionamento in alti'o. Hai tu
letto r Orlandino ?
Cor. Letto ? trista me, appena veduto.
Pao. Come ? ti vien interdetto forse, che da te, con l'altre
tue sorelle, non si poscia leggere ?
Cor. Si.
Pao. Chi fu questo pontifice ?
^ ^ Cor. La ragione.
Pao. Perchè così la ragione ?
Cor. La quale m' avisava dover essere peggior Limemo
che Merlino (1).
(1) Cioè, che r Orlandino composto sotto il pseudonimo di limerno
sia peggiore delle altre composizioni, come il Baldo e la Zanitonella, che
vanno sotto il nome di Merlino.
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Le tre etadi
Pao. Leggerlo almeno voi dovevati.
Cor. a che perder il tempo ?
Pao. Taci, che d' ogni libro qualche cosa s' impara.
Cor. Questo è falso. •
Pao. e sentenzia di Plinio.
Cor. Vada con le altre sue menzogne.
Pao. Negarai tu, che d' ogni libro non s' impari qual-
che cosa?
Cor. Anzi più de li tristi e disonesti, che de li boni.
Pao, Or basta : non sai, eh' en doi mesi, e non più, sotto
il titolo di Limemo (1) l'ha composto?
Cor. e viemmi detto che tutto a un tempo, che lo com-
poneva, eragli rubato da gli impressori (2).
Pao. Cotesto è più che vero : che ove interviene stimulo
di sdegno (3), spizziano vei-si senza alcun ritegno.
CoR; Potrebbe forse pentirsene, credilo a me.
Pao. Di che?
Cor. Dir tanto male.
Pao. Anzi solamente si dole, che non pur Merlino, ma
Limemo compose così precipitosamente, che li stam-
patori non poteano supplire a Y abondanzia e copia
de suoi versi, la onde pargli un errore grandissimo
non aver servato lo precetto oraziano (4).
Cor. Deverebbe via più tosto il meschino piangere e
crucciarsi, aver consumato il tempo circa tanta lige-
rezza.
Pao. Non dir ligerezza, figlia, che non per cosa ligera
simulossi già Ulisse devenuto essere pazzo.
CoK. Troppo son certa io de la lui malizia, il quale fin-
gesi Pitocco e fiirfante, per dar bastonate da cieco.
Pao. Tu non sai la cagione.
(1) Veramente nei distici messi sul frontespizio dell' Orlandino, egli
dice: Mensibus istvd. opus tribus indiquatio fedi,
(2) Non si ha alcuna notizia intorno a questa asserzione del Fo-
lengo, giacché avanti T edizione veneziana dei fratelli da Sabio, non si sa
che r Orlandino sia stato stampato da altri, o in tutto o in parte e il
Caos lo fu di seguito al poemetto eroi-comico.
(3) Lo conferma l'esametro su riportato. Vedi anche l'Orlandino,
cap. I, stanza VII e XI.
(4) QarToen reprehenditei quod non multa dies, et multa litura
coercuit.
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6 DuLoao
Cor. Così non la sapessi.
Pao. Dimmi, qual' è ?
Cor. Per farci morir tutti spacciatamente di doglia, acciò
più oltra non avesse chi gli gridasse in capo.
Pao. Tu te 'ngani grossamente.
Cor. Anzi pur tu te 'ngani.
Pao. Come?
Cor. In creder alcuno dir male a bò fine.
Pao. Che male dice?
Cor. Non voglio parlarne.
Pao. Perchè?
Cor. Temerei di qualche maladizione.
Pao. Or su confortati figliuola, che al poledro fii sempre
concesso puoter fin a doi capestri rumpere.
Cor. Non rampa già lo terzo.
Pao. Anzi totalmente nel ternario numero fermatosi, ha
messo a luce il Caos del Triperuno.
Cor. Qual Caos del Triperuno?
Liv. El pare che non ti sovegna?
Cor. Non mi soviene per certo.
Liv. Le tre Selve, le quali eri legessimo, e per segno di
ciò, una allegoria bellissima tu di quelle saggiamente
cavasti, quantunque io sia di senso molto dal tuo
discosto (1).
Cor. 0 smemorata me, eh' ora me lo ricordo, ma dimmi
è di Teofilo?
Liv. No sai che solamente vi si fa menzione di Merlino,
Limerno e Fulica?
Cor. Troppo me lo ricordo, ma che fusse di tuo fratello
Camillo mi pensava.
Liv. Tu non pensasti dritto : è di Teofilo.
Pao. Così è (2), ma ditemi ambe dua lo argomento vostro
che imaginato vi avete sopra quésto Caos che an-
cora io lo sentimento mio vi naiTcrò : comincia tu
Livia.
(1) Da questo papa parerebbe doversi intendere che le tre Selve
fossero state pubblicate prima del componimento: Belle tre etadi^m^.
anche di ciò non si ha notizia, a meno che non sia una tìnzione del
Folengo.
(2) Nella seconda edizione si legge : Cosi lo affermo.
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Argomento
ARGOMENTO PRIMO.
LIVIA.
wuesto Caos in Selve tripartito, la vita del autore, la
quale in tre fogge, sin a quest' ora presente col tempo
veloce se n' è (1) gita, contiene. Nacque egli, come di
me voi sapete meglio, agli otto giorni ed ore duodeci
di notte, nel mese di Nov. sotto Scorpione, essendo
allora gradissimo freddo, la onde in questa sua prima
Selva narra . V orribile freddura in cai egli misera-
mente nacque, fingendo natura essergli stata, più di
madre, madregna, e pur nella puerizia, la quale ap-
pella aurea etade, gustò alquanto di sicuro e dolce
riposo.
Nella seconda selva pervenuto egli omai negli anni di
qualche cognizione, ritrova molti pastori, la cui vita
e costumi e quieta pace molto gli piacquero, volen-
dovi inferire, che di sedeci anni egli col abito cangiò
la vita, e veramente si come a li pastori apparve
r Angelo e mostrò loro dove giacesse il nasciuto
fanciullo lesù Cristo, così allora su quel principio,
che egli prese a far vita comune co gli altri pastori,
trovò Cristo parvolino enti-o il presepio collocato:
ma col tempo poi per cagione di ... , ma non voglio
parlarne chiaro, che ancora egli va più riservato che
sia possibile, traviato, si mise a seguir amorosamente
una donna bellissima, la quale sopra un sfrenato
cavallo gli scampa innanzi, per tirarsilo drieto al
precipizio d' ogni perdizione : ne chi sia questa don-
gella, ne dove finalmente lo conducesse, vogliovi
manifestar se non in T orecchia dicendolo, ma con-
chiudendo la seconda Selva dico, che '1 laberinto
intricatissimo, nel quale ultimamente si ritrova, pare
a me una soperstizione tenacissima significare, de la
(1) Tanto la edizione prima, che la seconda hanno ne^ che io credo
bene di correggere mettendo n'é, altrimenti non vi sarebbe sènso.
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9 AsCK))f£HTO
cui caligine se non per divin aiuto si pò essere libe-
rato. E in questa tal foggia seconda di vivere, es-
sendo egli già fora del sentiero diritto compose lo
poema di Merlino : con tutte Y altre favole e sogni
amorosi, li quali ne la Selva seconda si leggono.
Or dunque Cristo si gli scopre in quel centro d'igno- ^
ranzia de la Selva terza apparendo, e d' indi smosso,
lo driccia sul camino al terrestre pai-adiso duttore, \
che per divina inspirazione conoscendosi egli perder
il tempo supersticiosamente in quella seconda Selva, I
ritornasi a la sincera vita dal evangelio primamente ]
a lui demostrata, e fatto del suo core un dono a j
Cristo lesù, da lui ne riceve tutto 1 mondo in rie- !
compenso e guiderdone di esso, e giunto nel para- j
diso terrestre, gli vien ivi comandato che non mangi |
del arbore de la scienza del bene e male, ma so- ]
lamente si pasca e nudrisca del legno vitale, per j
darci sopra ciò un bell'aviso, che quantunque ogni j
constituzione o sia tradizione de alcun santo padre
bona e fiindata su '1 evangelio sia, nulla dimanco
assai più secura e utile cosa è non partirsi dal mero
evangelio : perchè si come ogni norma e regula de
santi ha in se figura del arbore, del saper il bene
e il male, così del arbore di vita contiene in se lo !
legier peso del servatore nostro. La onde esso mio
zio Teofilo commetteria la terza sciocchezza quando
mai lasciasse più lo vecchio sentiero per tornar al
novo : ed questo è il senso mio cii'ca la dechiara-
zione di questo Caos.
ARGOMENTO. SECONDO.
CORONA.
LTguto e ingem'oso su questo da te pensato soggetto,
Livia cara, ma non tanto a V intenzione di tuo zio mi
par agiatamente accascare, quanto quello, eh' eri ti
dissi, ed ora sono ad ambe dua per ragionare. Move
dunque, mio fratello più generalmente il voler scri-
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Le tre bt^di 9 ìv
vere di qualunque altro uomo, che del suo proprio f
fatto, onde ne la prima Selva narra la infanzia e f
puerizia umana, ne la seconda la precipitosa giove- 1
nezza, ne la terza la matura e virile etade. t
Or dunque, ne la prima descrive in quanti affanni e tra-
vagli qualunque uomo per fallo del primo nostro |
padre Adam, nasce in questo mondo, chiamandovi
Natura crudele matregna, da la quale di scorze, peli,
piume e squame prò veduto viene ad ogni altro ani- ^^
male, quantunque vilissimo, e egli solo nudo nascendo f
non ha schermo alcuno e diffesa contra le ingiurie X
del tempo, ma poscia per beneficio de la industria jj
e arte pervenuto a la puerizia, dimanda quella l'am-ea t *
etade, perchè la innocenzia del fanciullo s' en passa ^
quel poco di tempo senza sapere chi sia rigidezza ^
di legge, tema di tiranno, ed inquietudine di avarizia. /^
Uscito poi egli dal bel giardino di puerizia, entra ne f
r impetuosa giovenezza, la quale innanzi che dal v
ardente desio anco non vien assalita, comminzia con t
la mente tutta svegliata del esser, non pur suo, ma i
d' ogni altra cosa a ripensare, e quivi ne la seconda ^
Selva mio germano in persona, come gik sopra dissi, I
d'ogni altra razionale creatura fingesi trovar pastori, i
e Cristo lesù tra quelli nasciuto, per darci questo 1
aviso, che V uomo, quanto prima ne gli anni di ra- j
gione entrar comincia, per favore del suo bon genio, %
incontanente riccorre a la cognizione di veritade la '^y
qual' è Cristo nostro servatore. Ma levatasi poi la «'•
consueta . tempestade di nostra carne, ecco la vo- ,
luptade, ecco '1 desio sotto il viso di vaga donzella, [
su '1 sboccato cavallo de la delettazione, lo riconduce *.*
al varco de le due strade, per tirarsilo drieto a la
sinisti'a del vizio, lasciando la destra de la veritade.
Quivi dubitoso ne la prima giunta stassi, ove gir
si debbia, quinci da belli e boni avisi a la destra
invitato, quindi dagli umani piaceri combattuto, che
egli muovasi a la mancina. Soperato dunque e vinto
finalmente dal fugace desio, vagli impetuoso drieto,
dovunque la falsa incantatrice losingando a se in
guisa di calamita lo smarito animo tira, passando
M
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10 Argomento
tutta fiata per sogni, chimere ed amorose favole,
quali sono le fizzioni macaronesche, come gli appel-
lano, di Merlino, li sonetti, e altre assai vane fra-
scuzze, per signar il tempo da la giovenezza inu-
tilmente trapassato, infin che poi nel laberinto di
qualche travaglio si ritrova essere, cosa che '1 piti
de le volte dopo gli piaceri sole agli gioveni ac-
cascare.
La onde, come né la terza Selva noi leggemo, Y uomo
angustiato riccorre al divino suflEragio^ e Cristo gli
appare bello e pietoso, cavandolo benignamente di
quella ignoranzia d' amore, e talmente gli tocca il
core, che '1 giovane già venuto virile, si mette in
considerazione di quanto mai fece Iddio per V uomo,
dil che mio fratello sopra questo finge, che avendo
Cristo ricevuto il core da lui, criògli tutto quanto il
mondo, e al paradiso terrestro dricciatolo, gli com-
manda, che pascendosi egli del legno de la vita, il
quale ha di sua grazia in se la figura, non gusti
per niente di quello del bene e male, il quale a me
par dover significare che V uomo facendo le bone
opere, quelle non debbe a soi meriti tribuire, anzi
tutte nel divin favore collocarle. Tal' è dunque il
concetto mio dal Caos divenuto.
ARGOMENTO TERZO.
PAOLA.
I
s
entenzia divina è, che la lettera (1) uccide l'anima. Fer,
mamosi prego dunque su '1 Caos di questa materia
lasciando in parte sì la vita di mio figliuolo in
spezialitade, la quale per vigor e sottiezza (2) de pe-
regrini ingegni forse col tempo .verrà in luce più
(1) L'edizione prima - 1527 - ha giustamente lettera, mentre la se-
conda - 1546 - ha terra.
(2) Tanto la prima, che la seconda edizione hanno sotthiezza, che
ritengo sia invece di sottigliezza.
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Le tre et adi 11
sicura, sì quella ancora di qualunque altro uomo, in
questa umana gabbia precipitato.
Ne la prima Selva contiensi adunque Y uomo studioso
e avido d' imparare, mettersi prima in considerazione
di queste cose più basse de V umana natura, fra le
quali se V arte liberale con la industria insieme non
fosse, o quanto inferiore agli altri animali sarebbe
r uomo, non così provisto da natura contra le in-
giurie del tempo, quanto di piume, squame, e peli
sono quelli. Onde pare che meritamente più lei
chiami madre che madregna, se la nuditade, od altra
miseria, nel nascere ben si comprende. Ma contem-
plando per mezzo di queste divine arti liberali aver
da non curarsi di qualunque onta naturale, si move
al studio semphcemente di umanitade, lo quale aurea
etade meritatamente apella, quando che tutta d' oro
sia cotesta disciplina, ed d' ogni scrupulo del nostro
intelletto fora.
Nella seconda Selva, questo medemo studente si delibera
pur di trovar la veritade di quante cose naturali e
sopranaturali ne libri si contengono, partesi dagli
umani giardini per saltar ne la filosofia, ma tosto
lo genio suo bono gli antepone la umanità di lesù
Cristo, e affermali non essere altra veritade di questo,
e pur la curiositade di pescar più sul fondo in
guisa di donna sopra un sfrenato destriero lo tira
per vie scabrose in fin sul passo, che divide lo sen-
tiero in due parti, quinci a la man destra invitalo
l'evangelica, quindi a la sinistra la peripatetica d'oggi
di teologia : ma vinto da la curiositade ancora, si
aventa senza freno drieto a quella per chimere, sogni
e favole sofisticali, trovandovi drento Merlin Cocaio,
per notificarci la grossa e incorretta retorica ed elo-
cuzione de la maggior parte de nostri moderni teo-
logi, ove quelli loro vocaboli causalitade^ entitade^
intuitiva, et ahstrastiva^ con l'altra barbaria tengono
corte bandita, perchè al fine di mille dubitanze er-
rori e eresie nel laberinto egli avihippato si ritrova,
e sepelito.
Or ne la terza Selva commosso lesù Cristo da dolce pie-
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12 Argomento
tade verso quella anima invischiata e allaciata in
quei tanti utrum^ proho^ nego^ arguo^ prò, contra^ etc.
tiralo al mero e puro latte del santissimo vangelo,
ed al fidel e tutiasimo porto di san Paolo, con tutto
il resto de libri del testamento novo et vecchio, nel
qual egli studiosamente ruminando a Dio fk un
dono del suo core, lo quale in cambio di si legger
cosa, fallo signore de T universo, criandogli di novo
il cielo, il mar e la teira ; e dapoi tanto al para-
diso terrestre mandatolo, quivi gli commauda, che
voglia solamente pascersi di contemplai' quanto sia
verso noi la divina misericordia, ma non quale e
quanta sia la maiestade ed potenzia sua, e questo è
r arbore de la bona e mala scienza, si come quel-
la altro è legno de la vita. A me cotesta allegoria
pare de le nosti^e megUo quadrare al Caos di mio
figliuolo. Orsù leggemolo dunque di compagnia, e
prima li ti-e nomi di esso.
MERLINUS.
jL res sumus unius tuni animae tum corporis. Iste
Nascitur, ille cadit, tertius errigitur.
Is legi paret naturse, schismatis ille
Rebus, evangelico posterus imperio.
Nomine sub fleto Triperuni cogimur ijdem
Infans et iuvenis virque, sed unus inest.
LIMERNO.
Gì
riove, Nettuno, Pluto d' un Saturno
Hebber a sorte il ciel il mar la terra,
Fulmini, denti, teste in lor governo.
Tre trine insegne per tre cause fumo.
Tre fonti, oltra le tre del mio Libnrno
Nacquer d' un capo santo al sbalzo temo,
Così Merlino, Fulica, Limemo,
Si calcian d' un TeofiI il coturno.
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Le tre etadi 13
Tre parole de titolo — Tre folenghe — Tre donne — Tre etadi — Tre
fogge di parentado — Tre argomenti -— Tre parti d'ogni argo-
mento — Tre nomi — Tre selve — Tre allegorie.
-^
Ji
Mantoa sen ride e parla con Virgilio :
Tu sei pastor, agricola, soldato,
Perchè del nomer temo Dio s' allegra. ^:|
Ridi tii meco ancora dolce figlio, }A
Quando che sotto un nome triphcato t^
Sortisca una confusa mole e pegi'a. ^|
FULICA. ' ^j
ermati alquanto, lettore amantissimo. Sonc ei-to, che lo f
exastico e sonetto di mei compagni di sopra ti pa- < J
rono duri e scabrosi. Non vi slungar in guisa di i'
rinoceronte suso il naso ti prego, che '1 ladro, il :
quale rubasse di giorno saria tantosto compreso: %!)
quivi ci fa mistero di scurezza e caliginosa nebbia,
ma se li capoversi per tutto il nostro Caos provi-
damente scegliere saperai, chiaro e limpido final-
mente ti pan'k lo intricato soggetto nostro : Ma so-
lamente un beir avviso quivi darti intendo, che
totalmente sul ternario numero siamosi, per conve-
niente ragione, fundati. Prima tu vedi lo titolo del
Hbro essere tre parole CAOS DEL TBIPEEXJNO.
Seguono poi le ti'e folenghe, over foliche son dette,
le quali sono antiquissima insegna di casa nostra
in Mantova. E sotto specie di loro succedono le tre
Donne di ti-e etadi, e di tre fogge di parentela, da
le quali derivano li tre prossimi argomenti, ciascuno
di loro in tre parti diviso, noi siamo poi di tre
nomi : MERLINO, LIMERNO, FULICA. Li quali
cominciando il nostro Caos in tre Selve lo spartimo,
con li soi tre sentimenti, ma lo più autenticato, al
giudicio del ingenioso lettore dimettemo,
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n.
SELVA PRIMA
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... <
IlL CAOS
SELVA PRIMA
TRIPERUNO.
V.
oi, eh' ad un alta e faticosa impresa,
* Vedete or me salir audacemente,
Per via mai forse da nuli' altro intesa ;
Piacciavi d' ascoltare queste lente
Mie corde in voce lagrimosa e mesta,
Ch' altro non s' ha d' un' anima dolente.
E bench' i veda alzandovi la testa
Mia virtù debil al salir tant' alto.
Di che sovente per viltà s' arresta ;
Pur spiego r ale, e quanto so, m' exalto
Là ve m' accenna il lume d' ogni lume.
Per cui non temo alcun spennato salto.
Che mentre su con le 'ncerate piume
Tolgomi de le nubi sopra '1 velo
ly un Dedalo megliore sotto '1 nume ;
Vedrò ch'immobil stassi e volge 'ì cielo,
Sostien la terra, e 1' universo a 'n cenno.
Volendo po' cangiar o 'n foco, o 'n gelo.
Oi* dunque di più sana audacia e senno
Ch' Icaro mai non ebbe, a Y ardua via
Ambo gli piedi, ambo le braccia impenno.
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18 II caos — Selva prima
E cantovi di questa nosti-a ria
Prigion, che vita nominar non oso,
Le frode di essa, il volgo, la pazzia.
E di quel Re, che 'n un presepio ascoso
Vidi fra le duo bestie a gran bisogna,
Ver se stesso crudel, ver noi pietoso.
Che svelse il mundo tutto di menzogna.
Che sua dottrina colma di quel foco,
Ch' arde si dolce in alma, che non sogna.
Io dico te, lesù, lo qual invoco
Mio Febo, mio Elicona, mio Pamasso,
Ov' ogni bel pensier al fin colloco.
So ben, che di te dir via pia t' abbasso.
Che tacendo non alzo, e pur m' oifersi ;
Ecco a diacciar nel tuo bel nome il passo.
Che, come vedi, son questi miei versi
D' amor almanco e caritade in cima.
Se non toscani, ben sonori, e tersi.
TRIPERUNO.
Di
'i quella spera pii\ capace e ima
Del ciel ove V Artefice soperno
Fabrica ogn' or quanto mai finse prima ;
Io novamente usciva fatto eterno
Candido spirto leggiadretto e bianco.
Che bianca più non vien neve d' inverno.
Quando 1 mio stesso fabro un calzo al fianco
Vibrommi tal, che giù ne venni a piombo,
In loco basso, e d' ogni posa manco.
E come vago e timido colombo.
Vola quando si parte da la torma.
Del ciel tonante al subito ribombo.
Tal' io vi errava tanto, che d' un orma
Uscendo in Y altra mi trovai su 1 poi-to,
Dove r oblio nostro intelletto addorma.
Guardomi intomo paventoso e smorto,
Che tesa in ogni parte vedo un rete.
Onde eh' entrarvi debbia mi sconforto.
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Il caos — Selva prima 19
Quivi spicciando fora d'un parete
Largo così, eh' ampio paese cinge,
Chiara fontana porsemi gran sete ;
La qual fi'a sassi mormorando astringe
Al dolce ber qualunque vi s' applica,
Ma tosto se ne pente chi lei tinge.
Perch' ella il senso e lo 'ntelletto intrica,
Però non men a 'n vischio tal m' accolsi,
Tratto dal bere e da 1' usanza antica.
Quivi cum brame tanto me*ne tolsi.
Che tutto '1 bene, che capisce in noi,
Non pur lasciai, ma nel contrario avvolsi.
Acque maligne, acque di tosco, voi
Più del male soavi, più che manna.
Scoprite il fele al nostro error dopoi.
Che chi vi gusta pur, non che tracanna.
Presto negli occhi anzi nel cor s' annebbia.
Dura cagion, che a questo ci condanna.
Cangiasi d' un bel raggio in scura nebbia.
Ne qual era pur dianzi non ricorda,
Ne su quel punto sa, che far si debbia.
Io dunque alma di bere troppo ingorda,
Le parti mie d' alti pensieri dotte.
Perdei qual cieca forsennata e sorda.
Perchè non so, sasse 1 C9IUÌ, che notte
Far giorno e giorno notte potè solo,
E dà sovente a noi d' amare botte.
Per fallo d'uno preme tutto '1 stolo,
E vedesi alcun padre umil e domo
Irsene giù per colpa del figliuolo.
Or chi le 'ntenderebbe, che d' un pomo
Succeda tanto incomodo, eh' ognora
Sostegna il ceppo uman 1' error d' un uomo ?
Ben fu di acerbe tempre, poi eh' ancora
Foggia non è, la qual digesto 1' abbia,
Ne mai, tant' esser deve crudo, fora.
Se chi nostr' alme spinge in questa gabbia,
Col raggio di pietà no '1 dissacerba,
E tempra di giustizia in se la rabbia.
Ne stomaco di struzio, ne onto, ne erba.
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20 II Ccaos — Selva prima
Mentre da noi per quest' ombre si viva,
E per smaltii- un esca tanto acerba.
I non fu mai di tal cibo conviva,
E pur padirlo anzi patirlo deggio,
Per cui vien ciascun alma del ciel priva.
La qual ir non dovria di mal in peggio.
Se, al priego d' una femina, colui
Morse '1 mal frutto e persevi '1 bel seggio.
A che unqua nascer noi, se per altrui
Fallir par, eh' anco *r ira non s' estingua
Divina in noi, per loghi alpestri e bui ?
Ahi miseri taci, e morditi la lingua,
Che maledetto fie, eh' in ciò s' addirà.
Già Dio mai d' uman sangue non s' impingua.
Anzi ama 1' opre sue, contempla e mira,
E studia r uomo a se fatto simile,
Scompare dal suo stesso foco e ira.
Ma non pensar non che cercar suo stile
Via troppo da l' imian pensier rimoto,
Ch' alto pensier non cape in senso vile.
Dunque dirò, che quanto chiaro e noto
M' era dinnanzi alber de 1' acque sparve,
Onde fui d' ombra pieno e di sol voto.
Eccomi sogni intorno fauni e larve.
Che mi facean per quella notte scorta.
Ne mai più '1 bel ricordo dianzi apparve.
Pur mi raffronto a quella orribil porta
Fiso mirando, e qui fennai lo piede
Com' uom, eh' entrarvi drento si sconforta,
E fin, eh' altri vi passi, dubbio sede.
GENIO.
Lima, che per altrui diifetto al varco
Dubbioso anivi e Dio ti vi destina,
Or quivi entrando inchina
U orgoglio, alzando gli occhi al ciel, che cai*co
Gira di stelle e mostrasi luntano.
Di là scendesti, o più non ti rimmembra
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Ili CAOS — Selva prima 21
Qual eri avanti 1 poculo di Lete ;
Ma se tornarvi brami, quelle membra,
Ove tu dei corcarti a man a mano,
Fa ch^ raffreni fin che 'n lor s'acquete
U uman desio, che le conduce al rete.
Sì di legger, ove ne resti presa
Ma strenua contesa
Non sa fatica, finalmente, o carco.
TRIPERUNO.
\iueste parole, in man d' un vecchio bianco,
Vedendo appese di quelF uscio in fronte.
Io tremai forte e trèmone pur anco.
Anzi n' ho, rimembrando, agli occhi un fonte.
Oh' allor, mentre per me già si delibra
Non ir pia innanzi e volgomi dal ponte.
Donna m' apar accanto, che mi vibra
Un pugno al fianco e drieto mi flagella,
Oh' avea ne Y altra n^an un aurea libra.
Ritomomi a la porta, dove quella
Mi piega col temone di sue pugna,
Drieto, chiamando sempre, alma rubelia
Alma proterva fa, che non ti giugna
Scamparti da. colui, che qui ti move
Ad una faticosa e strana pugna ;
Ch' avrai con esso teco e non altrove,
E per vincer leoni, tigri e orsi.
Vincendo te, ìninori son le prove.
I non mil fei ridir, ma via trascorsi,
Qual timido cavallo, che s' arresta,
Nel apparir d' un ombra e sta su morsi.
Poi volto in fuga soffia ad alta testa,
Ma chi gli sede addosso presto il toma,
Stiìnge 1 ai fianchi e fra V orecchie il pesta.
Ond' egli per le botte si ritoma
In quella parte, onde lo smosse 1' ombra.
Di passo nò, ma coitc e non soggiorna.
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22 II caos — Sklva piuma
Tragomi drente al fine, ove me 'ngombra
Notte, eh' ancor più m' ebbe ottenebrato,
In luogo, cui la terra intorno addombra.
Ed io ne stetti non d' abisso al lato,
Ma in centro d' ombre grosse denso, e folto,
Qual talpa preso in gli occhi e smemorato.
; Così più mesi in quella tomba involto,
[ Io pronto spirto ne la carne inferma
Stetti non pur prigione ma sepolto.
Finché, o natura, Y opra tua fu ferma.
MELPOMENE.
IVJLentre piangendo Y alte strida e urli.
Sorelle mie, si duramente innalzo.
Da me sol viene il tragico costume.
Lasciati i crin al vento, che ridurli
Qui non bisogna in trezza, ne '1 pie scalzo
Guidar per vaghi fiori e verdi piume
De prati lungo al fiiune.
Anzi sdegnando quella piaggia e questo
Poggetto ameno statine qui meco
In solitaro speco.
Finché mie rime udite sian di mesto
E lagrimoso canto, il qual risulte
Da quei sassosi monti e valli inculte.
Depon, Urania mia, la tua siringa.
Che settiforme ha in se del ciel il tipo,
E tu Clio la lira, ove 1 mantòo
Al greco vate fai eh' ugual attinga (1).
E mentre i lauri e 1' edere dissipo.
Spargi quei fior del corno, clie 1' eròo
Già svelse ad Acheloo,
Erato mia : ne tu Polinnia il plettro
Ne Caliope Y arpa, ne la cetra
Talia, s' unqua s' impetra
(l) ove *l mantoo
Al greco vate cioè Virgilio e Omero.
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Il caos — Selva prima 23
Grazia da noi, pulsate, eh' ora il settro
Tengo fra noi: cessando ancor le stanze
Di Euterpe, e di Tersicore le danze.
Ahi ! di qual gioia e quanto bella effige
Traboccar vidi l' uomo in tanto scorno ;
Mirati 1 ciel come, di gi'ado in grado,
Sol per causarli util piacer, s' afflige.
Volgersi tra duo moti adversi intomo.
Mirati '1 Gange, l'Istro Nilo e Pado,
Ogni altro fiume e vado.
Tornarsi d' onda in onda al vecchio padre.
Pioven le nubi e la porrosa terra
Dal centro si disserra.
Sorbendo il dat' umor, onde già madre
Fassi di questo fior e di quel pomo,
Per aggradir e aggrandir im uomo.
L' uomo, che 'ngrato a Dio non eh' a natura,
Per antiporre un fral desir al dolce*
Suo fermo stato, giustamente abbietto,
Fu d' alta gloria in infima iattura,
La cui durabil colpa in ciel si folce.
Che mai non parte del divin aspetto.
Però sta fermo e stretto
Destin a penitenzia d' un tal fallo.
Che r uomo in grembo a morte quivi nasca.
Cosi dal cielo casca
L' alma di novo fatta in scuro vallo,
Dove se stessa oblia cieca infei-ma.
Già devoluta in sterco fango e sperma.
Indi natura, per supplicio degno,
Men se gU mostra madre che noverca ;
La qual ogni animai prò vede con tra
L' ont^ del tempo, dandogli sostegno :
Nasce pur 1' uomo ignudo, il quale cerca
Schermh'si d' un agnello, volpe o lontra
Dal gelo in cui se 'ncontra.
Che di scampo megliore non ha copia. h
Ma di squame coperti, penne e lane. ^
Per fiumi selve e tane
Van pesci, augelli e fiere. In somma inopia
t
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V 84 11 caos — Selva prima
Sol nasce 1' uomo, cui cade per sorte
Pianger nascendo, e nato gii' a mort^.
Non così tosto un augelletto spunta
- Del uovo fora, quando a tempo nasce,
' • Ecco s' addriccia, e con soppresso grido,
.y Del becco V esca piglia in su la punta :
':'■ E senza documento di chi 1 pasce
Su r orlo estremo tirasi del nido,
" Donde giù fimde al lido
Ciò che smaltisce per servarsi netto.
y^^ Non così r uomo nò, che d' ora in ora
? Convien di fascie fora
^/ Cavarlo, in cui legato stassi stretto,
fi, E trarlo, di sozzura e puzzo lordo,
»- Al misero suo stato e cieco e sordo.
Or dite, prego, quand' egli mai s' erge
- Coli' aspetto nel ciel onde si parte.
Che pria carpone de le braccia gambe
; ' Non faccia, mentre in foggia d' angue perge ?
Che se al contrasto di natura Y arte.
L'industria in suo ripar non fusser ambe,
Mentr' egli fugge e lambe
Lo sin materno, peggio de le belve
Ne rimarebbe, tanto 1' odia e sdegna,
E fassigli matregna
Colei, eh' abbella monti, valli e selve,
E d' un sì gentil figlio non tien cura
Pel torto del primier ; dico natura.
Solo la donna artefice e la industre
Parton de le sue membre 1' officina ;
Ma quant' è '1 pianto e quante le percosse
Anzi, eh' ancora il misero s' industi'e
Saper su piedi starsi ! onde mina
Sovente si, che molte fiate mosse
Di luogo porta l' osse,
Restandone d' un mostro più deforme ;
Cosa non già, che nelli armenti caschi.
Cercate e' verdi paschi,
Le nubi, i fiumi, quante sian le forme.
Che nate apena, chi '1 noto, chi '1 volo,
Chi prende il corso, e 1' uomo casca solo.
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Il caos — Selva prima 26
Deh I perchè nasce lo WeKce dunque
Di tanti sti-ali ad esser un versaglio ?
Ogni tempesta in lui sVaggii'a e scarca,
Ogni virgulto se gli attacca, ovunque
Move di questa selva nel travaglio,
S' avien eh' egli pur goda, ecco la parca
Rumpelo al mezzo, e varca
La vita al sol, qual nebbia o forno al vento,
Stato pennoso e miserabil tanto !
Ch' altro, che affanni e pianto
Travagli, sdegni, lagrime scontento
Attende uomo che nasce ? e se lo move
Fortuna a qualche onor, morte vi 1 smove.
Queste parole in capo
Voglio sculpite sian d' ogni tiranno.
Lo qual non esser Dio, ma fumo e nebbia
S' intenda, e che non debbia
Farsi adorar al mondo, perchè vanno
E vengon tutti eguali di fral seme.
Ma tal le piume tal le paglie preme.
TRIPEEUNO.
D.
'apoi li giorni e mesi, che 'n tal centro
Si lordo il mio destin crescer mi fece,
Donna m' apparse a quel girone dentro.
Ch' indi sciolto mi trasse d' orbo in vece.
Poi molto altiera disse : Or tienti in mente
Mortai, che più tornar qui non ti lece.
E ciò parlando, 1' empia e inclemente.
Nudo fanciul ne la stagion pifi acerba
Lasciommi solo e sparve incontanente.
Sparve costei d' aspetto alto e soperba,
E ove allor passava, in ogni canto
Seccar facea con fior e frondi 1' erbe.
Fin che di neve col gelato manto
Mi ricoperse intomo e monti e selve ;
Di che tremava con dirotto pianto.
Miravamni da lato e fiere e belve
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26 II caos — Selva prima
Con ogni augello d' alcun pel guarnito,
Qual sia, che 'n grotte alberghi o qual s' inselve,
Ma sol io nudo sopra il nudo lito
Stavami d'Aquilone sotto '1 fiato,
Ne fui per tanto da pietade udito.
Il qual piangendo mover quel spietato
Avrei potuto, eh' ogni fanciuUino
Uccise, per mal zelo del suo stato. ,
Chi vide mai d' inverno un cagnolino
Tremar su T uscio chiuso di chi '1 tiene.
Usato starsi di madonna in sino ?
Così veder potea me con le rene
In terra nude, volto in quella parte
Del ciel, ove '1 suo moto si conviene.
Ed ove '1 serpe tortuoso parte
L' orribil Orse, dove nasce il spirto
Del fier Boote, che non mai si parte.
Qual fiume e lago, eh' aspro duro e irto.
Non ferma il corso di Calisto in braccio?
Ma non vidi poi sì d' un lauro e mirto.
Anzi con altri assai di quell'impaccio
Lor vidi sciolti, e con bella verdura
Starsen di neve in mezzo, o presso al ghiaccio.
Mercè le calde gonne, che natura
Lor diede per servarli etema vita,
A lor si mite, a noi maligna e dura.
Ma 'na donzella, non so d'onde uscita,
Presta negli atti e d' abito succinta,
M' accolse in grembo di servir spedita.
Poi lunga fascia intorno m' ebbe cinta.
Portatomi già dentro una spelonca
Ben chiusa intomo e di fuligin tinta.
Ver* è, che d' uomo come statoa tronca
Di braccia e gambe, in que' legami resto,
E così giacqui stretto in picciol conca.
Onde col capo sol, eh' un oncia il resto
Mover non poscio, volto a lei parlava.
Con queir istesso di fanciullo gesto,
Qual fece altrui con Dio, quando d' ignava
Lingua mostrossi, e proferir non valse,
Dovendo predicar a gente prava.
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^■^;j
Il caos — Selva prima
27
Chi fii la donna, dissi, cui si calse
Gitarmi in terra nudo, al vento e pioggia,
Onde '1 mio corpo di gran gelo ne alse ?
Ella sorrise, lagrimando, in foggia
Di chi nel petto amar e dolce copre,
Poi disse : eternamente non s' alloggia
In questa terra, ne si cela e scopre
Il sol eternamente : sol un franco
E fermo stato è molto al ciel dissopre.
Di là cadesti e sei per montarvi anco,
Se 'n questa umana vita di due strade
Dritto sentiero pigli, e lasci '1 manco.
Però eh' al fin de la più molle etade
Ti trovarai su 1 passo di Eleuteria,
Che per doi rami è guida a dna contrade.
Quinci ratto si viene a la miseria.
Quindi al pregio acquistato per lung'uso.
Che s' ha quanto di aver si dà materia.
Over, sia dunque tempo, che 'n ciel suso
Ritornerai vittor di questa giosti-a,
O cascherai di quel, che sei piii giuso.
La donna, che sì cruda ti si mostra,
Fidel ancilla del eterno padre.
Non odiar,- perchè è la madre nostra,
Nosti'a non pur, ma d' ogni pianta madre,
Almafisa chiamata, che riceve
Sua faina in ^variar cose leggiadre.
E s' or il mondo f ha cangiato in neve ;
Non d' aspettar f incresca, perchè i lidi
Rinovellar de fiori ancor ti deve.
Ne sia perch' animale alcun invidi
Uomo per piume, o squame, o pel, che s' abbia.
Ne perchè sappian tesser antri o nidi ;
E tu sol nudo isposto al empia x-abbia
Di Borea, veda ogni vii canna e legno
Armato contra 1 freddo ed atra scabbia.
Questo forse ti pare d' odio segno.
Pur sta sicuro, e fa che ti conforte,
Ch'odio non è, ma sol un breve sdegno.
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28 II caos — Selva prima
S' odio tal fosse, ti darebbe morte,
Ne avrebbeti produtto Dio giamai.
Ne fatto del suo regno al fin consorte.
O me felice, dissi allor, non mai
Esser nasciuto, o senza altra vittoria
Di carne, gioir sempre in gli alti rai.
Ne' rai, quella ri&pose, de la gloria,
De cui ragioni, per gioir non eri.
Se pria non dato avesse qui memoria.
Alma non fa, ne fora mai, che speri,
Innanzi d' està vita i vari affanni.
Viver del ciel in que' lunghi piaceri.
Guarda, figliuol, che forse tu te 'nganni,
S' esser for eh' in idea ti pensi etemo.
Nauti la forma de' corporei panni.
Li quali ebber principio dal sopemo
Padre, con Y alma scesa in questi guai,
. Ove, de la vertù se col governo
Di questo vento Y onde sosterrai.
Che non ti caccia quinci e quindi a voglia,
0 lode, o fama, o pregio che n' avrai.
Però d' esser nasciuto non ti doglia.
Ne di Almafisa il sdegno oltra ti prema,
Che 'n ciel dei riportar felice spoglia.
E salirai sopra la cinta estrema.
Che le soggete del suo moto avisa,
E molto di lor proprio moto^ scema.
Anchinia industre sono, sempre fisa
Supplir ai mancamenti con beli' arte.
Se mancamento è in quella d' Almafisa.
Ne son, quand' ella cessi,- per mancarte
Di pronti avisi e di sagaci modi
Scoprendoti mie prove in ogni parte.
Fra tanto così stretto in questi nodi
Voglio tenerti, fin che a tempo ritto
Ti sosterrai su piedi fermi e sodi.
Ma viene ecco mia sore, eh' en Egitto
Uscita, da Caldei l' uman dottrina
Portò de le scienze a suo profitto.
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Il caos — Selva prima 29
Ed anco è audace sì, eh' assai vicina
Sovente a Dio poggiando si ritrova,
E vede lui d' una persona e trina.
Costei r altezza di natura prova,
Distingue, insegna in argomenti fermi,
Ma sopra lei sol contemplar le giova.
Che sa quanto sian debil ed inermi ^
Gli sensi imiani e la divina altura ,^
Non che i ragionamenti ottusi e 'nfermi. |
Costei la terra, il mar, il ciel misura, i|
Nomerà le cagion di pioggie e venti, |
Coli' osservar di stelle ogni mistura.
Costei quk giù gli armonici concenti
Seppe cavar su dal soave moto.
Per levamento de V afilite genti.
Costei de' spirti con vigor, Y ignoto .^
Cognito fa, li quali sotto Y etra • ^
Perdon ne l'aere più dal ciel rimoto. '
Costei sa le virtù d' ogni erba e pietra. *
Orando persuade il giusto il torto, v
E canta e' gesti altrui nel aurea cetra.
Senza costei non è stabil conforto \ ^
Di questo mare al travagliato corso, ,/j
Da lei tu sempre avrai secmo porto. f i
Ed io con lei ti mostrerò quell' Orso f i
Con r Orsatino suo (l), che sian tuo guida !
Per ogni spiaggia e periglioso dorso. \
Non sarà vento mai, che ti divida, - \
Stanne sicuro, dal governo loro ; i
Che la sua luce altera no '1 conquida. ]
Quel di Vinegia sommo concistoro
Muove sotto costei lo gran stendardo,
E pose in man de l' Orso il leon d' oro.
(1) Allude a Camillo Orsini capitano generale dei Veneziani, ed al
di lui flgUuoletto Paolo, del quale il Folengo era precettore. Al giovinetto
Paolo dedicò gli esametri posti in fine deir Orlandino, e fu durante la sua
dimora presso cotesta nobile famiglia romana che compose e stampò tanto
r Orlandino che il Caos.
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30 II caos — Selva prima
Orso non men di senso, che di guardo
Pronto a le imprese liberal e schietto,
Veloce al perdonar, a V oiite tardo.
Parlava la dongiella, e gran diletto
Favoleggiar di quello si prendea,
Quando Y altra giungendo a lei rimpetto,
Con voce e viso altier così dicea.
TECNILLA.
Ou, presto, Anchinia, su, che tardiam noi?
Esca d' impaccio ornai, ne più si lasce
Tanto bel spirto avolto in quelle fasce,
Ch' aver etemi in ciel dee i giorni soi.
ANCHINIA.
jl ar una impresa tostamente e bene,
Che d' alto pregio ed eccellente sia,
Nostra vertù non è, Tecnilla mia.
Ma solo al re celeste ciò conviene.
Egli sol' è, elle, tra '1 pensier e V atto,
Non cape tempo, quanto esser può breve ;
Che produt^endo un fior non ha men leve
Fatica, eh' ebbe a far quanto è mai fatto,
Quest' animai è di maniera tale.
Che, qual sia per venir, non vien sì presto ;
Cosa non già d' altro animai, che questo
Vive dapoi, quel' è caduco e frale.
Però gran tempo, ove 1' arte s' impaccia.
Va tanto più. quand' è Y opra più degna,
Tu stessa el sai, ne alcun alti-o te 'nsegna,
Se non la prova e le tue stanche braccia.
N
TECNILLA.
on le dir stanche, ove '1 sudor gradisce ;
Che un dolce incarco mai non fa strachezza ;
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Il caos — Selva prima 31
Oade, quanto lo induggio, la prestezza
Perfettamente ogni opra sua compisce.
Ch' ove intervien de nostri alti pensieri
Volunteroso ed avido consenso,
Si pria r aflfetto e poi l'effetto immenso
Cresce, eh' al fin non ha, che più alto speri.
Io sola in r uomo tutti e' miei concetti,
Lieta, riposi, e non in altra cosa,
E tu Almafisa, benché neghitosa
Gli sei, non temo già che '1 sottometti.
ANCHINIA.
J. aci non dir così, germana sciocca,
Ch' error di lingua va, ne mai ritoma,
Troppo sei baldanzosa, e chi le corna
In ciel voi porre, al fin giù si trabocca.
Natura non pur V uomo, ma .più d' uomo
Se cosa altera nasce, per la chioma
La tien al segno, egli la grave soma,
Volendo o no, se 'n porta ximile, e domo.
TECNILLA.
s
i ; quando Y arte mia non vi s' arrisca
Opporsi a quante passion e onte
Fargli può mai quella soperba fronte,
Ch' ei sotto soi flag-elli s' inutilisca.
''o^
ANCHINIA.
A. u fermamente, se non tutta, in parte
Sei fatta stolta e garrula, Tecnilla,
La qual in foggia d' arrogante ancilla
A tua madonna crediti aguagliarte.
So ben ch^ ogni pensier hai d' imitarla,
E volta in tal desio, sempre la invidi,
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32 II caos — Selva prima
Onde, perchè non mai la giugni, gridi
E latri, come obi d' altri mal parla.
Ma sta sicura, che senz'onda il mare,
Senza splendor il sole, senza belve,
E nauti senza augelli fian le selve.
Oh' un picciol neo mai lei poscia eguare.
E ciò saper, non m' è durezza alcuna,
Quando eh' io d' ambe voi son V aiutrice,
Ed anco Pira (1) donna ferma altrice,
Di tutte prove vien meco in quest'una
Sentenza, che natura in un momento
Formando un picciol vermo, eccede tanto
L' arte operante al sforzo estremo, quanto
Ogni vii cosa V ampio fermamento.
Di che, qui darti intendo un sano aviso,
Se alcuna è in te virtù la riconoscili
Sol d' Almafisa, che se i monti e boschi
Ci nega, V opre nostre son un riso.
TECNILI^.
N
on far, Anchinia, più di ciò parole,
So ben eh' industria in lo finger natura
Fu sempre vaga, onde non ha misura
Lo giudice, che tien la parte sola.
ANCHINIA.
>e d' adular son vaga nostra madre,
Tu adulterarla più, che 'n 1' altrui vista
Fai naturai quel eh' opra è di sofista.
Ne men le mani hai de le voghe ladre.
(l) Pirra, moglie di Deucalione. Vedi la leggenda di questi due per-
sonaggi mitologici relativamente alla riproduzione del genere umano, di-
strutto dal diluvio, detto di Deucalione.
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GGfogle
1
Il caos — Selva prima 33
M
TECNILLA.
allegi'o ben, che te stessa condanni,
O scema d' intelletto ; non f accorgi
Quanto di scorno, me biasmando, porgi
A te medema, e '1 tuo veder appanni ?
Son io ne Y opre mie più da ragione
Che dal industria mossa, e 'n Y opra imago,
De la viril Etìa (1) più m' apago,
. Che 'n la tua ornata sol di fizzione.
Che quanto avanzar puoi de le nostr' opre,
T' industri porlo in grembo d' avarizia,
E fai così, che Y empia tua malizia
Col manto mio negli occhi altrui si copre.
Però qual meraviglia se la fraude
Di verità sta involta ne la pelle ?
E s' imputate al arte sian le felle
Tue astuzie, onde Almafisa ride e plaude ?
Sen ride e plaude in foggia di eh' altrui
Odiando, il vede scorso in qualche scherno.
E tu quella pur sei, che nel inferno
T' ingegni penetrar ai luoghi bui.
E trame la cagion di tante risse.
Furti, omicidi, stupri, e sacrilegi.
Dico '1 metallo, con cui adorni e fregi
Le menti umane sì, che 'n quel stan fìsse ;
Ne più s' inalzan a specchiar il lume,
Ch' io di natura posi oltra la cima,
E men d' un arca d' or si prezza e stima
XTn atto generoso e bel costume.
Ma perchè Y ingordigia di quel mostro,
C ha ventre e morso d' adamante e foco^
Empir non puoi, eh' ogni esca gli par puoco,
E va fremendo in questo mortai chiostro.
Tu, che levarmi d' arte il nome cerchi.
(1) Etia, 0 Etio, 0 Protogenia, figlia di Deuculioiie e Pirra, e madre
di Etlio.
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r
ì-
1
:t' 34 II caos — Selva prima
p: E quel che Alchimia si dimanda pormi,
^-- Altri metalli in or pai- che trasformi :
•' Oro non sono ed esser pur alterchi.
A Misera che tu sei, non vedi chiaro
i^,. Ciò che fai senza l'arte sa di froda?
y,:^ Non vedi ben, che non si rompe, o snoda
Il laccio che a la gola tien lo avaro ?
Quanto meglio farai non dipartirti
Dal primo nostro rito e modi antiqui,
E 'nvestigar in ciel qual sian H obliqui,
E qua' gli dritti segni, e più alto i spirti
Che causan e' duo moti e tante fiamme
Scoperte al uomo nostro, che 'n la culla
Qui tieni avolto come cosa nulla,
Cui romper già s' affretta Cloto il stamme.
s
ANCHINIA.
1
io sì rubalda qual or m' hai depinto
Io teco fusse, o maldicente donna,
Rubalda anco sarei con mia madonna,
C ha fatto r uomo e non, come tu, finto.
Tu fingi r uomo, anzi tii '1 stempri e spezzi,
Tu '1 snervi, tu '1 disossi, guasti e spolpi,
E poi se mal gli vien, natura incolpi,
Che più d' un uomo una formica apprezzi.
Dimmi, insolente donna, perchè resti
Con quella forza tua, che d' Almafissa
Passa r altezza, si la sai prolissa,
Oprar che mal alcun non 1' uomo infesti ?
Se ferreo è il nervo, se d' azzale è il braccio.
Se tant' è '1 tuo valor, eh' aver ti vanti,
Perchè non smovi le cagiou de' tanti
Uman affanni, febre, caldo e ghiaccio ?
Perchè non freni, se la grazia tua.
Ove si splende, parla sempre il vero,
Queir Eolo de' venti, e' ha l' impero
E fa sentir altrui la forza sua?
Perch' anco in cielo, d' Orlon a tergo
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Il caos — Selva prima 35
Latrando un picciol cane, tanta rabbia
Sparge d' ardor, e tanf umor e scabbia
Diffunde il drago dal suo eterno albergo ?
Ultra dirò : per qual cagion non svelli
De le sanguigne mani di Taneta
La falce, che giamai non si acqueta
Troncar gli umani e farne polve d' elli ?
Taneta i dico sì, atra ninfa e cruda.
Che tuoi Fiatoni e Socrati non scelse,
Anzi quanto le teste son più eccelse
Lor spezza, e d' elli tu ne resti nuda.
TECNILLA.
l/uanto a le dua stagioni, al uomo infeste.
Non ti rispondo, perchè già la impresa
Ti diedi di ciò degna far la spesa,
Contra lor, d' ombre, tetti, piume e veste ;
A d' altii morbi assai per te si occorre,
Cli' hai simil esercizio, ne vergogna
Ti paia impreso aver da la Cicogna
Un ventre adusto foggia per dipori'e.
T^ come a la mia ninfa Filomusa
La tibia per isporre il canto usata
Trovasti già, così ha farmagia grata
La tromba, eh' al purgar un ventre s' usa.
Di ta' remedi al miser uomo e schermi
Contra 1' offese di natura cerco,
Studio ti vien, e poi la laude e '1 merto,
Perchè sollevi, Anchinia mia, gì' infermi.
Ma quando a quel, che V invincibil ferro
Del improba messora frenar debbia.
Voglio non puoter farlo, che di nebbia,
Per mezzo suo, gli alti intelletti sferro.
La morte a miei seguaci è un esca dolce,
E di natura for del fango i purga,
Ed è cagion, eh' im alma d' ombra surga
Nel alta luce, di che '1 mondo folce.
Qual è chi viva e non vedrà la morte ?
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36 II caos — Selva prima
David cantava lieto ne la cetra, ,
Bramoso il gentil spirto d' està tetra, '
Prigion' uscir a la celeste corte. |
Però di meglio, eh' io puotendo tiri
Tanti miei figli tosto d' està tomba, |
Ch* un cor non più s' incende al son di ti-omba
D'un alma santa a gli ultimi sospiri. |
Ne farle può natura più grand' onta,
Che 'n questa vita sua menarla in lungo, i
La qual può invidiar un fior, un fungo, |
Ohe nasce e mor fra un sol, eh' ascende e smonta.
ANCHINIA.
l^tolto parlar, se non stolta risposta.
Potrebbe aver, onde chi sempre tacque
A gli insolenti detti, sempre piacque,
Dico quanto al clistere, o sia sopposta.
Bensì potrebbe un portico, un palagio,
Un vestal tempio e un anfiteatro
Addiure in loda mia, 1' arme, 1' aratro.
La nave, e tante cose, ma '1 malvagio
Rancor t' accieca, e legati la lingua
Che non può dir quel che ragion la sferza.
Tu non sei prima, ne seconda, e terza.
Quando che V ordin nostro si distingua.
Se ti credi esser, non di te son quarta.
Roditi pm' se sai, che non ti cedo,
E s' attendermi voi mentre eh' io riedo,
Possio condur, chi tal dubbio diparta.
TECNILLA.
0
temeraria e arrogante, mira
Come si gonfia questa fabre vile :
Qual giudice sarà tanto sottile.
Che nostra lite concia? dimmi, è Pira?
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Il caos — Selva prima 87
Dico quell' altra de le prove mastra,
Che come tu vantandosi va, eh' io
Cosa che vaglia senza lei non spio,
E di Almafisa appellami figliastra.
ANCfflNIA.
V.
antarsi drittamente può qualunque
Trovasi aver servito qualche ingrato.
Che quanto ben è in te non Y hai trovato,
Se non per il suo mezzo, e pur ovunque
Esser ti trovi, eh' altri non conosca
U astuziette tue donde prevali.
Ti fai sì grande, che s' avessi 1' ali
Così d' ogni altro augel com' hai di mosca,
Egual salir vorresti al gran monarca ;
Lo quale sol voi essere, che senza
Sian r opre sue d' alcuna esperienza.
Ove egli pienamente e ratto varca.
TECNILLA.
Di
"i me medema meco mi vergogno ;
Trovandomi altercar con essa teco.
Hai forse il capo tepido di greco.
Ubriaca che tu sei, eh' ancor bisogno
Farrotti aver del tempo, ch'hai qui speso
In dirmi oltraggi, meretrice lorda?
ANCHmiA.
N<
on mi toccar, Tecnilla, questa corda.
Che peggio sentirai quel, e' ho sospeso
Di lingua in cima. Or taci e sia tuo meglio.
Dir onte altrui, ne udirle voler poscia
È di pazzo costume, ma d' angoscia
Mentre sei pregna, va mirarti al speglio.
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38 II caos — Selva prima
Se vergognarti voi più del tuo volto
Fatto di mostro, per soverchia furia.
Che litigar qui meco e dirmi ingiuria,
Le quali di te meglio forte ascolto.
TRIPERUNO.
E.
iran le due sorelle omai sì d' ira,
Per la puntura di sue lingue, in cima.
Che fu tra lor per esser pugna dira.
Ma grave donna di molt' altre prima.
Dolce cantando, fuvvi sopragiimta,
La cui beltà non quanto sia s' estinui.
Un arpa con sua voce ben congiunta
Fece, che da le dna già in arme prone
La gara venne tostamente sgiunta.
Latte di tigre, o sangue di dragone
Ben mostrarebbe aver beuto infante,
Chi non saltasse udendo sua canzone.
Non è di pietra cor, non d' adamante,
Non di Neron, Mezenzio, Erode, Siila,
Che non si dileguasse a lei davante.
Onde non pur Ancliinia, con Tecnilla
Lasciar V ingiurie fattesi, ma sono
E questa e quella pifi che mai tranquilla ;
Anzi legiadre, al numerabil sono.
Di diece corde, mosser una danza.
Dandosi un bascio ad ogni sbalzo nono.
Quivi Almafisa venne con V orranza.
Fra mille ninfe d' arbori de fiiuni,
Ch' ognun concorre a quella concordanza.
Ne men scherzan in cielo e' chiari lumi,
Nel mar e' pesci, e 'n cielo quei del volo,
Le fiere in terra, e i serpi ne lor dumi.
Stavami ne le fascie stretto e solo,
Si come r augelletto, il qua! distende
L' ale, ma non s' innalza e n' ha gran dolo.
Chi su, chi giù quel tutto, che s' intende
Dal uomo se non a pieno, almen in parte,
I
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Il caos — Selva prima 39
Va, vien, traversa, coito, monta e scende.
Ciascun mai d' Omonia non si diparte :
Così la cantatrice udì chiamare,
Che i passi altrui col canto suo comparte.
Io che r eiTante machina danzare,
Per quel dolce concento, vidi al moto
Universal e poi pai-ticolare.
Di quei legami tutto mi riscuoto.
Come colui, che lungo indugio annoi.
Dovendosi asseguir qualche suo voto.
Svelsi di quelle scorze un braccio,, e poi
Con quella svelta man, che i nodi sterpe.
Tanto cercai, eh' usciron ambi doi.
E con quel modo, eh' un immondo serpe.
Vedendo, ov' era '1 ghiaccio, nato il fiore
Si sbuca lieto d' un' angosta sterpe,
Dove si spoglia il vecchio corio fore
Tutto d' argento, ed or fassi più cinte
Del ventre al capo, ed or segue '1 suo amore,
Tal io, poi che le spoglie risospinte
M' ebbi d' addosso, per danzar su m' ersi.
Ma fumo dal desio mie forze vinte.
Che surto in piede starvi non soffersi.
Anzi cascai, donde corse a comporre
Anchinia un carro, il qual meco si versi.
Su tre rotelle il carriuolo corre.
Ed è, si come io son di lui, mio guida.
Che al passo infermo e debile soccorre.
Di ciò par ch'Almafisa se ne rida,
Che '1 legno arguto poggia ovunque poggio,
E che r industre Anchinia è che m' affida.
Ma con le mani a lui mentile m' appoggio,
E ir con seco quinci e quindi bramo.
Ecco me 'ntoppo in qualche adverso poggio.
Di che sosopra il cari'o e io n' andiamo,
Qual resta integro, e io n' ho rotto '1 naso,
E che ritto mi torni Anchinia chiamo.
Anchinia mi rileva, e d' ogni caso
Per le percosse, eh' atterrato piglio,
Presta ricorre del onguento al vaso.
Ed io, eh' oltra '1 dolor esser vermiglio.
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40 II caos — Selva pkima
Comprendo il lito del mio sangue, invoc
Lei con la mano posta al pesto ciglio.
Ma quella mi risana, e anco al gioco
Di quel mio tal destriero mi riduce,
In fin che da me stesso, a poco a poco.
Ir poscia senza il carro e altro duce.
SESTINA LI CUI CAPI VERSI DICONO QUELLA SENTENZIA.
CONCORDANTIA — DVRANT — CVNCTA — NATVRE — FEDERA.
URANIA.
e
ome '1 primo veloce mobil cielo
O pposto a quei, che volgono le stelle
N on li distempra e sé tramuta in foco ?
C om' è sospesa ? e chi sostien la terra ?
0 nde con lei forma, ritonda, il mare,
R itien, e mai posando non ha pace ?
D' ima concorde e ragionevol pace
A vinse 1' alta causa, cielo a cielo,
N emen con pace in magior cerchio il mai'e
T iensi a la terra, e giran sette stelle
1 n sette sfere, il cui centro è la terra,
A nti dal aere cinta e poi dal foco.
D ubbio non è, che '1 mondo, o in acqua o 'n foco,
V erra sommerso, quando la lor pace
R otta sarà, per sfare il mar, la terra (1).
A Uor, che de fermarsi il nono cielo,
N e più. rotarsi '1 sol con le sei stelle,
T rarsi nel centro di la teri'a il mare.
(1) È singolare la nozione che il Folengo ha delhi sferacità della
terra, e del suo moto, e di essere centro di un sistema planetario. Couie
in parte sono esatte le cognizioni clic rivela di possedere circa la forma-
zione plutonica delia terra.
Il Folengo, oltrecchè poeta, si intende che era anche scienzia4«.
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Il caos — Selva prima 41
0 rebbe, fii tempo già, su V alpe il mare ;
V orar il mondo deve ancor il foco.
N on fia perpetuo il giro de le stelle,
C he al fin col cielo avran quiete e pace.
T ratto già il ceppo uman, o su nel cielo
A starvi sempre, o 'n centro de la terra.
N on t' invagir dunque omo de la terra,
A nzi contendi, ove di gloria il mare
T u lieto solcarai, salir in cielo,
Ù sempre t' arda Y amoroso fuoco,
R iposto d' alma in alma in somma pace,
E sotto i piedi ti vedrai le stelle.
F ece r alto fattor sopra le stelle
E giù nel più profundo de la terra
D uè stanze, Y una detta etema pace,
E r altra, di perpetuo foco, mare.
R inchiuso entro la terra, al ombre è il foco,
A r alme gioia eterna su nel cielo.
F
è Dio r uomo di terra, che 'n le stelle
Avesse pace, ma chi nacque in mare
Trailo dal cielo in sempiterno foco.
TRIPERUNO.
i^oscia che vide, per industi-ia e arte,
Natura finalmente Y uomo in piede.
Correr veloce in questa e 'n quella parte,
E tesser Y animale, il qual possedè
Aitò saper e di ragion dottrina.
Che fora poi d' eterna vita erede.
Con lieto e dolce aspetto a me s' inchina,
Qual mansueta madre, eh' al figliuolo
Prima di sdegno fu cruda e ferina.
D' innumerabil figli dentro il stolo
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42 II caos — Selva prima
Da lei fui ricondutto al bel giardino
Dove altrui vive lieto e senza dolo.
Quivi sotto '1 pacifico domino,
Ed aurea stagione di accacia,
Vissi gran tempo semplice bambino.
Fin eh' indi, mosso poi per lunga via,
Fui rÌ€ondutto a ritrovar Altèa
E r altra donna che 'n nostra balìa
Conunette ambe le strade e bona e rea.
DE LA PUERIZIA E AUREA STAGIONE,
EUTERPE.
Gì
ria rinovella intomo la stagione,
Ch' eternamente verdeggiar solca
Prima eh' avesse Astrèa
Gli uomini a sdegno, e se tornasse ai dei,
Lasciando in lor queir altra così rea,
Che li arde, mentre Febo alto s' impone
Al tergo di leone,
O quella, che dai monti iporborei
Riporta il gielo agli Afri e Nabatei.
Or, che V occhio del ciel aggiorna in tauro,
Or, che '1 fior spunta ove '1 ghiaccio dilegua,
Or, che '1 scita col indo vento tregua
Fatt' hanno, e dato è in preda il tempo al Mauro,
Zefiro torna in colorar i lidi,
E i pronti a tesser nidi
Vaghi augelletti, per lor macchie errando
Natura van lodando,
C ha ricondotto così lieti giorni,
D' aura gentile d' erbe e fronde adorni.
Fermati, Apollo, pregoti, nel grado,
Ch' oggi ascendendo e poggi e selve abbellì,
E gli am-ei tuoi capelli
Tempratamente spandi al universo,
Onde amorosi leggiadre tti e snelli.
Ne vengon gli animali tutti al vado
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GooqIc
Il caos — Selva prima 43
Non d' Istro, Gange o Pado,
Ma del suo naturai obbietto, verso
C ha r un di V altro, quand' el ciel più. terso,
Verde la terra, il mar tranquillo e piano.
Fermati, Apollo, e 'n sì bel trono sedi.
Fin che, a le mani, al collo, a 1' ale, ai piedi
Del tempo, egli scamparse, aman a mano,
S' asseta, tant' è vano,
Pireno e Apenino sian appesi.
Che non si parta, e i mesi
Porti con seco e V aura e '1 dolce umore,
Ch' or monta in ogni foglia, in ogni fiore.
L' aureo, gioioso e mansueto Aprile,
Ch' or sparger d' ombre i verdi campi veggio,
Piacciali etemo seggio
Qui prender nosco, eh' altri non succeda.
Partito lui, si va di mal in peggio ;
• Mentre vi spira 1' aura sua gentile,
Parca non sia, che file
Umana vita, e Morte a Pluto rieda,
Sol' ombre ove posseda ;
Rinverdasi da se omai la terra.
Valete aratri, marre, falci, e zappe,
Non più vepri saranno, cardi e lappe,
Quella natia vertù, che 'n lei si serra,
Senza eh' altri la sferra,
.Uscendo, stessa ci dimostra quanto
Sia di natura il manto
Piti bello, senza 1' arte e più verace,
Ch' opra di voglia più del altre piace.
Ecco di latte scorreno già i fiumi.
Sudano mele i faggi, oglio li abeti,
E su per que' laureti,
Celeste manna riccogliendo vanno
Le virgin ape, e i rosignoli lieti,
C han d' or le penne, entro purpurei dumi.
Nidi d' argento e fine perle fanno,
Securi di rapina od altro danno.
U im paventosa lepre lato al cane,
L' agnella presso al lupo queta dorme.
Che tutti li animai, già in lor conforme,
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44 II caos — Selva prima
Natura tene in sue medeme tane :
Securi pesci e rane,
Questi da l'ontra, quelle da le biscie,
Non è chi strida o liscie
L' un contra Y altro per stracciarci '1 pelo,
Che r aurea etade già scese dal cielo.
Date quiete. Posti li aspri giovi
A vostri armenti ornai, duri bifolci,
Ed a que' fonti dolci
Lasciateli appressare : ne quel rivo
Di voi sia alcun che più 1 sostegna o folci,
Ne chi, di loco a loco, lo rimovi.
Che 'n questi giorni novi
Non è di libertà chi venga privo.
Cantati anco pastori, che 1' estivo
E freddo ardore non privar più deve
Di latte, od appestar e' vostn greggi.
Non più clamosi fori, non più leggi,
Che ciò vita gioiosa non riceve.
0 giovo dolce e leve
A r uomo ancora, il qual sprezza fortuna !
Siagli pur chiara e bruna,
Che chi vivendo non fa oltraggio altrui,
Securo di l' aurea stagion è in lui.
E simplicetta e pueril canzone.
Come richiede il suo stesso soggetto,
Fu questa mia, dottissime sorelle,
Di che a voi chiama. Non son io di quelle
Ch' Urania scrive con si bel soggetto,
E n' empi il sino e petto *
Ai duo novi Franceschi, Y un eh' agnelli
Canta lupi e ruscelli,
L' altro del senator 1' alta pazzia,
Ma chi fa il suo poter con gli altri stia.
FINISCE LA PRIMA SELVA
DEL TRIPERUNO.
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DIVVS VATES
OPTIMA QVEQVE DIES MISE
RIS MORTALIBVS AEVI
PRIMA FVGIT, SVBEVNT MOR
Bl, TRISTISQVE SENEGTVS,
ET LABOR, ET DIR^ PARIT
INCLEMENTI A MORTIS.
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in.
SELVA SECONDA
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5
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CAOS
DEL
TRIPERUNO
SELVA SECONDA
DIST.
Unus adest triplici mihi nomine vultus in orbe,
Tres dixere Chaos, numero Deus impare gaudet.
CA.
YR.
ITEXAST.
Mintiadas inter Fulicas mihi sueta phaselus
Cantere, nunc tnmidis Jiequore fertur aquis.
Quonam tanta animi fiducia ? nobile sidus
Astitit, en capiti qua? prant Ursa meo.
Ursa potens mundi, firmo quem torquet ab axe,
Ursa potens pelagi, qua duce nauta canit.
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i
PREFAZIONE
CAOS.
Or pervegnuti siamo al centro confusis-
simo di questo nostro Caos, lo cpiale ritrovasi
ne la presente seconda Selva di varie ma-
niere d'arbori, virgulti, spine, e pruni me-
scolatamente ripieno, cioè di prose, versi
senza rime, e con rime latine, macaronesclii,
dialoghi, e d'altra diversitade confusa, ma
non anco sì confusa e rammeschiata, che
dovendosi questo Caos con l'intelletto nostro
disciogliere, tutti gli elementi non subita-
mente sapessero al proprio lor seggio ri-
tornarsi.
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-«H
l
I
l
Il caos
i
i
SELVA SECONDA
TRIPERUNO.
D
errori, sogni, favole, chimere,
Fantasme, larve un pieno laberinto,
Ch' un popol infinito, a larghe schiere.
Assorbe ognora, tien prigion e vinto,
Voglio sculpir non ne Y antiche cere
Non ne le nove carte, anzi depinto
Di lagrime, sudor, di sangue schietto,
Avrollo in fronte sempre, o 'n mezzo '1 petto.
In fronte o 'n mezzo '1 petto, ovunque io perga.
Terrò qual pelegi'ino mie fortune ;
Datimi o muse, una cannuccia, o verga,
Ch' io, scalzo e cinto ai fianchi d' aspra fune.
Veda come '1 sol esca e poi s' immerga
Nel Oceano, e come ardendo imbrune
Qua li Etiopi, e Ik di neve imbianchi
Tartari e Sciti del bel raggio manchi,
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52 II caos — Selva seconda
Ma poi che di mia sorte il duro esempio
Mostrato abbia del mondo in ogni clima,
Fìa cosi noto appesso in qualche tempio
Od in polito marmore s'imprima,
Che chi mirando '1 così acerbo ed empio,
Considri ben qual sia buon calle, prima
Che r un d' ambi sentieri desta vita
Si metta entrare al ardua salita,
Oh, ben saggio colui, che '1 suo dal mio
Voler avrà diverso ne prim' anni
Di nostra sì dubbiosa etade, ch'io
Volendo scorsi ne miei stessi danni,
Travolto in vie sì alpestre dal desio,
Ch'anco ne porto il viso rotto e panni.
Fin che mia sorte, poi che assento in alto
M'ebbe, giù basso farmi fece un salto.
TRIPERUNO.
D.
'el innocente ninfa l'aurea etade,
n bel giardino, le colline, i fonti
Vannosi ornai, che '1 tempo invidioso
In un istante quelli b' ingiotisse.
Bandito dunque sol per 1' altrui fallo,
Errava quinci e quindi ove pur l' alma
Natura mi torcea con fidel scorta.
Era quella stagion, quando Aquilone
Da r iperboree cime sibilando,
In vetro i fiumi, in latte cangia i monti ;
Ckcciomi dentro un bosco tutto solo.
Tanto vi eiTai, eh' al fine mi compresi
In le capanne de pastori giunto.
Riposto s' era Febo drieto un colle,
E la sorella, con sue fredde corna,
Già percotea le selve e ogni ripa,
Vago di riposarmi su lor fronde.
La porta chiusa d' una mandra i batto.
Al sesto e nono cenno fammi aperto.
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Il caos — Selva seconda 68
Starsene quivi ben rinchiusi e caldi
Vidi que' pegorari, al foco intomo
Bere acque dolci e pascersi de frutta.
Qual stato mai perchè si sia sublime
V'ha pai'C al pastoral di contentezza?
Altri di strame rifrescar ed altri
Monger vidi gli armenti, altri purgarli.
Intenti ancor son altri gli agnelletti
Portar di luogo a luogo, e ritornarli
Sotto lor madri, e altri con virgulti
E gionci acuti tessono sportelle.
Ma parte ancora di piti verde etade
Intenti sono a giovenili giochi,
Lotte, salti diversi, e slanzar dardi.
In altra parte s'usan dicer versi.
Toccar sampogne e contrastar di rime*
Altri, de più attempati di lor gregge.
Trattano s'han più spesa che guadagno.
Vadon e riedon altri, più robusti,
Ricercando le màndre, ove ben spesso
Volpe, lupi selvaggi e più gli umani
Soglion discommodar lor santa pace.
In ogni lor empresa vanno lieti.
Amandosi l' un 1' altro con gran fede,
Mercè che '1 capo lor sa T arte a pieno.
Ivi raccolto fui nel dolce tanto
Numero lor, e fatto di sua prole.
Già in mezzo al corso di sua lunga via
Rotavasi la notte, passo passo.
Ecco, dal sommo d' una capannella.
Dove molti pastori guarda fanno.
Insieme al grande aimento con lor cani,
Odesi, dentro una mirabil luce.
Resonar canti e dolce melodia.
Porgon r udita e sentono che : Gloria
In excelsis^ dicean i bianchi spirti ;
Ed avisati dove '1 salvatore
Nasciuto giace là, con allegrezza
Tosto da noi partiti s' aventaro
In quella banda, che fu lor mesticata.
Sol io ritratto in parte for degli altri
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54 II caos — Selva seconda
Sedevami pensar tal novitade,
In fin che ritornati cose oiTende
Mai non udite più d' un fanciuUino
A noi contaron di stapor insani (1).
Ecco, senza far moto alcun ad elli,
Tutto soletto quinci mi diparto,
E sollevando gli occhi al ciel sereno
Vidi una stella rutilar fra 1' altre,
Anti scorgendo sempre il mio sentirò,
Ne mai fermossi finché, al santo loco
Giunto, non mi vedesse e poi smaritte.
Ed una voce ancor dal ciel mi venne,
La qual dicea: Felice criatm'a
Io son quella verace e schietta donna,
Che vai cercando in terra e stommi 'n cielo,
Altea (2) mi chiamo, or entra qui sicuro,
E poi eh' ebbe parlato, un bel concento
8' udiva d' arpe, cetre, plettri, e lire,
Tacendo poscia fu, non so chi disse.
TERSICORE.
a
'r tienti fermo e non girar altrove,
0 spirto avventuroso di tal guida,
Ma cauto va, eh' un lupo non f uccida,
Lo quale altrui dal dritto calle smove.
Ne da Y antiche leggi, per le nove.
Sia mai se non lesù, che ti divida,
Lo qual non pur è saggia scorta e fida,
Ma via, che da vertù non si rimove.
Ben vedi a quanta gloria il ciel ti degna,
Che Dio, qual nome può dirsi maggiore ?
Volse addempii' sua legge in tuo conforto.
(1) Credo che qui alluda non a Cristo bambino, ma alla strage
degli innocenti.
(2) È la seconda volta che introduce questo persona^rgìo, affatto mi-
tologico, dandogli un carattere cristiano. E di questo strano uso, non è
questo il solo esempio, che se ne hanno di altri nel Caos, quale nel se-
guente capitolo, intestato a Tersicore.
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II. caos — Selva seconda 55
Egli farsi uomo sol per te non sdegna,
E guida tal, che 'n questo uman errore
Conduceratti di salute in porto.
TRIPERUNO.
L
ben intesi di tal voce il sono,
Ma, lasso ! che servarla (1) fui poi tardo,
E so che quanto tuttavia ragiono
Non vien inteso, ma sotto 1 stendardo
De r Orso grande, ove posto mi sono, (2)
Spero dir chiaro senza alcun risguardo.
Or dunque in una grotta entrai soletto.
Con passo lento e colmo di sospetto.
Qui la più bella onesta, saggia, umile
Donna, che mai natura, col sopremo
Suo sforzo e col di rado usato stile.
Finger potesse in questo ben terreno,
Avea su '1 strame, in loco abbietto e vile,
Trovavasi al bisogno troppo estremo,
Riposto un suo nasciuto allor infante.
Nudo, a la rabbia d' Aquilon tremante.
E se d' un bianco e ligiadretto velo.
Levandosi '1 di testa, non fatt' ella
Qualche riparo avesse al crudo gelo,
Pensato avrei, che 1 parvolino in quella ,
Paglia mancar dovesse, e lui, che 'n cielo
Volge coi giri soi ciascuna stella.
Stringesse la stagion orribil, tanto
Prender gli piacque di miseria il manto.
Con quel contratto volto e alto ciglio,
Ch' alcuno mira cose strane e nove.
(1) Le due edizioni hanno servala che ho creduto di mutare in
servarla, sembrandomi che Lo volesse il senso.
(2) Allude a casa Orsini anche qui e airospitalità che gli accordava.
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"^npp
56 II caos — Selva seconda
Stavami prono a contemplar quel figlio
Sì di me stesso for, che men del bove,
Del asinelio men ebbi consiglio
Di riconoscer lui, che '1 tutto move,
' Essersi carne fatto, non per boi,
•' Non altri bruti nò, ma servar noi.
Un, for di stile e uso, uman sembiante,
Una celeste angelica figura
Di quel nasciuto allor allor infante
Fu, eh' al veder mi tolse ogni misura.
Che s' al visibil sol non è costante.
Or eh' al divin potea nostra natura ?
Bench' era in carne ascoso, pur non potè
Di fora non aver de le sue note.
Non che 'ntendessi allora la cagione
Ch' io fussi in quel fanciullo sì conquiso,
Ma vinto da non so qual passione,
1. Più tosto che ritrarmi dal bel viso
l* Lasciato avrei non pur le belle e bone
1' Cose del mondo, ma anco il paradiso,
E finalmente io sciocco, temo a dirlo,
Stetti più volte in voglia di rapirlo
Rapirlo meco in parte, ove sol io.
Nutrendo '1 primo, 1' adorassi dopo.
Sperando non mai fora, eh' altro Dio
Maggior di lui mi soccon-esse al uopo ;
Quando eh' el mundo tant' era in oblio,
Che rindo, il Mauro, il Scito e Etiopo
^ Cingevan il gran spazio, ove chi '1 sole,
( Chi '1 mar, chi un sasso, chi '1 suo rege cole.
i Ma forse accorta del pensier mio folle
In far tal preda, la pudica donna
! Levatolo di paglie si s' el toUe
j Li grembo, e '1 ricoperse nella gonna,
' Ch' esser d' uomo veduta già non volle,
I Mentile li porge il latte, poi V assonna,
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G.
^-.{
Il caos — Selva seconda 57
E assonnato il bascia, e tornai anco
Sul strame, a lato un vecchio gi-ave e bianco.
Ma non si tosto .giù posato Y ave, ;
Ch' un giovenetto a lato, in veste bruna, ^:
Qui sotto entrando porta un grosso trave i
Di ponderosa croce, e altri d' una \
Colonna carco, e dopo loro grave :
E longa tratta d' angioli s' adduna *
Intorno del presepio lagrimosa, •
Ciascun in man avendo una sol cosa. \
Questo di spine una corona, quello, ■
Sopra la canna una spongia bibace.
Chi un chiodo, chi una sferza, clii '1 martello.
Chi r asta, chi la fune, chi la face.
La donna quando i vide, in atto bello
Presto si leva, e vereconda tace. ^
Quelli non men di lei onor le fanno.
Poi taciti al fanciullo intorno stanno.
Dorm' egli in atto di basciarlo mille
E mille volte, ne esseme satollo.
Par che nettar ambrosia e manna stille
Dagli occhi soi, dal mento, fronte e collo.
Eran le cose in modo allor tranquille,
Ch' al mondo non sentivi un picciol crollo.
Come se con la notte Y universo
Stesse nel sonno, co Y infante, merso.
Ma dopo alquanto indugio, ecco '1 piccino
Subitamente, non so chi disturba.
Egli alza il guardo e vedesi vicino
Cinger intorno la celeste turba,
Ch' ognun sta penseroso, e 'n terra chino.
Con quelle orribil armi, onde si turba
Nel volto il bel sembiante e di spavento
Piange tremando come fronda al vento.
Si come al vento foglia ti*ema e piange
Ne '1 viso piega mai da quella croce,
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58 Ih CAOS — Selva seconda
E mentre qui si dole, cruccia e auge,
Quattro angioletti, in lagrimosa voce,
Incominciar un inno detto il Pange^
H qual pensando ancor m' incende e cuoce
Del amoroso foco, il cui soggetto
Spezza di fiera, non che d' uom, un petto.
Non fu già pietra in quelle mura, pensi
Un cor gentil eh' esser dovea la madre,
Che non s' intenerisse ai forti intensi
Gemiti del fanciullo, a le leggiadre
Rime di que' cantori, ond' io con densi
Sospiri m' avicino al bianco padre,
Col qual piangendomi proposi allotta
Non mai distormi più di quella grotta.
Grotta gioiosa, che degnossi '1 cielo
Partir de le sue cose in mia salute.
Grotta felice in cui di carne il velo
Intorno vidi aver T alta virtute,
Grotta salubre, ove servato il stelo
Di pudicizia nacque, tra le acute
Mondane spine, il fior, tant' anni occulto
Di. terra uscito senza umano culto.
Poscia che i quattro spirti bianchi fine
Poser al Funge lingua gloriosi^
Quel da la croce, ch'ha laurato crine,
D' avoglio il viso, e gli occhi sì amorosi,
U ale tessute d' oro e perle fine
Dritto si leva in piedi con ritrosi
Guardi ver me, stendendo la man destra,
E la croce sostien con la sinestra.
GENIO.
Uc
I omo animale, disse, fra gli altri solo de la ragione
capace, che de gli eterni piaceri con meco sei ad essere
felicissimo consorte, non già perchè ne tu, ne di tua na-
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Il caos — Selva seconda 59
tura alcuno giamaì facesse impresa veruna, per la cui ;i
dignitade ciò guadagnar si potesse, ma l'infinita d'Iddio !
bontade così a dover avvenire nel principio dispose. Or j
odi quale e quanta verso noi uomini sia stata di lui la
benevolenzia, lo quale da V antico legame di perdizione
per scatenarvi, già non sofferse aver a schivo se istesso
condonare (1) ad essere un simile vostro di cai'ne, una vit-
tima, un sacrificio, un miserabilissimo spettacolo, doven- e
dosi egli sottomettere a la severa legge di lei non pur
conditore ma distretto osservatore, mostrandovi con esem-
pio prima, o con dottrina poi, per quanto piacevole sen-
tiero ciascuno di noi, le sue vestigie seguendo, poti-ebbe
al lume di verità pervenire. Da la quale per V infiata
soperbia de gli ignoranti dottori, e saviezza mondana, -Y
tutti omai sete miserabilmente sotto V empia potestade
d' un tiranno traboccati : lo quale sepolti non che im-
prigionati nel puzzo d' ogni sceleragine sin ad ora v' ha
ritardati. Vedi tu cotesto bellissimo fanciullino, questa
leggiadretta sopra ogni altra criatura ? questo uomo di
spii'to e carne testé nasciuto ? Lo quale so che ti pare
soave tanto che già di non voler indi partire tu ti sei
fermamente deliberato. Se io che sol spirito sono, cosi
fussi agevole di ragionar la lui potenzia, la lui maestade,
la lui smisurata benignitade, come tu uomo carnale manco
idonio sei ad ascoltare, potrei quivi acconciatamente dar
principio, ma debilissima è pur troppo da noi angioli la
natura, e viepiù la vostra umana, in comparazione di
quella profundissima, incomprensibile, e impenetrevole
divina. Dilchè sciocchi e presontuosi furono pur troppo
alquanti dottori, che così leggermente a tal cosa ispe-
rimentare si sono abbandonati.
Ora dunque saperai prima, qualmente la intelligenzla
del sempiterno padre, la quale noi similmente prima sa-
pienza, e divino sermone con grandissimo tremore no-
minamo, tanto di vostra salute le calse, tanto l' incom-
mutabil sua natura si commosse verso di voi a pietade,
che non me, non alcun altro di angelica stirpe si elesse
per vostro redentore e de Y inferno destruggitore, ma da
(1) Le due edizioni hanno condonare, che credo errato, e sia invece
di condannare.
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60 II caos — Selva seconda
i
se medema, volendo oggimai la divinitade sua con la
uinanitade vostra conciliare, discese occiiltainente dal
empireo nostro ^n questo vostro passibile stato, con.sti-
tuendosi ad essere con essi voi fratello, compagno, e
servitore, quando che non volse il benignissimo figliuolo
vestirsi la fonna d' alcun potente signore, ma ben gli
piacque con perfettissima umilitade sottoporsi a vile ser-
vitude, per confutare Y alterigia de sapienti mondani.
Eccolo quivi d' una polcella, mediantovi (1) la verti'i del
Spirito santo, poverissimamente nasciuto. Dimmi, uomo,
dimmi, animai di ragione, qual umiltade di cotesta mag-
giore potriasi unqua imaginare ? Parontì forse quelli
duo animaluzzi vilissimi, fra li quali, su '1 feno lor, egli
' giace, convengano a la omnipotenzia di sua profondis-
sima maiestade ? Parti eh' un diversorio immondo, un
presepio de buoi, la diroccata stanza, lo notturno pele-
grinaggio, la freddissima stagione siano al divino trono,
a la celeste beatitudine, a le ierarchie d' infiniti spiriti
convenevoli e corrispondenti ? Parti che questa diminu-
tezza d' un infante a la grandezza del creatore e fon-
datore de r universo s' adegui ? Ma quanto più di mera-
viglia prenderai tu, se mai sia tempo, che Y istrumenti
orribili, li quali con questa croce intorno a lui miri es-
sere portati, tu veda crudelmente adoperati ne la inno-
centissima sua persona? O gran fortezza di pietade, la
quale puote 1' altissima giustizia così piegare, che '1 padre
per riscotere il servo, ti-aditte l'unico figliuolo, che avesse
ad essere tra gli suoi domestichi un bersaglio di mille
onte, ingiurie, bestemie, derisioni, contumelie, scorni, guan-
ciate, battiture, flagelli, sputi, lanciate e finalmente un
vituperoso spettacolo, tra li doi scelerati, su la contume-
liosa croce inchiavato. 0 affocato amore, o benivolenzia
verso noi uomini ardentissima ! Iddio fassi omo per te
salvar, o uomo, offende se, diffende te, ancide se, vivi-
fica te. 0 mansuetissimo agnello ! vedi, vedilo là, uonio^
vedi lo tuo salvatore, vedi la via, la veritade, vedi come
lagrimoso dal presepio ti mira e guata, vedi come ge-
stisse d'abbracciarti in foggia di caro germano. Egli ben
(2) Lascio mediantovi, che è in tutte e due le edizioni, sebbene sia
evidente che vada mediante.
I
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Il caos — Selva seconda 61
sa, che per te, uomo, solo in questa miseria fu dal padre
mandato, disceso in terra per guidarti al cielo, s' ha fatto
famiglio per costituirti signore. Or dunque chi renderà
mai guidardone a tanto beneficio eguale ? qual grazie,
qual lode a tanto premio ? sia forse di oro, di gemme,
di porpora, di altri beni temporali cotesto premio ? anzi
del preciosissimo suo sangue, con questo ti laverà, ti
monderà de le pecata, de le tante sceleragini con questo
ti pascerò e nudrirà, lasciandotilo, con la carne sua pro-
pria, ad essere tuo cibo di vita etema. Stattene dunque
uomo, nel santo proposito, in cui testé amorosamente ti
ritrovi, e quando pur sotto '1 gravissimo peso di questa
tua carne averrà che ne trabocchi, levati presto, chiama
dal ciel aiuto, non ti addossar in terra, non vi far le
radici, Y abito solo, e quella peste, quel morbo se non
per grandissima misericordia d' Iddio sanabile, quel in-
ferno d' ignoranzia, quel laberinto d' errori, ove dubito
non sii finalmente per tua innavertenzia dal sfrenato
desio tirato.
TRIPERUNO.
Fenite appena l' angelo divino questo sermone, che
quattro de gli più vaghi angioletti cantando così
dolcemente INCOMINCIARO.
U
r
n aspro cuor, un' ampia e cruda voglia, .^ .•
Una durezza, impresa già molt' anni, 4*
S'altrui depor contende, non s'affanni ]K,
Sperar, eh' altri eh' Iddio mai vi '1 distoglia. '}
E s' uomo stesso il fa, dite, che spoglia C
Non riportar tirannide, tiranni, *. >,
Di questa mai più bella, e che pi fi appanni . . |l
Ogn' altra gloria, eh' uomo al mondo invoglia. ' ]\
Ma il ciel di stelle e d' acque il mar fia manco, |i'
Quallor accaschi in uomo tanta forza,
Ch' ei vecchio stile da se levi unquanco. ' |
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62 11 caos — Selva seconda
Però convien, eh' al bon lesù si torza
Mercè attendendo, ed anco il prieghi ed anco,
Finché, qual serpe, lasciavi la scorza.
TEIPERUNO.
Ve
enuti al fine de Y orribil metro
Eran li cantator empirei, quando
Ruppesi un sono fuor de la capanna.
Un sono di percosse e battiture
Meschiate con minaccie e alti gridi.
In queir instante, ah mio crudel destino !
Giunsevi un altro frettoloso Genio
Non senza gran spavento, e disse : Or presto
Affrettati, losefo, prendi il figlio.
Tu, con la madre sua, scampa in Egitto,
Insta già '1 tempo, eh' un fier mercenaro
Insanguinar si voi di questo agnello.
Fra gli pastori lia ricondotto d' empi
Lupi cotanta rabbia, che gli agnelli
0 morti verran tutti, o lacerati.
Risse, discordie, gare, aspri litigi
Esser fra lor non odi ancor diffora?
Non piti dramma d' amor, non piti di pace
Tra queUi omai si trova, di che scampa
In altre bande, ove già nacque Mosè.
Ne quindi fa ti parti fin che a tempo
Io venga darti a^^so del ritorno.
Taciuto eh' ebbe il nuncio, vidi gli altri
Angioli su le penne al eiel salire.
Ne pur un solo a dietro vi rimane,
Tanto le liti, le contese e zuffe
A la corte d' Iddio son odiose.
Arme, arme si chiaman tuttavia,
Ma stavami sol io nel antro ascoso.
Battendomi gran tema sempre il cuore.
In su quel ponto similmente un' atra
Tempesta, con gran vento e spessi lampi,
Incominciò, tonando farsi, udire,
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Il càos — Selva seconda • 63
Ove '1 contrasto cresce ogn' or più acerbo.
Vinse una parte finalmente, e V altra
Trassesi ne la grotta, per suo scampo.
Io mi discopro e la cagion di tanta
Lite fra loro cerco di sapere.
Lasso ! rispose im vecchio, non m' accorsi
Avolto in un agnello esser un lupo.
LAMENTO DI CORNAGIANNI.
X^iangeti meco voi, fiere selvatiche.
Voi sassi alpestri, voi monti precipiti.
Ripe, virgulti, e stipiti,
•lesù da noi si parte, che le pratiche
Trovate fra pastori tanto crebbero.
Ahimè ! eh' a fin non ebbero
Se non forza di far le gregge eratiche.
Ahi mercenaro e lupo insaziabile
Nato d' inganno e mantellata insidia.
In cui tanta perfidia
Mai puote luogo aver ! O incommutabile
O giustissimo Dio, perchè non subito
Risguardi a noi ? deh ! dubito
Vani sian nostii prieghi, che stoltizia
Maggior non è, s' un reo chiede, giustizia.
TRIPERUNO.
arlava il veccliio lagrimando forte,
E poi le labbra così chiuse, eh' egli
Non mai più volse aprirle, ma con gli occhi
In un parete fissi, geme e piagne,
Tanto che fece Y ultimo sospiro.
Vattine al ciel, alma d' ogni ben carca,
S' udì una voce dir, vanne felice.
Così di que' pastori giacque il padre,
Orbato d' està vita, ma in ciel suso
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64 II caos — Selva seconda
Rapito a r altra, e V empio mercenaro
Rimase degli armenti possessore,
Volgendo e' be' costumi degli antichi
Pastori audacemente in frode e furti,
Tanto che le sampogne e dolci rime
Aodati sensi, e d'arme sol si parla.
Deposto duflkque fu lo gran pastore
Entro d' un cavo sasso : e a quello sopra,
Carmi leggiadri e rime di gran sono
Inscritte fumo da pastori e ninfe,
DcHtid' io piangendo ancor questi vi posi.
TUMULO DEL CORNAGIANNI.
E
^co del monte congrega, ciò nella
Rupe, gran pianto pel suo cor Narciso.
Il fior anti no fu sua morte fella.
Tal fu '1 mio verso ma, per tèma, scuro (1).
TRIPERUNO.
I
0 da pastori alquanto dilungato.
Con quali esser mai giunto ancor mi dole,
D' un monticello in largo e verde prato
Mi porto, giù fra rose gigli e viole.
Poi dentro ad un antico bosco entrato
Tanto vi errai, che su '1 montar del sole
(l) Ha ragione il Folengo di dire oscuro il suo verso» e lo è tanto
che non vi si capisce nulla. Non si sa poi quale tema lo inducesse a fare
una sciarada di un epitaffio. Ma forse le parole : Il fior anti no, si deb-
bano riunire e leggerle : Il fiorantino, o fiorentino, dal che se ne avrebbe
un significato allusivo alio Squarcialupi, cagione della morte del Corna-
gianni, e probabilmente in Nar-ciso si asconde un aggettivo, forse anciso,
riferibile a C07\ del quale significa o la qualità o la sorte, per cui colle
correzioni ortografiche, che vi ho fatto, e con questi commenti, parmi che
se ne abbia un senso chiaro, e consono a quanto si iegge qua « Jà nei
Caos deir abate Squarcialupi.
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r
Il caos — Selva seconda 65
\ Si m' appresenta un ampio e bel palaccio ;
Cerco r entrata e presto vi mi caccio.
Nove cose giamai non auti viste
Veggio fra quelle mura in un vallone
Di urtice, vepri, spine, e lappe miste
Densato sì, che mai non vi si pone
Piede senza lacciarlo a V erbe triste,
E farsi, o voglia o no, di lor prigione
Ma sì mi preme V ira d' una donna,
Ch' io scampo, e lascio a squarzi la mia gonna.
Perochè, ne l'entrar quella sopérba,
Pallida in volto magra e macilente.
Con voce altera minacciante acerba
Seguivami gridando: Mai vincente
Uomo non fia, se Y animo non serba
A miei flagelli forte e paziente :
Io allor m' offerii al suo commando, e presto
Scorro di qua di là, ne unqua m' arresto.
Dov' ir mi deggia segno non appare
Di bestiai, non che d' uman vestigio.
Di che sovente fammi traboccare
De panni co' miei passi gran litigio,
Fin tanto che, su '1 lido accosto il mare
Giunto, m' assisi stanco a gran servigio
Di nostra fragii vita, e poi mi levo,
E del camin doppio pensier ricevo.
Se al dritto o manco viaggio me ne vada
Non so, che nove m' eran le contrate.
Ma tr ambi doi, mentre '1 voler abada,
Ecco a le spalle, co le labbra inliate
Di sdegno, m' è la donna tutta fiada
Quanto mai fnsse nuda dì pìetato.
Tu voi pur anco, dice, chi t' accolga
Rubaldo, e ne cape le man t' involga.
Io dal spavento più che mai commosso
Lungo la manca spiaggia formo e stampo
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66 II caos — Selva seconda
Mìei passi, lor frettando quant 'i puosso,
Sin che dal suo furor mi fuggo e scampo.
Così infelice non più aver riposso
Giamai vi spero, e d'uno in altro campo,
Qual temidetta lepre, uscendo, un fosco
Antro di spine trovo, e vi me 'mbosco.
Ma nel entrar, ah quanta mia sventura !
Ecco si mi raffronta un uomo strano.
Anzi doi, sgiunti fin a la cintura.
Più mostro assai che finto non fu Giano,
0 Proteo falsator di sua figura.
Tal anco è scritto Castor e '1 germano,
Che sol due gambe quel corporeo peso
Di duo persone tengono sospeso.
Ei quando avanti lui giunto mi vede.
Scosse le membra e tutti si li ruppe ;
Stupido il guardo eh' ei digrigna e ride,
E par che 'n altri volti s'aviluppe,
1 non era ne Teseo, ne anco Alcide,
0 chi nel ventre il gran Piton disruppe ;
Che fronteggiar bastassi un mostro tale.
Onde spiegai pur anco al corso Y ale.
Per un sentier, sol un sentiero v' era.
Sforzo me stesso, e gran tema mi punge :
Ma poi che da l' incerta e 'nstabil fiera
Esser mi vidi al trar d' un arco lunge.
Fermo mi volgo, e egli sua primera
Forma cangiando in doi corpi si sgiunge ;
Questo di donna, vago, pronto, ameno,
Quel d' un formoso, e bianco palafreno.
O qual mi fece al apparir di loro
Sì grata vista e dolce leggiadra,
Miir altre prime faccie assai mi foro
Moleste in cui cangiato egli s' avia
Che ne orso, ne leon, ne pardo, o toro,
Ne cervo, ne animai chi chi si sia,
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Il caos — Selva seconda 67
Gradir mi puote, anzi mi fé' spavento :
Di questi doi sol ne restai contento.
Ella succinta in abito gentile
Tra fiori al aura si rendea più degna,
Vidi anco intorno lei, si '1 feminile
Aspetto valse, con lor verde insegna,
Stesi per Y erbe e fronde, Marzo, e Aprile
La terra far d' assai colori pregna,
E su per folte macchie lieti e snelli
Facean cantando errar diversi augelli.
Più bello, altero, candido, e vivace
Nullo animai di questo vidi mai.
Tanto mi piacque allora, che '1 fugace
E timido desio presto frenai,
Volgendo 1 tutto ove sperava pace
In duo begli occhi, anzi potenti rai,
Ch' umilmente alzati sol d' un cenno
Quanto temea davanti obliar mi fenno.
Tratto dal mio voler già torno in dietro,
E di mai non partii-mi da lei bramo,
Ella quel bel destrier, eh' ha '1 fren di vetro
" E già salita, e d' un frondoso ramo
Di mirto il tocca e contra un folto e tetro
Bosco lo caccia : Io che pur troppo V amo
Correndo a tergo me ne doglio e strazio,
E luntanato son da lei gran spazio.
Per un sentier colmo di tosco e fel va (1)
Battendo sempre il palafren da tergo :
Tanto che scorse ne Y oscura selva,
E mi si tol di vista, ond' io sol m' ergo
Del orme a i segni, che sì vaga belva
Perder non voglio e tutto mi sommergo,
Non pur d' averla ne le insane voglie.
Ma ne intricati rami, sterpi, e foglie.
(1) Ambedue le edizioni hanno fel va che dovrebbe rimare con selva
e belva, È un' altra strana licenza del Folengo.
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68 II caos — Selva seconda
Tanto durai nel corso a quella traccia,
Ch' al fin del bosco, fra tre alte colonne,
La via par eh' en duo branchi vi si faccia ;
Qual oggi e greci fingon V ipsillone,
Di che dubbio pensier 1' andar m' einpaccia,
Fin eh' una turba d' epolite donne
Mi fur in cerco, e losingando parte
Di loro a manca man mi tranne ad arte.
Quivi d' accorte e ladre parolette
Foggia non è, che non mi circonvenga,
Ma r altra parte di luntano stette
Pensando in quale guisa mi sovenga :
Io, che fra tanto sono entro le strette
D' abbaraciamenti e gaiTula losenga ;
Irmene al manco viaggio mi delibro,
Ma donna mi vietò, eli' ha in man un cribro.
Un cribro in mano la dongella tiene,
D' acqua ripieno e goccia non si versa,
Che di la turma luntanata viene #
Gridando forte. Non far alma persa,
Non far, se '1 sai, tu sol n' avrai le pene,
Che non sai quella via quanf 6 perversa,
Ma qui piutosto volge a la man destra,
Che dal errante volgo altrui sequestra.
A la cui note gik lo entrato piede
Ritrassi al modo di eh' un serpe calca.
Deh ! saggia ninfa, dinnni per mercede,
Risposi a lei, dove '1 mio ben cavalca?
Perchè fra voi questo altercar procede ?
Perchè tanto di tempo mi diffalca?
Quella sen fugge, e tuttavia non cessa.
Onde non spero mai pifi veder essa?
Lascila gir, diss' ella, che la truce
E pestilente donna, tuo malgrado.
Del improba Fortmia conduce
Al seggio incerto, e a T instabil guado.
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Il caos — Sklva skconda 69
Ma se tu segui me, ti sarò duce
Nel destro calle, ove di grado in grado
Montando, e non col volo di fortuna,
Vedrai quel ben, che 'n se virtù ragguna.
Or viemmi dopo, che su V alte cime
Di sapienza trovarai V ascesa,
Fuggi costoro, perchè al fin de V ime
Valli d' enore mostran la discesa.
AUor io per costei lascio le prime,
E seco me ne vo ; ma gran contesa
Ecco nascer fra Y una e V altra turba,
Cli' el mar la terra e sin al ciel disturba.
E prima di parole tanta rabbia
Si sul levò tra quelle donne e queste,
Che non bastò menar con scura labbia
La lingua e denti, ma Y ornate teste
Vengon a scapigliarsi, e su la sabbia
Già molte veggio per Y orrende peste,
De' calci e pugna traboccar a voi te.
Ma presto vien, chi via 1' ebbe distolte.
Che a r apparir di donna antica e grave
Tosto la pugna fu da lor divisa ;
Chi si racconcia il sino e chi le flave
Chiome si annoda, e chi di dar sta in guisa.
Ma la matrona con parlar soave
Voltossi a me dicendo : qui s' avisa
Per me qual porta entrar deve, chi brama
0 quinci o quindi racquistarsi fama.
Quinci vertù, quindi fortuna aloggia,
1 ti r ho detto : va, eh' ambo le porte
Ti mostro aperte, e detto ciò, s' appoggia
Su '1 petto il viso di vertute e sorte
Fra le colonne, ed io ne stava in foggia
Di chi non sa de le dua porte apporte
Quale si prenda s' uno prender deve,
E mentre dubbia gran duolo riceve.
^^SL-
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70 II caos — Selva seconda
La destra via mi elessi finalmente,
Così movea di Nursia il saggio spirto (1),
Ma le sinestre donne triste e lente
Trasser a Y ombra insieme d' un suo mirto,
Quivi tra loro un lupo immantenente
Comparse, onde non so minace e irto,
Del quale una di lor, se ben rimembro.
Svelse sdegnando il genitale membro.
Poscia chi per il pie, chi per Y orecchia
Lo tranno a terra giù quelle fanciulle,
Mentre 1' altare e '1 foco una apparecchia.
Ciascuna par che 'n quello si trastulle
Svenarlo, e qui s' accoglie e si sorbeccliia
Tanto del sangue suo, che 'n tante muUe (2)
Le vidi esser cangiate a me davante,
E 1 foco stesso le arse tutte quante.
E 1 mirto similmente in altra forma
Mutarse vidi, eh' ogni suo rampollo
Contrasse al tronco dentro, e si trasforma
In bella donna, e gambe, e braccia, e collo,
E '1 lupo, il qual sul lido par che dorma.
Prende a l'orecchia, e dritto suUevollo,
Cangiato omai di lupo in un destrero,
Saltavi addosso e sgombra via '1 sentiero.
Io la conobbi, ahimè ! nel sguardo acuto.
Acuto sì, eh' anco smovermi puote
Dal bel proposto, e farmi sordo e muto
A le preghere d' ogni affetto vote
De r altre donne, anzi mi faccio un scuto
D' infamia contra il ben che mi percuote,
E gridami nel capo, mi urta, e auge.
Ma nulla fa, che '1 suo voler si frange.
Onde le donne insieme neghitose,
Poi eh' e soi prieghi gittaron al aura,
(l) Allude a S. Benedetto, il fondatore dell'ordine cui apparteneva
il Folengo.
(2) Mulle, Strana licenza, usata per necessità di rima.
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Il caos — Selva seconda 71
I
MERLINUS COCAIUS (1).
Uè ego qui quondam formalo plenus et ovis,
Quique botirivoro stipans ventrone lasagnas,
In un pratel de gigli, viole e rose,
Sott' ombra de la petrarchesca Laura,
Stetter in cerchio centra me sdegnose.
Ed un quadrato altare qui s' instaura,
Sul '1 qual mentr' ai-de un tenero Licomo
Ivan quelle piangendo intorno intomo.
Io pur quantunque V ascoltassi invito, ' j
La fin volsi veder del sacrificio, -*•
Ch' un nuvol bianco su dal ciel partito, -^j
Sì mi r ascose, e per divin giudicio v.
Tal tono seco fu, che tutto '1 lito \i
Tremò d' intomo, e sparve lo edificio, 'l\
Le donne, la matrona, e '1 nuvol anco.
Restando pur la via del lato manco.
Stavami su quel punto, che la terra
Tutta tremò non men for di me stesso
Ch' el viandante, il quale mentre eh' erra
Cercando un tetto, perchè un nimbo spesso
Li tona in capo, il fulmine si sferra
Dal ciel gridando, e piantasigli appresso,
Ch' un' alta pioppa in sua presenzia tocca,
E tutta in foco e fumo la dirocca:
Non temer d' alcun ciel, che ti minaccia ; I
Che bella botta non mai colse augello ; , -^
A cotal voce rivoltai la faccia, 4
Ed ecco un uomo lieto grasso e bello S
Mi sovragiunge, e stretto a se m'abbraccia.
S' io gU fussi figlio, padre o fratello.
Io r addimando vergognosamente
Chi fosse egH, rispose immantinente.
(I) Nolla edizione seconda, e quindi quella fatta dopo la hiorte del
Folengo, questo capitolo, sopra il titolo MERLINUS COCAIUS, ha V altro
di : LA CAROSSA, cioè la Casa rossa, che io ho creduto bene di omettere.
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72 II caos — Selva seconda
Arma valenthominis cantavi horrencia Baldi,
Quo non Hectorior, quo non Orlandior alter.
Grandisonam cuius famam nomenque gaiarduni
Terra tremit Baratrumque metu "se cagat adossiim (1).
At nunc Tortelij (2) egressus g^innasia, postquam
Tanta menestrarum smaltita est copia, Baldi
Gesta maronisono (3) cantemus digna sj^ivallo,
Huc, Zoppine pater (4), tua si tibi chiachiara curae,
Si tua calcatim veneti ad pilastra Samarchi
Trat lyra menchiones, bezzosque ad carmen iucscat.
Huc mihi cordicinam iuncta cum voce Rubebam
Flecte soporantem stantes in littore barcas.
Ut dorsicm^os olim delfinas Arion,
Tuque, Comina, tene guidam temonis, e issa
Issa, Pedrala, mihi ad ghebbam (5), tuque alta sonantem
Ad Òighignolam (6) velanima pande levanto
Berta, Grego, postquam salpata est ancora fundo.
Non ad muscipares voltanda est orza canellos,
Non ad fangosas ladrorum daccia Bebbas, (7)
Bebbas, cui nomen tum splenduit, a^quore postquam
Cingar anegavit pegoras, saltantibus illis,
Una post aliam, nullo aiutante Tesino,
Dumque trabucabant, bè bè somiere frequenter (8).
Hinc Bebbas dixere patres, quod nomen ad astra
Surgitm*, e lunge soravanzat onore Popozzas.
Non mihi Fornaces per stagna viazus ad udas.
(1) Questo verso e l'altro ohe lo precede si trovano nel preambolo
al Baldo. Vedi Voi. 1, Maccheronica I, pa^. 63, colla variante, che invade
di Grandisonam, si ha AUisonam.
(2) Tortelij è la minestra più ghiotta dei mantovani, che
generalmente ò servita alla Vigilia del Natale.
(3) Maronisono, cioè di Marono, o Virgilio.
(4) È un nuovo nume che introduce, che non trovasi nelle altro
opere Maccheroniche, cotesto padre Zoppino è poeta veneziano.
(5) Ghfhbam, voce veneziana che significa rivolo.
(6) Ignoro chi sia cotesto Cighignola e che significato abbia.
(7) Bebbas. Vedi in alcuni versi più basso il significato che
dà al Bebbas.
(8) Allude airannedoto delle pecore. Vedi Baldo, Maccheronica XI,
pag. 255, 256.
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i
Il caos — Selva seconda 78
Perque Padi gremium ad Stellatam Figaque rolum (1)
Undantem conti-a, e retro cava ligiia ferentem.
Seu sit Bondeni seu sit mage Francolini
Piatta, vel Argente, vel Burchius Sermidos audax.
Bramat Alixandraì portus mea Barca tenere (2).
NAERATIO.
ebanis fabrefacta vìris antiquior altris
Urbibus Italise dum Mantua rege sub uno,
Nomine Gaioffo, quasi iam dispersa gemebat,
Viderat in somnis venientem a Marte baronem,
Mozzantemque caput Gaioffo, seque gridantem
Libertatem Urbi et populo prestasse . vetusto.
Hinc aliquod confortum animi conceperat illa,
Speranzamque omnem Baldi ficaverat armis.
Non erat buie toto quisquam affì'ontandus in orbe
Forcibus, aut potius destrezza corporis ipsa.
Nil illum, tanta est hominis baldanza gaiai-di,
Arma spaventabant, nil caelum, nilque diavol.
Vir inste membrosus erat, mediocriter altus,
Largus in expassis, relevato pectore spallis.
At brevis angustos stringit centura fiancos,
Nerviger in gambis, pedè parvus, cruribus acer ;
Rectus in andatu, levibus qui passibus ipso
Vix sabione suas poterat signare pedattas.
Aui-ea iungebat faciei barba decorem,
Vivacesque oculos, bue illuc alta rotabat
Frons, quse spaventat quando est turbata, diablos ;
Sed ridens noctemque fugat giornumque reducit,
Spadazzam levo semper galone cadentem
Poi-tabat, guantumque prese, mortisque daghettam.
Saltando legiadras erat, qui pleniter armis
Indutus montabat equum sine tangere staffam.
(1) stellata Figaquerolu?n, Stellata e Ficarolo, due paesi ripuarii
del Po, come lo sono quelli nominati più basso e più su.
(2) Ignoro che sia cotesto porto di Alessandra, nel qual la barca
del poeta brama di rimanere, al sicuro, a menochè non sia una allusione
a casa Orsini.
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74 II caos — Selva seconda
Ipse gubernabat terram, quam diximus olim,
Nomine Cipadam gentemque illius habebat
Ad cenum prontamque armis abilemque bataia?.
Praìcipuos bine tres elegerat ille sodales,
Quorum Cingar erat strictissimus alter Acates.
Is veterem duxit Margutti a sangnine razzam^
Qui risu, quondam Simia cagante, crepavit.
At Cingai- trincatus erat truflfator in arte
Cingaris (1), aut vecchium segato dente cavallum
Per iuvenem vendens; aut bolsum fraude baratane.
Scarnus in aspectu, reliquo sed corpore nervis
Plenus erat, nudusque caput, rizzusque capillis.
At sassinandi poltronam exercuit artem,
In macchiis quandoque latens mala guida viai-um,
Nanque viandante» ad boscos arte tirabat,
Spoiabatque illos, sibi nec restante camisa.
Sacchellan semper noctu post terga ferebat^
Sgaraboldellis plenam surdisque tenais,
Is mercadantum reserabat ssepe botegas,
Compagnosque ipsos, pannis finoque veluto
Tornabat caricos ad ladrorum antra Cypadam.
Officioque boni compagni, quisquis aiuttum
Porrexisset ei, tolta sibi parte botini
Ibat contentus : Precibus sed denique Baldi
Destitit, et savius forcam lazzumque seghetti
Scansavit, iam iam illorum compresus ab orma.
Huic tanto coniunctus erat Falchettus amore,
Falchettus qui ortum Pulicani ab origine traxit,
Quod sine Falchette poterat nec vivere Cingai-,
Nec Falchettus idem facians sine Gingare vixit,
Non fuit in toto cursor velocior orbe,
Namque erat, a cerebro ad cinturam corporis usqiie
Semivir, et restum corsi canis instar habebat.
Hic cervos, agilesque capras, leporesque fugaces
Captabat manibus saltuque, stupibile dictu,
Ssepe grues tardas se ad volum tollere coepit.
(1) Qui fa un bisticcio sulla parola Cingam, che come notai nella
prefazione Voi. I, pag. LXXXI va pronunciata Singar^ o Zingar^ che è lo
stesso che Zingaro, e quindi vuol dire, il Folengo, che Cingar o Zingar
era esperto nell'arte dello Zingaro.
^
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•1
i
Il caos — Selva seconda 75
Multi illum reges, reginae, papa, papessse
Ducere (1) tentabant, donantes munera, secum.
At ille, incagans papse regumque parolis
Cum Baldo semper donnit mangiatque bibitque.
Inde gigantonem Fracassum Baldus amabat,
Progenies quius Morganto advenit ab ilio,
Qui iain suetus erat campanse feiTC bataium.
Huius longa fuìt cubitos statura quaranta,
Grossilitate stari (2) sequabat sua testa misuram,
Andassetque trimus per boccam manzus apertam.
In spatio frontis potuisses ludere datis,
Auriculisque suis fecisses ceto stivallos.
Spallazzas habuit largas, schenamque decentem
Ferre boves, carrumque simul, pesosque ducentos.
Arripiens quandoque bovem per cornua grassum
Ad centum passus balzabat, more quadrelli.
Marmoreos etenim pillastros atque columnas
Tergere gestabat, nulla straccante fadiga.
Streppabat digitis quercus, stabilesque cipressos,
Ac si fortificam foderet tellui-e cipoUam,
Castronem, mediumque bovem, denasque menesti-as,
Trenta simul panes coena mangiabat in una.
Tanto ibat strepitu, libras tennille pesoccus,
Tota sub ipsius pedibus quod terra tremebat (3).
At viltatis homo, crudeltatisque minister,
GaioflPus, Baldum Baldique timebat amicos.
Imperij zelosus erat, noctesque diesque
Masinat in cerebro, lambiccat, fabricat altos
Aere castellos, velut est usanza tiranni.
Suspectumque super Baldum plantaverat omnem.
At quia grandilitas animi, generosaque virtus
Tum gratum patribus, tum plsebi fecerat illum,
Stat regno metuens, ut vulpes vecchia quietus.
Verum mille modos fingit groppatque casones,
Summittitque homines falsos nugasque silenter
(l) Ducere^ condurre, o assoldare, come significava al tempo del
Folengo.
(2) SiarU stajo,
(3) Di questi personaggi, compagni di Baldo, cene dà la prosopo-
grafia nel Baldo, Maccheronica U, pag. 95 e seguenti.
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76 II caos — Selva seconda
Seminat in' pepalo ; Baldi bona fama gradatim
Malmenata fliiit, iam facta infamia crescit
Baccaturquo omnem coelo montata per urbem.
Deque viro illustri canto straparlat in omni,
Quod ladronus erat, quod far, quod mille diablos
Corpore gestabat, quod forcas mille merebat
Hinc nactus causam patres GaiofFus adanat,
Conseiumque facit, pensans comprendere Balduni,
Mittaturve suo capiti firmissima taia.
Maxima patricij generis convenerat illuc
Squadra, repossato disponens cuncta vedere (1).
Est locus in quadro, salam dixere moderni,
Bancarum populique capax sibi iura petentis.
Illius ad frontem, inter multa sedilia patrum,
Aurea Gaioffi solio est errecta levato.
Scrannea, spadiferis semper circumdata bravis,
Hic sedet ille minax vultu, sitiensque cruoris.
Non delatores unquam longantur ab ilio,
Non giottono cum bardassanimque potentum
Copia, non ladri, furfantes mille parati
Condonare suam minimo quadrante balottam.
Inter eos garrit centum discordia linguis,
Millibus et zanzis populi complentur orecchie,
Semper ut offendant proni, referuntque per urbem
Ambassarias, quibus arma repente menantiu-.
Ergo ubi nobilium cumulata caterva resedit,
Claudunturque fores, plebisque canaia recedit,
Imperat annutu prius ille silentia dextrae,
Talia dehinc, solio pai-lans, commenzat ab alto.
ORATIO.
V
OS Domini, patria^que patres, circumque sedentes
Consiliatores, qui ad nostrae iussa bacliettfe
Presentati estis, causamque modumque sietis
Quare ad campana? bottos huc traximus omnes.
(1) Repossalo disponens cuncta veder o^ cioè : prò vedendo
ad ogni cosa, con riposato consiglio.
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Il Ccaos — Selva seconda 77
Quippe diu nostis vestra non absque saputa
Omnia semper ego, dispono, tracto, ministro,
Non quia me pactus vel lex magis obliget uUa,
Verum solus amor vestri et dilectio regis
Id quod amicitiae tanquam sit iuris, adoprat.
Hactenus instmulans tacui, grossumque magonem
Pectore nutrivi, ssepe ut prudentia reges
Expetit, at vobis vebiti experientia mostrat,
Tegnosum fecit mater pietosa fiolum.
Nostis enim pridem quse quanta et qualia Baldi
Sint probra, nec modus est in furtis atque rapinis.
Incepit postquam setatem intrare virilem,
Incepit secum mariolos ducere bravos,
Quos mangiafeiTOS vocitant taiaquepilastros,
Aut taiaborsas melius quis dicere posset.
Non fuit in mundo giottonior alter, et ipsum
Rex ego sustineam ? patiar ? fruiturque ribaldus
Sic bontate mea ? quid non prò pace meorum
Cittadinorum telerò, postquam improbus iste
.Urbis in eccidiimi novus ut Catilina pependit?
Nostra illum patres patientia longa ribaldum
Fecit, ut in ladris non sit ladronior alter.
Quid me vosque simul bertezat ? soiat ? agabbat ?
Ad quam perveniet sua tandem audacia finem ?
Non illum facies tanta gravitudine vestrae
Maiestasque mei removent, non guardia noctis.
Non sbirri zaffique simul, non mille diavoi
Spaventat, tanta est hominis petulantia ladri.
An sentit cselo, terree baratroque patere
lam caedes gladiosque suos ? an contrahit omneni
Qua*, sassinorum semper fuit arca, Cipadam,
Ut cives populumque meum gens illa trucidet?
Illa inquam gens nata urbem prò strugere nostran ?
Quis rogo scoppatur nostra* sub lege cadreghe,
Quisve tenaiatur, mediaque in fronte bolatur,
Berlinseque provat scomum forca^que sogliettum.
Ni Baldi Comes, et ville mala schiatta Cipada*
Dottoratur ibi robbandi vulgus in arte,
Estque scolarum Baldo data cura magistro.
Hinc docti iuvenes sub preceptore galante
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78 11 caos — Selva seconda
Blasfemare deiim varijs didicere loquelis ;
Mox sibi boscorum ladri domicilia querunt,
Expediuntque manus fiu'tis, sti'adasque traversant.
Assaltant homines, amazzant, inque paludes
Omnia spoiatos buttant pascuntque ranocchios.
Qmim simul albergant, sqiiadi'aque serantur in una.
Mille cruentosas roncas teretesque zanettas,
Spontonesque alebardas, quetae sunt arma diabli.
Dantque focum schioppis, tuf, taf resonante balotta.
Semper abent fedas barbazzas pulvere, semper
Cagnescos oculos nigra sub fronte revolvmit.
Protinus ad cifìlum se intendunt esse propinquum
Quem faciant robbas pariterque relinquere vitam.
Prsesidet is ergo Baldus caporalis, ab ipso
Tot mala dependent: Baldo cessante quid ultra
Mercator timeat ? quid gens peregrina ? quid urbs haec?
Ad caput, o patres, est ad caput ensis habendus.
Membra nihil possunt quum spallis testa levatur,
Frange caput serpa?, non amplius illa minazzat.
Dixi, nmic vero qusenam sententia vestra est
Expecto, ut cunctis sit larga licentia fandi.
Dixerat, et sdegnum premere ^alto in pectore fingit.
Confremuere omnes, aut quse contraria Baldo
Pars erat, aut vafri quot longa oratio regis
Spinserat in coleram, toUentesque ora manusque
lustitiam clamant : quid adhuc mala bestia vivit,
Quid nisi iacturas, homicidia, furta, rapinas,
O rex, a ladro poterit sperarier uhquam?
Picclientur fures, brusetur villa Cipadse,
Ipseque squartatus reliquis exempla ribaldis
Praestet amorbator coeli, terra^que marisque.
Tum vero ingemuit strictis pars altera buccis,
Compescens digito GaiofFo adstante labellum.
At Gonzaga pater quo non audentior alter
lustitiaì in partes, et lingua? et robore spada?,
Omnium ut aspexit vultus firmarier in se,
Stat morulam, dehinc quantus erat de sede levatiis
Apparet, solvitque ingentem ad dicere linguani.
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Ili CAOS — Selva seconda 79
RESPONSIO.
I
nclyte rex, regisque viri, vosque urbis onori
Lastantes proceres, quamvis locus iste soluta
Labra petat, laxasque velit sine vindice linguas,
Attamen, aut iure hoc, aut quadam lege rasonis,
Quam natura docet ne me angat culpa tacendi,
Incipiam Baldi animum, Baldique valorem,
Baldi consilium novi a puerilibus omne.
Ingenium est liomini, quam prima setate tenellus
Luxuriat, facili scelerum se interré camino.
Si incustoditus fuerit nulloque magistro.
Cursitat huc illuc, ceu fert ignara voluntas.
At puer ingenuus quamvis retinacula brene
Non tulit, illecebras seguitans, si forte virum (juem
Maturum semel audierit, leviterqne monentem
Principio, ne virga nimis tenerina potenti
Contractata manu media spezzetur in opra,
Deposita sensum patitur feritate doceri,
Seque hominemmonstrat,quemhumanamodestiatantum
Retrahit a vitio iurisque in glutine firmat.
Cemimus indomitos plaustro succumbere tauros.
Quorum duriciem removet destrezza biolclii.
Semper idem sa^viret equus cozzone carente.
Nec venit ad pugnum sparaverius absque polastro.
Ne, rogo, conscripti patres, id forsitan unquam
Rex sensit, pigeat miras audiro prodezzas
Quum fanciuUus erat Baldus, baculumque sbriabat.
Gallicus, ut fama est, e France partibus olim
In Lombardia^ gravida cum uxore, paesum
Straccus arìvavit, nostrauKiue liane duetus ad urbeni
Albergavit agro tantum una nocte Cipada»,
Donec ibi gravidata uxor sub fine laboris
Ederet infantem, qua Baldus prodijt iste.
Qui nascens oculos, veluti dixere comadres,
Huic circunstantes, ccx'lo tendebat apertos.
Quem nemo, ut mox est, infantum fiere notavit.
Hinc vox e summo fuit ascoltata solaro :
(
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80 II Caos — Selva seconda
Nascere macte, puer, cui coelum terra fretumque
Ac elementa dabunt tot afannos totque maloras,
Non terrae sat erit centum superare travaios,
Ense viam faciens Inter densissima téla,
Verum quam citius pelago tu intrare parabis,
Cinctus ab undosis montagnis nocte (fìeque
Fortunae ingentis patiere tonitrua ventos
Fulmina, corsaros, ac centum mille diablos.
Sed tandem, haud dubites, gaiarditer omnia vinces.
Vocis ad hunc sonitum, niater meschina vel ipso
Supplicio partus, vel sic pirlamina fusi
Finierant Pare», puerum pariterque fiatum
Sborravit, puerum vulva pulmone fiatum.
Vos meditate suo qualis tunc doia marito
Ingruit, ut mortam uxorem, nattimque puelliun
Ante oculos proprios tractu sibi vidit in uno.
Ergo infantillum villano tradidit uni,
Mox abijt tacitus nec post apparavit unquam.
Nescitur, fateor, qui sit, verum alta gaiardi
Forcia si Baldi, si animi prudentia, si frons
Gentilesca alacris, si tandem forma notatm',
Non nisi fortis erat prudens, gentilis, et acer
Fomiosusque pater, licet buie sors aspra fuisset,
Nanque bonum, semper fructum bona pai-turit arbor.
Interea villanus, adhuc cum coniuge vivit,
Infantem ad gesiam causa baptismatis affert.
Quem dum pretus aqua signat, terque ore gudazzii
Compadrumque rogat quod debet nomen habere,
En quoque ter facta est snmmo responsio tempio,
Baldum, vos Baldum fantino imponite nomen.
Constupuere omnes : devenit murmur ad urbem,
Hic testes centum tant<Te novitatis habentm-.
Lactiferam Baldus tantum bibit ergo madregnan,
Ut iam carrìolum, quo imprendit ducere gambas,
Linqueret ecussis rotolis cantone refractum.
Et pede firmatus nunc huc, nunc tursitat illuc,
Quem pater ignarum veri patris instruit omni
Rusticitate, docens villa? poltronus usanzam.
Post merdulentas iubet illum pergere vaccas,
Sed gentilis eam reprobat natura facendam,
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Il caos — Selva seconda 81
Non it post vaccas, at saepe venibat ad urbem,
Atque ad villani despectum praticai illam.
Solis in occasum villje tamen ipse redibat,
Atque reportabat testam quandoque cnientam.
Magnanimns quoniam puer, ut solet esse per urbes,
Semper pugnonim guerris gaudebat inesse,
Sive bataiolis bastonum, sive petrai'um,
Nec pensetis eum quod certans ultimus esset,
At ferus ante alios squadram exortabat amicam,
Et centum lapidea saltu reparabat in uno.
Quum villanus euin villam abborrere notavit,
Expeiimentum aliud, puerum quo exturbet ab annis,
In quibus immersum cognoverat esse, provavit :
Nam neque villanus sese cum milite confat.
Comprat, ei fortcni tabulettani roboris, illam
Rupiesset subito, qua sculptum addisceret. A. B.
Ule scolam primo letanter currere cepit,
Inque tribus magnum profectum fecerat annis.
Ut quoscunque libros legeret sine fallere iotam.
At mox Orlandi grandissima bella nasavit.
Non vacat ultra deponentia discere verba,
Non species numeros, non casus atque figuras.
Non dottrinalis versamina tradere menti.
Regula Donati, prunis, salcicia coxit,
Ivit et in centum scartozzos Noraia Perotti.
Quid catoliconis malnetta vocabula dicam,
Quse quot habent lettras tot habent menchionica verba,
Et quot habent cartas tot culos illa netarent?
Orlandi tantum cantataque gesta Rinaldi
Agradant puero, quandam in cor dantia bramara,
Ut cuperet iam vir fieri, spadamque galono
Cingere, et auxilio rationis qua^rere soldum ;
Ut legit errantes quondam fecisse guereros.
Viderat Ancroiam velut orlandesca necarat
Dextra gigantessam, vel quum de funere Carlum
Dongellettus adhuc rapuit, tractoquc guainis
Ense durindana, secat alto e tergore testam
Ingentem Almontis, Franzamque recuperat omnem.
Viderat ut miris Agricanem forcibiis, atque
Mille alios fortesque viros fortesque gigantos.
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82 II caos — Selva seconda
Arce sub Albracclie, giorno truncavit in uno.
Viderat ut nimias scoccante Cupi dine stralas,
Ipse gaiardorum princeps, ipse orbis acumen
Duxerat ad mortem, rupto gallone, Cusinum ;
At manus Angeliche, dum caelo brazzus ab alto
Mortalem ferret colpum, succurrit, et ipsum
Orlandescum animum tenuit, spadamque pependit
Sepius bis lectis puer instigatur ad arma,
Sed gemit exigui quod adhuc sit corporis, annos
Prsecipites cupiens, ut vir se denique posset
Vestire ingentemque elmum ingentemque corazzam,
Is tamen ispanam éemper galone daghettam
Dependentem habuit, qua plures ssepe bravettos
Terruit, inque fugam solettus verterat omnes,
0 pueri, audentes animos agilemque prodezzam.
At video e vobis bine plures volvere testam,
Nasutosque milii parlanti ostendere nasos.
Quam bene nunc vestri pensiria nosco niagonis.
An subsannatis quia nostra oratio tandem
Finiet, ut mores videatur in hasce favorem
Porgere Sbriccorum ? veluti si Baldulus infans
Tum bene fecisset quum Lanzalotta vigazzum
Traiecit gladio ? sic divi nonne Sbisaos
Costigare solent ? (1) sic nonne superbia nostra
Cogitur interdum vilem portare cavezzam ?
Quid, rogo, quid? (2).
TRIPERUNO.
V
olea seguir ancora il vecchio grasso,
N e molto mi spiacea di starlo udire,
I 1 dol nulladimanco, il troppo indugio,
(1) Vedi Baldo Maccheronica II, pag. 87, 88.
(2) In questo capitolo maccheronico, egli non fa che narrare la cat-
tura di Baldo, già narrata nella Maccheronica II, pag. 1 IO e seguenti,
sebbene con circostanze del tutto diverse, e parte della di lui puerizia,
r andata alla scuola, quasi cogli stessi versi coi quali cele espone nella
Maccheronica II, pag. 82, 83.
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Il caos — Selva seconda 83 ]
'-"^^^ - =~^^ - - - -' -^ —^^-=-^=^- = ,,^
C h' era di ricercar la vaga ninfa, «>
A ndarmi aliar da lui liintan mi astrinse. '^
Q lieto mi stogilo, senza dirli vale,
V olgendomi d' un rio lungo a la ripa, A
E pur egli mi segue passo passo. '
e*
F iumi di latte, laghi di falerno, "
V alli di macaroni e lasagnette, ')■
E eco mi veggio intorno, e poggi, e alte i
R upi di caccio duro e sodo lardo, ■*
A eque stillate de caponi grassi, *«
T orte, tortelli, gnocchi, e tagliatelle. ;•-
i
B eata vita, dissi allor mirando,
E questa, che di tante trippe abonda,
N on mai quinci partire mi delibro.
E con questo pensier, mentre ad un fonte
1) i moscatella, malvasia m' abbasso,
I o tolsene, bevendo in quella copia
C h' nn bove sitibondo d' acqua sorbe.
T rincli trinch, con altro vaneggiar tedesco
I ncomenciai balordo a proferire (1)
R otavasi già '1 mondo a gli occhi miei,
E sottosopra il mar, la ten-a, il cielo
Gr iran intorno, e fannomi qual foglia
V olar al vento, e gli arbori, le ripe,
L e spiagge mi parean cotanti veltri
A i fianchi de le capre gir correndo.
S aitano ad alto Y erì^e ed i virgulti,
A Ipe con monti e 'nsicme con pogetti
C orreno in rota e danzano leggiadri.
R apito poi con elli il mio cervello
I n un momento scorse V universo
S enza posarsi mai, senz' uUa tregna.
(1) Anche questa scena dell' ubbriaco, la si trova nel Baldo, che è
fatta rappresentare da tedeschi.
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84 II caos — Selva seconda
M entre così danzava a la moresca,
0 do dir, Triperuno ? Ed ecco in mezzo
R atto mi vidi posto d' una turba.
1 o contemplai non so che volti grassi
B ere sovente e poi cantar sonetti,
V ólando zaine, fiaschi e gran bottazzi,
S altavan poi chi su chi giù d'intorno.
I n quella foggia, che vili Fasoli
G- irano, a spessi tomi volteggiando,
N el caldaio su fiammi ardenti posto,
A Uor con quelli insieme canto in gorga
T utta tremante : Bacco eu oe.
I ncominciando poi così dir versi.
FUEOR.
^ urgite trippivorae, Merlin! cura, Camoense,
T rinch trinch si canimus quid erit? cantate bocali.
E cce menestrarum quse copia, quantaque stridet
R osiizzana super brasas squaquarare bisognat.
C unite gnoccorum smalzo lardoque colantum.
0 conche, plenique cadi plenique tinazzi,
R ompite brodiflues per stagna lasagnica fontes,
E rrantesque novo semper de lacte ruscelli.
F estinate meam per boccam intrare foiadse,
E t vos formalo tortse filante sotilum,
D uni canimus trippas, trippse sint gutture dignae ;
A tque altis cubitum calchetur panza fiittadis.
P ande tuae, Merline, fores spinasque Catinai,
V ernazzam gregumque simul corsumque bevanda
T rade todescanae, donec se quisque prophetam
R erum cognoscat venientiun, qualis et ipse est,
E t quisquis cyatosque levat vodatque caraffas.
T alia dum loquimur somno demergimur alto.
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Il caos — Selva seconda 66
V enit at interea mihi trippiger ille Cocaius,
I Ile, inquam, cui panza pedes cascabat ad inios,
R umpebatque uteri multa grassedine pellem.
T une, ait, o Triperune^ tener, Triperune tenelle,
V enisti ? venirti etiam Triperune galante ?
T u ne ades ? o mi lac, mi mei, mi marzaque panis,
E ya age, zuccarate puer, ne pupule dormi,
S urge, oculosque leva, Lui, sbadacchias ? surge, gaiarde.
A n, mellite, fugis sic me ? me, ingratule, scampas ?
B astardelle levis levisque cinedule, sic sic,
I ndignatus abis ? sta mecum, argutule, semper,
E n paradisus adest, en hortus deliciarum,
R eHigio qu^nam melior, quse tam bona lex, quam
E sse hac in vita, qua nivimus absque travaio ?
0 vitam sanctam, o ritus moresque beatos,
M ellis molle mare est, illud travogabimus ambo,
N OS ambo travogabimus, ambo errabimus, ambo
E t simul ad poggiam simul et veniemus od orzam.
S urge, poeta novelle, cane, heus, puer, accipe pivam.
D ic improviso macaronica gesta coturno,
1 ncipe, parve puer, qui non suxere fiascos,
I Ili, consumpto lardo, sonuere carettam.
TRIPERUNO.
V
an ha il pensier e il desir inutile,
E sser chi crede un cielo a questo simile.
R idi cor mio, che cosa verisimile
T ornar un alma a Dio non è, ma futile.
I tene leggi e noi scritture ambigue,
T empo eh' eterno sia gli dei s' appropriano,
E pel nostro sperar di risa scoppiano.
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86 II caos — Selva seconda
MERUNUS.
O mi belle puer, sic sic bene concinis ? un sic
R ecte recta canis ? iani iam macoronicns esto.
T ale tuum carmen nobis, quale ocha piena
E st aio (1) mensis, quale est damatina tedesco
M alvasia recens, sus caula^, melque fritellis.
TEIPERUNO.
N
e per speranza d' altri beni, ne
V oglio per alcun pregio for di qui
R eddurmi ad altri più felici dì.
S ciocco sperar il ben, eh' anco non è,
I o nacqui solo per gioir qua giù:
N oi dunque in terra e Dio nel ciel si sta ;
I ndamo altrui sperarvi chi non sa.
MERLINUS.
V
era aìs, o corsi, o admiranda potentia gTCghi,
T antula ne in puero doctula lingua meo ?
TRIPERUNO.
R
iposte cime, poggi ombrosi, e colli,
E voi di lardo e di persuto ripe,
D ensi antri d' onto e tiìpe,
E mpìti noi, che pieni e ben satolli
A vostro onore scoppiaremo versi :
T a' forse, che non mai sonor più tersi.
(1) AìQi cioè aglio»
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m
Il caos — Selva seconda 87
MERLINUS.
l annadse hinc abeant, aqua coctaque febribus apta.
R adices herbseque habiles in pascere capras
I te ad menchiones, ite ad saturare legeros.
S tant qui per boscos, per montes perque cavernas
T essere sportellas, tenuatum battere coi-pus,
I nglutire favas, giandas, ac millia, quse fert
N atura et porcis et asellis atque cavallis :
A t nos hic melius stamae turdoque studemus.
TRIPERUNO.
N
on sia cagion, che mai da te mi scioglia,
0 mio maesti^o, e guida,
R iposo, ogetto mio, mia scorta fida,
M angiamo dunque e rallentarne i fianchi,
A cciò eh' un bon castron da noi si fi-anchi.
MERLINUS.
r ersutti accedant primo, bagnentur aceto,
A pponatur apri lumbus, cui salsa maridet,
T ripparumque, busaccarumque adsit mihi conca,
R ognones vituli lessi, sapor albus odoret,
I nsurgant speto quale, mostarda sequatur,
S ic vi venda vita hsec, veteres migrate fasoli.
TRIPERUNO (1).
s.
ftavami un giorno fra li altri, col mio maestro
Merlino, su la ripa d' un rapidissimo fiume di latte, lo
(1) Questo capitolo, nella seconda edizione ò intestato a Matotta.
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88 Ih CAOS — Selva seconda
quale impetuosamente le fragil sponde di pane fresco
diroccando, un snavissimo talento di mangiar suppe di
cotal mistura porgevacì. Ma io talmente trovavami esser
allora di fritelle compiuto (1) e satollo, che, in mia laude
vo dirlo, col dito per la gola quelle toccare averci po-
tuto, la onde fu mistero la cintura, se scoppiai-e non vi
voleva, rallentaimi su fianchi. Vero è che '1 mio precet-
tore assai di me non pm' meglior poeta, ma bevitore,
mangiatore, e dormitore tutto che di quelle istesse fri-
telle dovea ripieno essere, niente dimeno erasi pm- anco
opposto agiatamente a V impresa di espugnare un ca-
pacissimo vaso di lasagne, non già di pasta per zappatori
usata, ma di pellicole de grassi caponi, li quali del istesso
colore, e' hanno la testa gli giudei, erano (2). E mentre
io, con seco favoleggiando, mi trastullo in veder un porco
col griffo nel caldaio di broda li guazzare, e egli per
non perder il tempo mi ascolta solo e mai nulla risponde,
ecco vi sovragiunse un damigèllo, d' aspetto, per quel
che mi ne parca, molto gentile e saputo, lo quale una
sua cetra soavemente ricercando, così accomodatosi con
la voce al sono e appogiatosi ad un lauro a lui vicino,
disse :
LIMERNO.
xja fama, il grido e V onorevol suono
Di vostra gran beltà. Madonna, è tale.
Che 'n voi tanto 1 desìo già spiega V ale,
Che non mi vai s' addrietro il giro o sprono.
Di che s' al nome sol 1' arme ripone.
Con cui spuntai d' amore più d' un strale,
Or che fia poi vedendo l' immortale
Aspetto vostro, a noi sì raro dono ?
Ma, lasso ! mentre i bramo e 'nsieme tremo
Vederlo più s' arretra la speranza,
(l) Si legrge compiuto in ambedue le edizioni.
(2) Li quali delV istesso colore^ che hanno la testa gli
giudei cioè di colore giallo, poiché al tempo del Folengo, gli Ebrei
portavano in capo una berretta gialla con un 0 nero.
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*^1f ^v -
Il caos — Selva seconda
TRIPERUNO.
89
Quanto Y ai-dor più cresce col desìo.
Però di quella ornai poco m' avanza^
E pur s' un riso vostro aver posa' io.
Resorto fia da voi su '1 punto estremo.
I\ì soavissimo canto e suono di quel giovane
tacquero sì le selve, racquetatosi ogni vento,, che le
fronde niente si moveano, non già perchè nel contado
del mio maestro fusse de fioriti prati, ombrosi boschi,
verdi poggetti, amenitade veruna, quando che la va-
ghezza di quel luogo era solamente di lardo, botiro,
cagiate, brode grasse, e altri simili lecardie. Ma quella
fiumara, che dissi essere di latte, eravi confine di tre
molto differenti regioni, come se fossero la Europa, l'Aifrica
e l'Asia. La prima regione, ove io col mio maestro abi-
tavamo, già pienamente dissignata avemo, la quale Ca-
rossa fi nominata. La seconda tutta vaga e ripiena di
vive fontani, frondosi lauri, mirti, faggi, abeti, frassini,
ohve, querze, e d' altri assai bellissimi legni addombrata,
chiamavasi Matotta, ove questo Limerno dimorava. La
terza per il contrario tutta sassosa, rigida, secca, asterile
e arenosa, Perissa fu appellata, ne la quale un eremita
detto Fulica, senza eh* altrui lo invidiasse, abitava. Or
dunque m' accorsi quel giovenetto dover essere del paese
di Matotta, lo quale così polito de vestimenta, e perfu-
mato di muschio sapeva dolcemente a Y istrumento con-
cordare la voce, onde io tratto in quella parte celata-
mente, che né egli, né Merlino se n' avedesse, trapassai
lo fiume di latte in quella verdura di là, e drento uno
cespuglio di rose e spine appietatomi non troppo da lui
remoto, stetti ad ascoltai-lo, lo quale, dopoi un lunghetto
ricercare di quelle sonore corde, in queste rime così pro-
ruppe, dicendo :
LIMERNO.
)o ben che '1 mio lodarvi, donna altera,
Quando che non vi giunga, avete a sdegno;
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90 II caos — Selva seconda
So ben che '1 mio avezzato in fiumi legno
Trovar porto nel vostro mar dispera,
Ma de vostr' occhi se quel!' alma spera
Mi si scoprisse alquanto, . forse al segno
Uguale mi vedrei, che '1 nostro ingegno
Ascende amando e più oltra gir non spera.
Non è barchetta così lenta e frale,
Ch' avendo voi, e vosco amor, in poppa,
Per ogni ondoso mar non spieghi Y ale.
Onde la musa mia va pegra e zoppa
Se schiva udite lei, ma se vi cale
Il suo cantarvi, allor lieta galoppa.
TMPERUNO.
X osto finito ebbe di dire, eccovi sprovedutamente
un augelletto, o per caso, o tratto dal suo concento
'-'^ "^ si ripose appresso d' un arbore sopra un ramo secco,
! ove, tacciuto eh' ebbe, Limerno, con un dirotto gemito,
I faceva la selva intorno richiamare, di che egli alzata la
fronte a quella, così a l' improviso incominciò con seco
a ragionare.
LIMERNO.
V.
aga, solinga e dolce tortorella.
Oh' ivi sul ramo di queir olmo secco
Ferma t' appoggi, e hai pallido il becco.
Spennata, pegra, e men de V altre bella.
Dimmi, che piagni ? Piango mia sorella
Perduta in queste selve, e lei dal stecco
Di questo antico legno chiamo, ond' ecco
Miei lai riporta a la più estrema stella.
Lasso ! eh' anco la mia penando i chero
Per questi boschi, e 'ndamo quella abbraccio,
Fingendo lei quel albero, quel pino.
M' acciò eh' el nostro affanno men sia fiero.
Partiamo a. V uno e 1' altro il suo distino,
Ch' altrui miseria al miser è solaccio.
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le
Il caos ■— Selva SECONDA 91
TRIPERUNO.
JL iacquemi sommamente cotale foggia di dire, senza
eh' avessevi egli, come si sole, faticosamente avanti ripen-
sato : Ma levandosi quella un' altra fiata su le penne,
giuso in una valle portata, da gli occhi di quello si
tolse. Ed esso rallentata la corda del canto piìi de l'altre
affaticata, mettesi a passeggiare accanto il fiume, tutto
sopra di se, come pensoroso, levandosi, non avendo an-
cora scorto lo mio maestro di là del fiume su la ripa,
del pane fresco agiatamente disteso. Ma vedendolo così
sproveduto, ritenne il passo, e tutto il viso in riso can-
giatosi, cominciò ad interrogarlo in questo modo.
DIALOGO PRIMO.
LIMERNO E MERLINO.
LiM. V^^he fai Merlino?
Meb. Empiomi lo magazeno.
LiM. Avantagiato mercadante sei tu, mangi tu forse ?
Mer. Non hai tu gli occhi da vederlo ?
LiM. Ben veggio con gli occhi, ma non comprendo.
Mer. Per qual cagione mi domandi tu adonca s'io mangio,
non lo potendo chiaramente vedere ?
LiM. Io so che i fabbri trattano solamente cose da fabbri,
la onde parebbemi cosa disusata e nova veder Mer-
lino far altro che mangiare.
Mer. Io so ben far altro ancora.
LiM. Credolti troppo, ma che ne facci testé la prova
non molto mi cale.
Mer. Perchè così ?
LiM. Vi faressi sentire d' altro, che zibetto e acqua non fa.
Mer. e cosa naturale.
LiM. Via più asinale.
I
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92 11 caos — Selva seconda
Mer. Da quanto tempo in qua sei tu così delicato e
schivoso devenuto ? non ti fai, se mi ranmiento bene,
chiamar Limerno ?
LiM. Limerno son per certo.
Mer. Limerno Pitocco ?
LiM. Io son pur desso.
Mer. Dimmi adonca, Limenio Pitocco, per qnal cagione
tu ti mostri ora tanto schivo e ritroso d' udir no-
minare quella cosa, con cui lordamente hai sconca-
cato (1) quel tuo Orlandino ?
LiM. Da te solo ne tolsi lo esempio, Merlino.
Mer. e dove ?
LiM. Ne la quinta fantasia dal tuo volume.
Mer. Più questo in un Zambello (2) potevasi tolerare,
che in un cavallero e paladino di Franza, e più col
mio stile macaronico, che col vostro tanto onorevole
toscano.
LiM. Adonca, se ben comprendo, appresso di te lo stile
toscano è avuto in riverenzia, che così onorevole lo
f chiami ?
|. Mer. Perchè no ?
LiM. Che ne so io? mi pare di stranio, eh' un uomo
macaronesco voglia magnificare Y eloquenza toscana.
Mer. La cagione ?
LiM. Perchè lo bove si rallegra nel suo puzzo.
Mer. Ed a te quanto la lingua toscana viene in grazia?
in che openione V hai tu ?
LiM. Sopra tutte le altre quella reputo degna, laudo,
magnifico, e contra li detti-atori di essa virilmente
lei deffendo, che quando talora per sotto questo
ombre mi trovo le belle rime del mio Francesco
Peti'arca aver in mano, overo quella fontana elo-
quentissima del Boccacio, uscisco, leggendo, fora di me
stesso, devengone un sasso, un legno, una fantasma,
per soverchia meraviglia di cotanta dottrina. Qual
più elegante verso, limato, pieno e sonoro di quello
(1) Lascio sconcato^ invece di sconciato che trovasi in ambedue le
edizioni.
(2) Zambello è il fratello di latte di Baldo. Vedi la prima Mac-
cheronica del poema il Baldo.
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Il caos — Selva seconda 93
del Petrarca si può leggere? Qual prosa, orazione
si può eguagliare di dottrina, di arte, di arguzia, di
proprietade a quella del facondissimo Boccaccio ?
Dilchè io reputo gli uomini literati, li quali nulla
delettazione di questa lingua si pigliano, essere non
pur di lei ma di cortesia, gentilezza, ed umanitade
privi.
Mkr. e quali sono questi detrattori di essa?
LiM, Alquanti persianisti pedagogi, o pedantuzzi.
Mer. Che cosa dicono ?
Ltm. Cotesta lingua essere cagione di lasciar la romana.
Mer. Ed io nel numero di costoro mi rallegi-o essere,
che di te, e d' altri toi simili ignoranti meravigliomi,
li quali non intendendo dramma de la tulliana fa-
condia, e gi'avitade virgiliana, vi sete totalmente
affisi ed addescati al quinci^ quindi^ testò, altresì^
chiunque, unquanco^ altronde^ e altri dal tosco usi-
tati vocaboli.
LiM. Ah volto di tavolazzo ! ubriacò che tu ti sei, presimimi
tu forse di tanta suffìcienzia essere, che tu poscia
la sullimitade (1) de la toscana lingua diminuire ?
Mer. Ah muso di giottone e forca che tu ti sei ! ardisci
tu dunque cotanto lodare lo stile petrarchesco e
boccacciano, che la romana eloquenzia non essendo
da te nominata, da te riporti infamia?
LiM. Tu ne menti molto bene, che non biasmo io la
'romana lingua.
Mer. Tu ne stramenti (2) molto più, che mentre innalzi
quella troppo, questa abbassi e deonesti molto.
LiM. Deh ! vedi cotesto poetuzzo macaronesco, in che modo
non pur giudice, ma advocato di Tullio e Virgilio
da se medemo si constituisse.
MiiR. Deh ! mira cotesto zaratano lombarduzzo, come si
mette al rischio si saper ragionar toscano, ove egli
non men si affk d' un asino a la lira.
LiM. Che zaratano ? che louìbarduzzo ? come se un conte
di Scandiano, un Ludovico Ariosto, un Tebaldeo,
un Lelio, un Molza, e altri molti valenf uomini non
(l) Stdlhnitade per sollenUarìe.
(2) Slramenti. Vedi nota N. 79 all' Orlandino.
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94 II caos — Selva seconda
fossero in Lombardia nasciuti !
Mer. Non sei tu già del numero loro ?
LiM. Desidero esserne, onde ogni mio studio h di se non
eguarmi, almanco appressarmi a loro ?
Mer. Molto luntano tu li vai.
LiM. Lo bon animo non vi manca, ma tu come hai bene
osservato le divine vestigia di Virgilio in quel tuo
perdimento di tempo ?
Mer. Quale?
LiM. Quel tuo volume dico, nel cui sobbietto le prodezze
de non so chi Baldo cachi e canti.
Mer. Quanto al cantare non ho io già da imitare Vir-
gilio, quando che del mio, idioma, lo quale sopra
tiitti li altri appresso di me vien reputato nobile, io
non mi tegna aver superiore alcuno ; ma quando al
cacare, non voglioti rispondere altrimente, perchè se
neir opera mia son stato io fin a li galoni in quella
tal materia puzzolente, tu Limerno mio, fin a gli
occhi ti vi sei lordamente voltato ; però lasciamo,
pregoti, questo soprabondevole ragionamento in di-
sparte, che tu e io abbiamo in ogni modo straboc-
chevolmente eiTato.
LiM. Io tolsi lo nome solamente di Pitocco per diro un
tratto lo mio concetto.
Mer. Ed al soggetto, qua!' è quello, non accascava se
non malagevolmente il nome di Pitocco, e anco de-
dicarlo a un signore non si doveva.
LiM. Orsù dunque lasciamo. Merlino caro, le dette tra noi
ingiurie, e siamo amighi come prima.
Mer. Fa come ti pare.
LiM. Ma vorei da te una grazia sola, caro mio Coccaio.
impetrare ; non mi la negare, pregoti, se '1 botazzo
non mai ti si parti dal galone.
Mer. Tu non poi fallire di domandarmi, che a me starà
poi, parendomi, darti.
LiM. Non ti voler piti oltra con esso meco tiubare, se
un mio concetto auto, già molti mesi ora sono, per
scoprirti
Mer. Con la lingua dì pur ciò che ti pare, ma tacciano
sopra tutto le manit
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Il caos — Selva seconda 95
LiM. Non vi è pericolo, mediante fra noi lo fiume, di
conflitto alcuno, Merlino caro. Ma taci, prego, non
odi ? conosco la dotta mano, conosco lo novo Am-
fione, conosco 4o mio Marco Antonio, o mirabilis-
simo musico, che ben quella vii-tude a la gentilezza
d' un tal animo degnamente conviene. Non odi tu lo
accomodatissimo ricercare d' un Lauto ? Costui di-
scese da Vinegia di tutta Italia nutrice. Egli per
doi giorni s' è dignato qui fra noi dimorare. Or
ascoltamelo ti prego, egli ancora non ci ha veduto,
e men voglio che ci lasciamo da lui vedere, acciò
lo rispetto suo verso de noi cessare no 1 faccia da
sì dolce impresa.
A
1 ciel or trionfando spiego 1' ale,
N on ho di sorte, eh' io più tema Y onte,
D apoi, eh' anti si altera e degna fronte
R agiono, ed ella udirvi assai le cale,
E perchè del suo nome alto immortale
A Izar più non potrei le note conte,
S crissile in capo de' miei versi al monte,
D ove salir vorei con più alte scale.
Or loria del mondo non che d' un sol stato
R egna costui, eh' ai fatti egregi e ad essa
I ntegra forma ogni mortai eccede.
T urchi, mori, tedeschi, e d' ogni lato
V ien gente al grido, e mentre 1' ode, e vede
S ovra la fama esser il ver confessa (1).
(1) Per errore tipografico non venne marcato il primo anagramma,
che io già trascrissi nella mia prefazione al Voi. I delle Opere Macche-
roniche pag. XXXI e che è latto dalle poesie di Tripeì^uno, a pag. 52,
Triperjino, pag. 62, Lamento di Coriiagianni e Triperuno, pag. 63, e
Tumulo di Cornagianniy pag. 64, il quale anagramma dice:
i. Divi Benedicti Regida, sub quarn ipse militatuncs Jam ingre-
diot\ pietitissima et evangelica est.
2. Vericm Ignatii Fiorentini tanta ambilio ut illa purìtas ani-
fnorum penitus corrupta deciderit.
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96 II caos — Selva seconda
i
LIMERNO.
J\\V eccellenzia e magnanimitade d' un co tal prìn-
cipe meglior tuba, che solo sollevi e innalzi, non si
potria giamai trovare di questa. E se d' intender brami
lo nome del lodato signore, li capoversi del cantato so-
netto chiaramente quello ti appresentano, ma ecco si
move a dirne appresso, sta queto.
Voi che soavi accenti, alte pai'ole.
Rime leggiadre, e pronti sensi ognora
Impetrate dal ciel, deh ! perch' un ora
Ei non m' en spira esser di vostra prole ?
Direi, che d' un tal principe non sole
Già '1 mondo esser adorno, il qual onora
Non pur Vinegia bella, ma di fora
Le genti sotto V uno e V altro sole.
Cantate '1 dunque voi, che a me se diede
Benigna udienza, onde lieto ringrazio
L' inclita sua virtù, V atto gentile.
Quanto più voi di dire avete spazio,
Ma ben v' annunzio, che stolf è chi crede
Poter tanf alto porger uman stile.
LIMERNO E MERLINO,
LiM. \Jy ecco, Merlino, che a tempo questo gentil mu-
sico persemi bona cagione di dirti lo già mio pro-
messo a te concetto. Per qual dunque ragione tu
omai attempato di questo tuo paese di Carossa, paese
dico da ubriachi, parasiti, lurconi, crapuloni oggi
mai non ti svelli ? perchè pur anco vi dimori tu V
Qual foggia di vita potrai tu forse in questa re-
gione de lupi adoperare, la quale posciati con la
utilitade insieme recarti qualche onorevol fama in
questo mondo, e removerti finalmente quel nome di
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Il caos — Selva seconda 97
Coccaio, nome dico, di somma leggerezza, sì come
il nome di Pitocco ancor io spero di lasciare ?
Mer. De r onorevol fama, tanta io me ne acquisto col
mio butiro e lai-do, quanto tu con quelli toi zibetti
e ambracani. Ma de V utilitade io t' ho saggiamente
da rispondere : ninna cosa essere piti utile, che '1
mangiar e bere, non dicoti le antiche giande da
tutti lodate e non toccate se non da porci, anzi
parlo di questi miei delicatissimi liquori, ove la vera
diritta via di ben vivere già molti anni passati mi
ricondusse.
LiM. Qual immortalitade di animo vi consegui tu per
bere o mangiare V
Mer. Or come potrai tu, gi^ossolano che tu ti sei, vivere
senza queste due parti ?
LiM. Anzi tu vivi allora sol per mangiare, e questa è
vita bestiale.
Mer. Vah ! diavolo. Vivi tu forse senza mangiai'e ?
LiM. Ben mangio, ma sol per vivere.
Mer. Ed io vivo per mangiare.
Ltm. Grandissima differenzia è cotesta.
Mer. Anzi è una istessa cosa, ma non la comprendi.
LiM. Ben io la conosco, che assai ti fora meglio vivere
per vivere, clie vivere per mangiare.
Mer. Ed io quel istesso ti replico, che meglio sarebbeti
mangiare per smaltire, e smaltire per mangiare.
LiM. Qual fama, qual gloria, qual immortalitade ne averai
poi ? non ti reuscirebbe meglio mangiar per vivere,
e vivendo, acquistarti perpetuitade di gloria ?
Mer. Di qual gloria intendi tu?
LiM. Di questo mondo.
Mer. Aspettava che mi parlassi del cielo.
LiM. Mi pensi tu forse così pazzo, eh' io creda sopra
la luna ?
Mer. Ed io di te assai manco credo, che volendo una
fiata salir un arbore di fico ad empirmene de le
sue frutta, per mia sventura, venendovi abbasso, rup-
pemi una spalla, onde d' allora in qua non ho mai
voluto più credere fin a Y altezza de li arbori. Ma
qual' è questa gloria del mondo e' hai detto ?
7
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.98 II caos — Selva seconda
LiM. Innamorati, raccendati, affocati, impazzisseti di qual-
che bella donna.
Mer. Con diavolo impazzirmi ? dolti forse d' essere solo
l pazzo che me in compagnia cerchi di aver ancora ?
^ Ben doppia saria cotesta matezza, che io ornai vec-
chio ribambito mi cacciassi in cotal impresa. E
quando pur io lo facessi, qual fama onorevole, come
hai tu detto, ne conseguisco poi ?
M LiM. 0 dolce, o soave mattezza di questo tenero Cupi-
i dine, lo quale di tanta virtude si rende negli amanti
ì^ cagione ! Voglio primeramente, che a grande con-
jl tento siati lo gire non pur de fini e strafoggiati
fe^ panni, ma de costumi e gesti lascivi ornato, per-
^, fumarti le mani, lo viso, le labbra, li capelli sovente
I» di zibetto, muschio, e altri unguenti con acque di
I grato odore, sforzarti di sapere ogni arte, ogni astu-
&- zietta con qualclie simulata invenzione di farti o
^V pur conservarti grato a la tua madonna, non per
f' donar a la borsa in feste, danze, conviti, notturne,
J matinate, e qualche dono per truzzimani a lei cola-
: tamente dricciato. Ma sopra tutto per il sprono e
dolce incarco di questo amoroso affetto tu sempre
averai lo componer arguti versi pronto e dilettevole,
laonde voglio, clie totalmente a la musica vocale
tu ti abandoni, cantando le cortesie, gli sdegni, gli
atti, le parole, o in lira, o in lahto, o in altro soave
strumento de la tua diva.
Mer. Non mi fa mistero lo giJi perfettamente imparato,
imparare di novo. Pensi tu forse, o Limerno, ch'io
non sappia le passioni di quello arciere, per cui già
tanto cantai, eh' ora ne son roco e imbolsito ?
LiM. Troppo ti '1 credo, che '1 fiasco per soverchio bere
consuma un corpo.
Meb. Anzi lo bere fa bona ed espedita voce.
LiM. Ed anco li quattro fa parerti otto. Ma dimmi : soni
tu d' altro istrumento che di fiasco ?
Mer. Ecco lo sacco.
LiM. Per la croce di Dio ! tu dei essere un boia.
Mer. Che voi dir boia?
|^A£, . Digitized by ^OO^l^ _j
Il caos — Selva seconda 99
LiM. Un mastro di giustizia, al quale si dk per sua mer- ;^*i
cede tre libre di piccioli e un sacco (1). "^
Mer. Ma non gli danno però la piva drento. j
LiM. Tu dunque vi tieni drento la piva? j;:
Mer, Eccola. j
LiM. Gonfia ti prego. "^
Mer. Lirum hi Urum (2). Voi eh' io ti mostri s' io so ^
meglio di te cantare ? -ki
LiM. Aspetta, prego, eh' io prima dirò ne la cetra, e tu \J
con la piva mi succederai. •[>
Mer. Io ne son molto ben contento. Ma dimmi in lom- ci;
bardo stile, che non t' intenderei toscano. : !
LiM. Farollo veramente. Odi un endecasillabo del sonno : 'J\
Hiic^ hnc^ nocfivafjie pater tenebrce^ huc som
Mer, Taci là ! questo mi par latino, e non lombardo.
LiM. Anzi e' lombardi fanno pessimamente, partendosi ^
elli da gli antiqui soi maestri di lingua latina, quando
che lo materno parlare tanto rozzo e barbaro gli
sia. Onde s' io considero chi di Mantoa, chi di Ve-
rona, ed altri luoghi di Lombardia nacque, dirò che 1
proprio parlare de' lombardi saria lo latino. j
Mer. Or ben conosco, che sei uomo vano e smemorato, •
eli' ora contradici a la openione tua innanzi detta. j
Anzi lo proprio de' Lombardi è lo barbaro da lon- I
gobardi derivato, ma di meglio, forsennato che tu
ti sci, che 1 proprio idioma de gli abitatori di Lom-
bardia sarel)be lo latino, perchè Lombai-dia non fu
Lombardia, se non dapoi che longobardi la barbarie ' j
^ipsì del parlare come de costumi portarono in quelle I
parti. Li costumi se ne sono in sua malora partiti,
e lo parlare vi è restato, e però confermarotti quello i
che già sopra dissi, che tu essendo lombardo, più '
presto avezzarti dovressi a la paterna tua lingua .
latina, che a la pelegrina a te toscana, che molto |
più di fama e gloria conseguiranno per lo avenire
(1) Da questo passo si viene conoscere lo stipendio del carnifice
cioè di tre lire mantovane all'anno, ed un sacco.
(2) Con queste parole intende di immitare il suono della che si fa 1
neir accordare la piva. Vedi Volume I Zanitonella, Egloga 1% pagina 9,
Versi 10, 17, 18 e pag. 107 verso 6^ del Caos.
X
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100 Tl caos — Selva seconda
li scrittori latini, che gli toscani, quantunque oggidì
a molti lo contrario appaia, servando però sempre
la dignitade de la mia Macaronesca. Or dunque
mentre io m' apparecchio responderti, di suso quel
tuo promesso endecasillabo, o latino, o lombardo che
si sia, non voglio di cotesto più teco disputare (1).
H
LIMERNO.
uc huc noctivagaì pater tenebrie.
Huc somne, huc placidae sator quietis
Morpheu, huc insiliens meis ocellis
Amplexusque thorum cuba, aut pererra
Totum hoc populeo madens liquore
Corpus, tum gelidum bibens papaver.
Hinc hinc mordicus intirais medullis
Haerentes abeant, cadantve curse,
Ut grato superum fruar sopore,
Mox grates superis feram diurnas.
MERLINUS.
X^ost vemazzi flui sugum botazzi,
Post corsi tenerum greghique trinchum.
Et roccam cerebri capit fumana.
Et sguerzae obtenebrant caput chimaera?.
0 dulcis bibulo quics tedesco,
Seu feno recubat canente naso.
Seu terrse iaceat sonante culo.
Mox panzae decus est tirare pellem,
Mos est sic asino bovique grasso.
(0 Le idee del Folengo sulla formazione e suir origine dei nostri
dialetti non sono giuste, giacché essi non vengono dai longobardi e si sa
che esistevano, in tutta l'Italia, molti secoli avanti la calata dei barbari.
Del rasto la discussione che egli fa intorno alla prevalenza del
toscano, o del latino è quella che si laceva ai tempi suoi» il quale però
nonostante le sue predilezioni per il latino, capisce benissimo che il
toscano era accettato oramai come lingua nazionale da un capo air altro
della penisola.
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Il caos — Selva seconda 101
LIMERNO E MERLINO.
LiM. XA h ! ah ! ah ! tu mi rompi de le risa il petto con
questa tua cosi gentil Camena. Veridico filosofo ben
fu quello, che disse lo ranocchio non sapersi com-
portare del suo fango fora.
Mer. Non mi dar piglio a la coda, Limerno, eh' io so
meglio mordere, che tu pigliare.
LiM. Non ti addirare, prego, che d' addirarti causa non
è ; già cotal proverbio non dissi per biasmo tuo,
anzi contra me solo volsi accennare, che via pia
sono manco agevole al dir latino che toscano.
Meb. Ed io similmente trovomi essere manco idonio ad
ascoltare toscano che bergamasco, e questo men ag-
gradiscemi del romano, o voi latino. Dilche se hai
pur a dirne più, ecco ai nomeri latini mille orecchie
ti spalanco e sbaratto.
LiM. Di qual nome fassi degno. Merlino mio, un uomo,
che ingrato sia?
Mer. Dilli ragionevolmente bestia.
LiM. Così da bestia te ne voglio trattare uno, or odi :
lam gens humanos nec quidquam perfide vultus ;
lam cole cum nemorum stirpe ferine nemus.
Immemor accepti ([ui muneris infremis instar
Belluse, et in nostrani sa^vis, inique, fidem.
Prodis amicitìa3 foedus : nec te pudor uUus
Arguit, i, peto, vir non eris inde, feras.
Chiamavasi costui per nome Urbano, e male conve-
nivagli veramente, che mai né il più scortese, né
il più rozzo, ne il più aspro si puote vedere di hii
fra quante ville di Padoa o Vicenza si ti'ovano, del
quale fu già composto quella similitudine contraria :
Lucus luce carens nomen de luce reca?pit ;
Bellum, quod bellum sit minus, inde venit.
4 ?
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102 II caos — Sklva seconda
Hinc quoque te Urbanum merito appellanius, ut isto
. Nomine rustieitas sit tua nota ma^is.
"o"
Deh ! pregoti, amatissimo Medino, lasciami eh' io
canti di amore in toscano idioma, che veramente
non so io più che dirti latino.
Mkt?. Non lo farò io giamai, tu canti a me e non a te.
LiM. Non voglio per niuna guisa esserti ritroso, e perchè
di cotesta materia latina ho molta penuria, e tu vi
hai pur piantado ostinatamente lo chiodo, eh' io non
debbia se non latinamente cantare, non mi ritraggo
a dirti alquanti versi da me, ancor fanciullino com-
posti, trovandomi su quello di Ferrara in certa villa,
mandatovi da mio padre per imparare lettere ap-
presso d' un frate, lo quale molti scolari teneva
sogetti, e più li belli che li brutti, nel qual luogo
per coruttela di grosso aere, soprabondavano tante
biscie, rane, zenzale, e pipastrelli, che mio inferno
mi pareva di tonnentatori. La onde ritrovandomi
ogni sera in guisa d' un lazzaro mendico tutto da
le punture di quelli volatili animaluzzi impiegato (1),
così al mio maestro puerilmente recitai.
LIMERNUS.
0
mihi pierijs liceat demergier undis,
O veniat votis dexter Apollo meis.
Quidquid ago, fateor, sunt carmina, carmina sed qiuc
Non sapiunt liquidas belorophontis aquas.
Hic nisi densa pahis iuncis et harundine torpet,
Hic nisi stagnanti me palus amne lavat.
Advoco si musas, prò musis ecce caterva
Insurgit culicum, meque per ora notat.
Dum cantare paro fletu mihi himen immdat,
Factaque per culices vulnera rore madent.
Hic quoque noctiuagse strident idulantque volucres,
Ac ventura nigr?e damna minantur aves.
(l) Ambedue le edizioni hanno impiegalo per impiagalo.
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Il caos — Selva seconda 103 |
Quid referam piiHces agili qui corpore saltant ? .>j
Utramque quos ca3dens iam earet ungue manus. ;
MERLINO.
Q>
^'uesti tei versi quantunque mi sappiano di pue- ^
rizia, pur non vi manca l'arte, e, per dir meglio, la ve-
ritadc, imperochò io molto più volentieri abiterei su lo
contado di qualuncjue altra cittade, che su quello di «
Ferrara, non già perchè ella non abbia tutte le bone
condizioni, che si ricercano in una simil terra, così di
regimento come di nodrimento, ma baldamente dirò che f
causa venma non le occorre, perchè del aere o sia del -^
cielo ella si debbia lodare, che quando la industria più •'
de la natura non vi avesse proveduto, guai a le sue !
gambe. La ondo, essendovi non so qual poeta mantoano, u
per un eccesso non picciolo, destinato dal signore a par- j
tinie im onesto esiglio, e già pervenuto su l'entrata di ]\
essa, in queste parole sospirando ruppe.
I
MERLINUS. ^:^
nsperata meis salve Ferraria curis.
Tale sisexilium ne, rogo, quale daris,
Me non parva reum fecit tibi culpa, reatum
Ex te num luerit congrua poena meum ?
Noster, ais, venias ; nostros quoque suscipe ritus,
Vivitur humano sanguine, trade cibum.
Mantous cnlicis funus iam lusit Homerus
Mantous culicum tu quoque gesta cane.
LIMERNO E MERLINO.
Ltm. l^he quelle bestiuole siano causa, per cui lo usar
in Ferrara non ti aggrada, malamente te lo credo.
Mer. Poco erroie è questa tua mescredenza.
LiM. Perchè dici tu dunque la menzogna ?
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104 II caos — Selva seconda
Mer. Se per mezzo de la menzogna tu intendi la veri-
tade, perchè mentitore mi fai ?
LiM. Mentitore sei per certo.
Mer. Si, ma verace.
LiM. Qual veritade ho io gìh inteso per la bugia teste
fatta ?
Mer. Perchè Ferrara certosa non per mosche o tavanelle
mi è a noia, ma perchè ivi raccogliendosi lor vini
su le groppe de le rane, pensa mo tu qual eccidio
qual ruina sarebbe del mio stomaco.
LiM. Ferrara e Mantoa di molte qualitadi si corrispon-
deno. Ma voglio che, si come ora ti concessi lo mio
cantar latino, così non manco tu ti comporti nel
ascoltarmi un breve capitulo.
Mer. Chi fu lo autore di esso ?
LiM. Perchè ciò mi domandi tu?
Mer. Quando che non mi dilettino molto le cose tue, e
consequevólmente non ti presto udienza se non
sforzato.
LiM. Non è mio veramente, io già fora d' un scrigniolo
quello rubbai dentro di Lementana o Nomentaua
meglio diremo, luntano da Roma diece migliara, ca-
stello nobile sì per la vecchiezza di esso, sì per la
generosissima famiglia de Orsini di quello e alti-e
assai terre posseditrice, e madonna ; e benché io
molte volte V abbia per mio recitata, nulla di manco,
mi confesso a te, non esser egli mio son certo, ma
d' un Gian Lorenzo capo d' oca secretarlo del si-
gnore del loco.
Mer. Ora incomincia, e io fratanto un sonetto voglioti
comporre.
LIMERNO.
s
ia pur contrario a noi Y aspro furore
D' ogni stella crudel, d' ogni elemento.
Che r ira sua non piega un stabil cuore.
Latri chi voi latrar, io gli '1 consento,
Che tanto si alza più la fiamma accesa,
Quando lei spegner vole un picciol vento.
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Il caos — Selva seconda 105
Qual più lode voi, qual più chiara enipresa
D' una costante, d' una fede piu'a,
Ch' odio non teme ne di sorte offesa.
Un fermo scoglio d' onde non ha cura.
Ne un stabil cuore di quahinque olti-aggio,
Che fede intorno a lui più allor s' indura.
Sol ne gli affanni si conosce il saggio,
Lo qual, per eh' im bersagUo sia di sorte.
Non parte mai dal cominciato viaggio.
Né di ferro minaccie, né di morte,
Mentre animosamente spiega 1' ale
Di fede, mai paventa un uomo forte.
Però la forza lor in noi che vale ?
Gik chi congiunse in ciel altrui non scioglie
Perchè non svaria mai corso fatale.
Lasciali pur empir lor empie voglie,
Livido cuor sol di se stesso è pena,
E chi semina tosco, tosco accoghe.
Pingon in ghiaccio e solcan ne la rena,
E quelli de la pugna al vento danno,
Che rodon la fidel nostra catena.
Ma tu la lor malizia, il lor inganno
Impara di conoscer, e lor fraude.
Che bello è Y imparar a Y altrui danno.
Se ride '1 tuo nemico, se '1 t' api)laude.
Tu similmente applaudi e ridi ad esso,
Cli' esser falso co fal«i e somma laude.
Se ancora ti minaccia e morde spesso.
Contieni d' ira, che ti fia gran palma,
Summa vittoria e '1 vincere se stesso.
Non de turbarti un incolpevol alma,
S' ognor in lei più Y odio si rinforza,
Ch' un gir leal non sa peso ne salma.
ISlsi se considri ben sua debil forza
Tu riderai di lor invidia ed onte ;
Ardor di paglie subito s' ammorza.
Sian dunque lor insidie occulte o conte
Osserva quelle e queste, ride e sprezza.
Ohe '1 bon nochiere se tien la fronte a fronte
Di sorte accortamente, mai non spezza.
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106 II caos — Sflva seconda
MERLINO E LIMERNO.
Mer. v^ quanto m' è giovato questa dolcezza.
LiM. Or vedi tu dunque, clie sin a te la soavitade di
rime toscane sono aggradevoli ?
Mer. Per qual segno conosci tu in me cotal effetto
essere ?
LiM. Come, non hai tu già detto questa dolcezza averti
non poco gradito ?
Mer. Si del sonno che ho fatto.
LiM. Tu dorme vi dunque mentre io cantava ?
Mer. Che meraviglia? non sei tu già di minor vigore
d' una sirena
LiM. Dormivi tu, caro Merlino ?
Mer. Domine ita. Ben ti lo dissi da prima.
LiM. Che cosa?
Mer. Di componerti un sonetto.
LiM. Or baldamente t' intendo, grandissima è la diffe-
renzia ti-a lo sonnetto e soneto.
Mer. Quanto è tra '1 persuto e lo schenale.
LiM. Io ti voleva domandare lo giudizio tuo si de Io
verso come del ricitatore, ma per quello, . che me
ne pare, ho ragionato con le mm-a.
Mer. Anzi e la campana e lo campanaro mi è pia-
ciuto, ma
LiM. Ma che ?
Mer. Aggradito m' averia più, se
LiM. Se che ?
Mer. Se più lungo fusse proceduto.
LiM. La cagione ?
Mer. Per più donnire.
LiM. E pur gran torto mi fai non ascoltarmi così come
io voluntieri ascolto te, non gik per fasto e vana-
gloria, ma per avere solamente qualclie aviso da gli
uditori, se dicendo nel istrumento mi sconcio troppo
nel volger il capo, nel girar de gli occhi, nel finger
caldi sospiri, se graziosamente o no tengonii sul
braccio la ceti-a, se abbasso o pm- troppo innalzo
-tìL.
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Il caos — Selva seconda 107
la voce, e altre simili particulari eflfetti d' un amante,
acciò che per V alti'ui aviso pii\ ragionevolmente
avezzare mi sappessi, dovendomi egli poscia essere
a molto accrescimento de lo amore di mia donna.
Mer. Se queste parti non hai, ben ti le poscio mostrar
io, se mi ascolti per una pezza, e forse lo sonno ti
starà luntano per vigor de la mia piva, or odi im
oda in loda d' una mia ammorosa detta la Mafelina,
e impara da me gli affettuosi gesti.
LiM. Comincia, eh' io mi sento voglia di mangiar riso.
MERLINUS.
xxspra, crudelis, manigolda, ladra,
Fezza bordelli, mulier diabli.
Vacca vaccarum, lupaque luparum
Porgat orecchiam.
Porgat uditam, Mafelina, pivse ;
Liron 0 hliron^ coleramque nostri
Denti s ascolte t, crepet atque scoppiet.
More vesighse.
Illa stendardum facie scoperta
Fert putanarum, petit et guadagnum,
Illa marchettis cupiens duobu»
Ssepe pagari (1).
Semper ad postam gabiazza rosso
Piena belletto, sedet ante portam.
Chiamat, invitat, pregat, atque tirat
Mille fomatos.
Mille descalzos petit ad cadregam,
Perque mantellum, fuciens carezzas,
Intus agraffat, quid habent nìonetaj
Prima domandat,
Quis mihi credat quod avara stabit
Salda ad unius pagamenti bezzi ?
Quis bagassarum similem scoazzam
Vidit Arena?
(1) Da questi veràì si intende il prezzo delle generoio dei tempi
dei Folengo.
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108 II caos -:- Selva seconda
Nulla Veronse meretrLx Arenae (1)
Peior Ancroia reperitur ista,
Heu ! tapinelli poverique amantes
Ite dabandam.
Ite luntani, moneo ; provator
Ipse crustarum putride carognre,
Ibit in Fraiìzam (2). Pochi pendit istiim
Quisquis avisum.
LIMERNO E MERLINO.
M.
LiM. lVJ.erlino mio, questa tua foggia di cantare non sì
dimanda cantare, ma un abbagliare, un mugire, un
tonare su per le ripe del Pado.
Mep. Sonano li pifari su per li argini del Pado.
LiM. E raggiano, come dice il mantoano, li asini.
Mek. Tu voi dunque dire, che in questa mia chiusura
fra tanti asini io canto ?
LiM. Ed anco peggio ti direi, s' io sapessi.
Mer. Più rozzo cantore di lui non saperci io gik mai
trovare.
LiM. Si, di canto figurato.
Mer. Cantano forse altramente che di figurato ?
LiM. Lo suo naturale e nativo.
Mek. Qual'è?
Ltm. Canto quadrato, largo, sonoro, e molto di gorga, e
più de le volte fannoli drento un sti-ano conti-a
punto.
Mer. In qual modo ?
LiM. Con la musica di drieto, la quale mantengano con
la eguale battitura de calzi, non mai alterandovi la
misura.
Mer. Dunque lo asino ha una parte da natura più de
gli altri animali.
LiM. Come cosi ?
(3) Vedi Voi. I Zanitonella pag. 40 la nota P.
(4) Anche qui con una velata allusione al nialfrancese il Folengo
appalesa la sua avversione ai francesi.
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Il caos — Selva seconda 109
Mee, Che r asino con due voci in una istessa musica
può cantare.
LiM. Anzi può cantare, sonare e battere insieme.
Mer. Annodavi un altro gruppo a questa virtù.
LiM. Quale ?
Mer. Messer lo asino sa chiudere una borsa senza se-
raglie.
LiM. Meravigli avinii se da gli asini si potesse guadagnare
altro che calzi e correggie e da un Merlino altro
che sporche e stomacose parole. Or stattine, tuo mal
grado, in questa tua lordura, porco da brotaglie che
tu sei, che ben di me medemo non posso fare, che
non mi meraviglia, standomi quivi ad altercar con
un devorone di lassagne, nemico di gentilezze e
cortesie.
Mer. Vanne tu vanissimo e ageminato Cinedo, che gli
odori de quelli toi unguenti e impiastri fumentati
per altra cagione non porti tu, se non per ammon-
tare e spegnere lo fettore de le sozze bagasce, fra
le quali, giorno e notte, sempre tu dimori.
LIMERNO.
X^ orsennato e pazzo che son io, essermi raffrontato
a favoleggiare con questa destruzione di raffiuoli. O me-
schino me ! se la unica mia signora e divinissima dea
giamai pressentisse lo suo Limerno aver dimorato una
bona pezza con un lordissimo porco, or che direbbe ?
or che farebbe ella "? Per lo vero non mai più se non
con torto sembiante mi guardarebbe. Voi adunque chiari
fonti, cristallini ruscelli, porporei fiori, amene piagge,
riposti antri, voi gai augelletti, lascivetti conigli, guar-
dativi che alcuno di voi non presumi lo folle mio er-
rore a lei manifestare, a lei dico, la cui presenzia a tutti
con un sol riso vi abbella, che molte volte degnavi de
r angelico suo cons])etto, appoggiando le belle membra
or su quella fiorita sponda del vivo ruscello, or sotto
quel speco inederato di allori, mentre Y ardente sole a
gli animali rende Y ombre aggradevoli. Deh ! pregovi, te-
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110 11 caos — Selva skconda
netimi dal mio sole coperto, che dubbio non ò, quando
ella non più si degnasse di comportar le mie lodi, lo
mio ver lei amore, io ne morirei ; io da me istesso di
quel olmo al vecchio tronco mi sosi)enderei. Ma inantl
la miserabil morte mia annunziovi, che crudel A^endetta
di tutti voi ne pigliarci, non è fiore, non è pianta, non
è fonte, che impetuosamente non straziassi, svellessi, e
disturbassi. Statene dunque o de miei secreti consape-
voli, statene taciti e quieti, ma non si taciti e quieti.
che le rime mie, le quali ora sono cantando per isfo-
gare, non subito le riportati e recantati a le sue divine
orecchie. E perchè voi avete ad essere miei fidelissimi
compagni, consequevolmente voglio che d' ogni mio se-
creto voi siate participevoli.
Io dunque meritar puotei la entrata di questo san-
tissimo giardino allora, quando la fama sola d' ima non
pur bellissima, ma prudentissima madonna mi cocque le
medolle, lo cui bel nome voi ne capoversi di questo
succendente sonetto potreti conoscere, lo quale già lo
fido mio falcone nel scorzo di quel frassino intagliando
scrisse :
G
loriosa madonna, il cui bel nome
I n capo de miei versi porrò sempre,
V orrei pur io saper de quali tempre
S ian que A'^ostr' occhi neri ed auree chiome.
T rema ciascun in lor mirando, come
I vi sia la virtude, che distempre,
N ostra natura, e 'n ferro i cuori tempre,
A cciò più di leggier lor tiri e dome.
D i calamita dunque se non sete,
I n voi di cotal pietra è forza al manco
V ivace sì, eh' ogni materia liga.
I o tragger vidi de' vostr' occhi al rete
N atura, amor e 'l sol di sua quadriga.
A Itra simile a voi chi vide unquanco ?
i
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Il caos — Selva seconda Ili
LIMERNO.
Mi
girabilissima è per certo di costei la beltade e
cortesia, la cui fama sola, or che fa poi la presenzia,
puote di luntane conti-ade altrui ricondurre a vedere e
contemplare la tanta lei vaghezza, la tanta lei graziosis-
sima onestade. La onde chiunque al primier assalto la
vede subitamente vien con stretto ad prorumpere in co-
teste simili parole :
0.
"r non più fama, or non più '1 sparso giido
L' unica sua bellezza mi dichiara,
Che mentre a gli occhi nostri non fu avara
Vidila sì, che così ardendo i grido.
Per r universo non che 'n questo lido
Più bella, accorta, pronta, onesta, e rara
Donna chi vide mai ? quivi s' impara
Nata beltà d' amore ad esser nido.
Però se questo e quello od altri l'ama
Meraviglia quaV e ? ma beu saria,
S' uom ò, (^10 lei mirando non s impetra.
Quel guai'do pregno d' alta leggiadria.
Quel dolce riso anco nel cuor mi chiama.
Costei sola del ciel le grazie impeti-a.
LIMERNO.
M.
La si come dal ciel ogni grazia in lei discese,
così ella in me non dedignossi la sua impartire, con-
tentandosi, eh' io di lei faccia resonare voi sollevati colli,
e ombrosi poggetti. Or dunque abbassativi o verdi cime
de voi faggi e abeti, de voi lauri e mirti, de voi querze
e illiei, de voi viti e olmi; abbassativi dico ad ascoltare
questa mia sonora cetra, ma non bastevolmente sonora
a r altezza di quella madonna : ad udire queste naie leg-
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112 II caos — Selva seconda
giadre rime, ma non leggiadre al merito di quella dea,
a sentire lo mio dirotto pianto, ma non si dirotto, che
poscia r ardentissime faci spegnere de Y aflfòcato core. E
se troppo baldanzosamente vi paio di fare mentre io
dico di lei d' ogni alto stile degna, incolpate sol amore,
lo quale mi fa sovente dire, quello che di tacere assai
mi fora meglio, e sognandomi più volte movemi a va-
neggiare quanto ora sete per udire in questa mia debil
cetra :
V^uesta madonna, che si dolce altiera
Un sol di tante stelle in mezzo asside,
Dimmi, dond' è che austera in volto ride
Scoprendo insieme il v(3rno e primavera?
Vedi se di virtù donna si intera
Fu mai, eh' un cor a un sol riso conquide,
Ma lui tropp' alta speme non affide,
Che fugge '1 riso ed egli più non spera.
Cosi r alta guerrera e sferza, e freno
Tien di chi 1' ama, ed ama chi la vede,
Anzi chi r ode, anzi chi dir ne sente.
Cosi '1 regno d' amor costei possedè,
Ove tanti bei spirti saggiamente
Bella nudrisse al dolce suo veleno.
LLAIERNO.
Viuando 1' alma gentile, per cui sola
Moro la notte e poi rinasco '1 giorno,
Venne dal ciel, per farvi anco ritorno.
In questa vita, eh' fc d' errori scola.
Amor, che 'n queto quinci e quindi vola.
Si le fé centra di sue spoglie adorno
Qual fier tiranno, eh' al suo carro intorno
A tanti uomini e dei, eh' al mondo invola.
Ma lei di se maggiore e d' altre frezze
Vista luntan alteramente armata,
Stette smarrito e dal triunfo scese.
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Il caos — Selva seconda 113
Quella da sue virtù, da sue bellezze,
Di che r ornò natura e '1 ciel, levata
Nel carro stesso, in noi V arco si tese.
LIMERNO.
jLAlluntanato è '1 sole, e noi qui manchi
Del suo bel raggio fan più giorni lassa.
Io pur spiando s' altri quindi passa.
Spesso alzo gli occhi, di mirar già stanchi.
I dico s' alcun passa, che rifranchi
Noi d' està valle del suo . lume cassa,
Narrando il suo ritomo; ma trapassa
Con speme V anno e morte abbiamo ai fianchi.
Sleguasi '1 tempo ne pur anco appare,
Chi dica : annuncio a voi grande alegrezza,
Ecco toma colei, che '1 mondo abbella.
Lasso ! non so, che più mi speri,' eh' ella
Per su que monti con Diana pare
Va solacciando e noi qui giù non prezza.
LIMERNO.
I
n quelle parti, ove di poggio in valle
Di valle in poggio, va scherzando Aprile,
Madonna or giace, e in atto signorile,
Sovente in V erbe pon su fior le spalle.
Zefiro intomo baldamente valle
Spirando in quella faccia, in quel gentile
Sino d' avorio schietto, e chiama vile
Di borea 1' Orizia e biasmo dàlie.
Tal' or ella si parte al loco, dove
Già di sua Laura sì altamente disse.
Colui, che 'n rime dir ha '1 più bel vanto.
Quivi s' inchina umile al sasso, e move
A r ossa, eh' entro stanno, un dolce pianto,
Ch' amor sul maraio di sua man poi scrisse.
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114 II caos — SiiLVA seconda
LIMERNO.
\9xiBXìào 'ì tempo, madonna, a noi sì parco,
Dramma di se concedemi tal' ora
Di vosco ragionar, i grido allora :
Dolci fiamme d' amore, dolce 1' arco.
Ma quando invidia le più fiate il varco
Mi serra a i lumi, ove convien ch'io mora,
Vo richiamando mille volte Y ora,
Non è amarezza a l'amoroso incarco.
Qui poi la fede, che di par col sòie
Certar solca, s' annebbia di sospetto,
Fulgura il sdegno e zelosia tempesta.
Però scusar si deve, se d' un petto
Scacciato '1 cor dal vermo, che V infesta,
Non già d' invidia, ma d' amor si dole.
LIMERNO.
I
nvido ciel che tante stelle e tante
In grembo hai sempre e di lor vista godi,
A che per cento vie, per cento modi,
La mia levar contendi a me davante?
N' hai mille e mille di splendor prestante,
E pien d' invidia pur t' affanni e rodi
Per cui, sol per colei, che acciò mie lodi
Sian le più belle, starmi degna innante.
Bastar ti deve il tuo, lascia '1 sol mio,
Ch' en fiamme in spirti e sopra se l' innalzi,
Come 1 tuo nutre i corpi 1' erbe i fonti.
Ma '1 mio perch' è più bello, in tal desio
Rancor ti sferza, che ne trai de' calzi,
E n su le cime tue voi eh' egli monti.
LAMENTO DI BELLEZZA.
T ''
X o tratto a Y ombra d' un gentil bcjiechetto
V idi, giacendo su la piaggia erbosa, \
\
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Il caos — Selva seconda 115
S tarsi donna solinga e penserosa,
T urbata in vista col mento sul petto.
I n tal vaghezza stava, eh' ivi intonio
N è f u pianta, né augel, che non movesse
A lei mirai-, e seco ne piangesse.
In queste bande su dal primo cielo
V ols' egli in scherno mio, eh' un alma stella
S cendesce umile, e assai di me più bella.
T ant' ella è più gentil quant' ha più '1 velo
I n cerco de' ligustri e rose adorno.
N* acque non per mostrar qUant' è bellezza,
A nzi, benché sia bella, lei disprezza.
I o son, perche ti miro star sospeso,
V ana beltà, eh' orno di gigli e rose
S ol delle donne i volti, ma ritrose
T utte le faccio e di cuore scortese
I n lor amanti, cui di giorno in giorno
N udrendo van di speme, e mai non giunge
A lor il patto, ma si fa più lunge.
(1) Ambedue le edizioni hanno alteragia, che io ho creduto di mu-
tare in alterigia.
I
I mi le appresso e per veder m' abbasso. i
V idila troppo, ahimè ! che alzando il viso *
S i mi scoperse in lei tal paradiso,
T al dico che mi fece d' uom un sasso.
I n me si volse e disse : fa ritorno,
N e star qui meco ove star sóla deggio
A pianger quel che tarda in me con-eggio.
I 1 dolo amar che più sempre si acerba
V ien d' alterigia (1) molta e troppo orgoglio,
S on bella come vedi, e mi raccoglie
T utta sovente in donna, ma soperba
I nalzo lei così, che 'n questo scorno
N e son rimasta, onde 1' alta boutade
A ma siippor T orgoglio ad umiltade.
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r*-
:T
Ji 116 II caos — Sklva seconda
p
i
; In questo V alto padre più addirato
f V er me, eh' abbello i visi e i cuor ìnaspro,
; S culpendo lor di porfido e diaspro
I T olse '1 bel spirto e Y ebbe incatenato
f.,^ I n quelle belle membra ove soggiorno.
%' N on fu soperbia mai, non schivo sdegno,
t' A nzi è d' alte virtudi un vaso pregno.
S< * Il nome suo dal ciel in terra stette,
f^ V olendolo saper fa che misure
i. S cendendo d' alto le maggior figure :
[i T re volte e quattro il trovarai di sette
^^. In sette versi. Allor indi mi torno,
Hi N e posso più di lei dolermi fina
^ A tanto che sei nosco, alma divina.
CENTRO DI QUESTO CAOS DETTO LABEBINTO.
CLIO.
0.
'ual gode in carne, perchè in carne viva,
E 'n terra stando, Y animo da terra i
Non leva al ciel, onde si parte, unquanco, ì
Colui d' umana spezie, in cui si serra \
L' alta ragione, ad or ad or sì priva,
SI come di candela il lume stanco
Vedesi giunto al verde venir manco.
Di che già spento non che morto il sole
De la giustizia, resta cieco e palpa
La circonfusa nebbia, e come talpa
Sotterra errando uscir ne sa ne volé.
Tanto che '1 miser sole
Un nuvol d' ignoranzia farsi tale.
Che mai dal ciel non sa trovar le scale.
Se mi deggia pensar o in terra dentro,
0 sotto M ciel fra terra e Y aere puro.
Esser in pene stabil altro inferno
D' un core ne peccati antico e duro.
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Il caos — Selva seconda 117
Non 80, sassel pur Dio ; mi par un centro,
L' abito nel mal far, di foco eterno.
Quando che ne d' estade ne di verno
Forza veruna o sia losinga d' uomo,
Questo sperar dal cielo sol si debbe.
Quel infelice misero potrebbe
Indi ritrarlo più di bestia indomo.
Però tal vizio nomo
L' orribil ombre del Caos deforme,
Cui sempre a morte in grembo un' alma dorme.
TRIPERUNO.
O tavami basso nel cespuglio e queto,
V ago d' udire più che mai Limerno,
E già m' era disposto per adrieto
V olgermi di Merlin for del governo.
E alfin sbuccato da la macchia, lieto .
R lochiamo lui. Deh ! svellemi d' inferno,
A lui dico, che gik callando il sole
T olsesi dal cantar dolci parole.
0 vago, a lui diceva, giovenetto,
B en mi terrei de gli altri più beato,
S' io fusse tale, che tu avessi grato
T enermi, ecco son presto, a te soggetto.
R estossi allora quello e col bel viso
I 1 novo Ciparisso, over Narciso,
C hi chiama ? disse, e vistomi soletto, t
T ennesi a lunge il naso fra le dita,
O tu mi sai, dicea, di lorda vita.
C acciati presto in quel fragrante rivo,
L avandoti lo puzzo sin eh' io torni.
A Uor si parte ritrosetto e schivo,
V edendo una carogna in luoghi adorni.
S pogliomi nudo in quel fonte lascÌA'o
T emprato d' acque nanfe, che da forni
R igando viene giù d' un monticello,
O ve Ciprigna gode Adonio bello.
C elavasi, ne Y alpe giunto, il sole,
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118
Il caos — Selva seconda
E eco, fra molte ninfe vaghe e snelle,
L imerno torna solacciando, e quelle
L ui van ferendo a botte de viole.
I o, eh' era nudo, ambe le mani addano
S II quelle parti ossene, che ciascuno
Q uantunque sia picino coprir sole.
V edrai, parla Limerno, quant' è meglio
E sser di miei, che di quel sporco veglio.
R ecativi 'ì in braccio, o belle ninfe,
E d a la Dea portandolo direte :
M adonna, dentro le muschiate linfe
0 fferto s' è costui nel nostro rete,
T egnamolo qui nasco se vi pare.
1 donio testimon, quando che v' abbia
S empre a lodar ne V amorosa rabbia.
0, dissi allor, o di vaghezza fiore,
C hi mi porge la stola ond' io mi copra ?
< / uor mio, rispose, quivi non s' addopi'a
V estir alcuno dove regna amore,
L o qual ignudo va co suoi seguaci ; .
T aci Ik dunque, pazzarello, taci.
A llor fui riconduttoa grand' onore,
T ra gioveni leggiadri e damigelle
A vanti una pih bella delle belle.
V enere fu costei, la qual nel seggio
R egina di Matotta il settro tiene.
B enedetto sia '1 cuore di chi viene,
I ncomenciossi allor cantar intorno,
S otto Amatonta al dolce lei soggiorno.
L auti, cetre, lire, e organetti
I van toccando parte, parte al sono.
T emean le voci giunte, ahi ! quanto vaghe.
I n quel medesmo tempo, a vinti a trenta,
B asciandosi V un V altro insieme sti-etti
V anno danzando intorno, e questi sono
S inceri giovenetti, e donne maghe.
K rano mille fiamme intorno accese
S otto gli aurati travi de la sala,
S tanno da parte alquanti, e fan un ala
E qua e là mirando le contese.
L
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Il caos — Selva seconda 119
P endono da pareti alte cortine
R icchissime di seta, argento, e oro,
O ro, sopr' oro, dico, spesso e rizzo
C on mille gioppi, zifFare e bescliizzo,
V asi di pietre di gran pregio e fine,
L ungo a le mense fanno un bel tesoro.
A eque rosate, nanfe e altri odori
T endon spruzzare i pargoletti amori.
N ascosi molti a le cortine drieto
V anno non so che far, e escon dopo *
N el volto fatti in guisa di piropo
C he furon d' alabastro per adrieto.
amore di tbiperuno e gal anta.
I
o dunque nudo fra cotanti nudi
N on più arrossisco, non più mi vergogno,
F atto di lor famiglia, ove m' agogno
L assivamente in quei salaci studi.
A lato la regina sta Limerilo,
T enendole la bocca ne V orecchia,
0 nd' io ne fui chiamato possia al trono.
I n terra umilmente i m' abbandono,
N anti eh' al primo grado vi montassi,
C he d' altro che de' marmi, petre e sassi
E rano, ma sol oro e gemme sono,
D ritto poi snllevato già m' avento
1 n fretta nauti a Y aha imperatrice,
T remando per viltà, qual foglia al vento.
I ncomenciò V altiera : o Triperuno,
V asallo mio, de gli altri non men cai-o,
S appia che 'l tuo Limerno saggio e raro,
T* ha impetrato da me quel che nessuno
I n questa corte mai gioir non puote.
N ove anni e sei non passa una fanciulla
A te la dono e facciovi la dote.
C ostei, pronta vivace accorta e bella,
V oglio eh' ami, desideri prima e ardi,
C he piagna e canti, assorto ne soi guardi,
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120 II caos — Selva seconda
V ersi pregni d' amor e sue quadrella.
L imerno tìa tuo maestro e fida scorta,
L imerno sa quel si ricerca amando.
Oh dolce sorte a chi entra cotal porta!
A firettati Lagnilla, e qui Galanta
T ien modo di condur fm-tivamentc,
Q uando eh' ella non escie mai di ciambra.
V enne la ninfa chiesta finalmente,
E tutto di rossore il viso ammanta.
G alanta mia, dicea l' imperatrice,
A Iza la fronte e mira il novo amante.
L evo la vista dunque, ove si elice
E eco una fiamma, ed ove un cieco infante
R accolto r arco e la saetta altrice
A hi I di quanti martìri lo diamante
T rito mi ruppe al petto e quindi svelse
I 1 cor già fatto de' sospiri al vento
S tridente face e d' acque un fiume lento.
0 quante, da queir ora, incomenciai'o
P ene, tormenti, affanni, sdegni, e ire
T ravagli, doglie, angoscie, e zelosie !
A rsi, alsi di ghiaccio e fiamme dh'e,
T al che '1 mio dolce alfln divenne amaro.
1 mperò eh' una Laura sozza, e lorda
N efanda, incanfcitrice, invidiosa
E ra del nostro amor la lima sorda.
S orda lima costei fu senza posa
S enza quiete mai del dolce nodo,
E bra sol di spuntar col chiodo il chiodo.
T ancella fece, ch'io nel fin m'accorsi
0 mbrosa esser cotesta ria cavalla.
G alanta ne ridea, donde più acerba
1 niqua più ne venne ai duri morsi,
S ì eh' io le scrissi questo in una querza.
TKIPERUNO.
) legnati in polve fulminando, Giove
0 tu, che sozza tanto lorda e vieta
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Il caos — Selva seconda 121
Lo nome hai di colei, che '1 gran pianeta,
Mosse da prima ad alte imprese e nove.
Fogo dal ciel giamai non casca, dove
Natura strinse Y onorata meta
Del sempre verde lauro, che non vieta
Ulla stagion far le sue antiche prove.
Ma Dio in tal legge in te servar non deve ;
C hai sol il nome e non di Laura i gesti,
Sei di carbone, e credi esser di neve.
Pur meglio, acciò '1 bel lauro non s^ incesti.
Quel U, che '1 terzo seggio vi riceve,
Tolgasi 1 quarto acciò che LiWa resti.
DIALOGO SECONDO.
LIMERNO, TRIPERUNO E FULICA.
LIMERNO.
I
canto sotto V ombra del bel lauro
Che pose il gran Petrarca in tanta altura.
Lo qual, mercè d' amore, mentre dura
Il ciel terrk la chiave del tesauro.
Nel mese quando '1 sole si alza in tauro,
Ed empie il monte e piano di verdura,
Nacque una bella e saggia creatura,
Che riconduce a noi 1' età del auro.
Cantar vorrei sue lodi, o fresche linfe,
'Linfe fresche di Gira or dati bere
A chi dicer d' un Febo novo brama.
Girolamo (1) sol dico, in cui non spere
Pi fi di me affaticar altrui le ninfe,
Che pi fi di me, so bene, altrui non 1' ama.
(1) È itìeà^o in maschile il nome, nientre dovrebbe esseve femminile,
perchè è il medesimo dei capiversi della seguente canzone.
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^" HJ^
122 II caos — Selva seconda
LIMERNO.
H
or che per prova, amor, t'intesi a pieno (1),
I n fiamme ove già ne alsi e 'n ghiaccio n' arsi,
E eco mi tieni d' altro dol a freno.
R egnar di se niedemo, e suo già farsi
0 chi porrà giamai sotto '1 tuo giovo ?
N iun, o se pur gli è, non sa trovarsi.
1 o quella via^ quest'altra cerco e provo,
M a che mi vai ? tu mi travolvi e giri
A l'aspro tuo voler, ne schermo. i trovo.
D i luntanarmi volsi e placar Tiri
I ri tant' empie di te, fier tiranno,
E nulla feci, che più in me t' addiri.
D i magior pene, onde maggior è '1 danno,
A mor mi sproni, e fai il tuo costume..
H aggia chi più s' allunga più d' affanno.
I o piansi già molt' anni sotto '1 nume
E rrando d' una ninfa, onde per pace
R ecarmi, mi privai del suo bel lume.
0 qual mi crebbe ardente e cruda face
N el petto allor, che gli occhi, anzi due stelle,
1 o non più vidi, e '1 raggio lor mi sface.
M i sface il raggio lor, e pur senz' elle
I non vivrei giamai, perchè non pirise
M ai Zeusi un si bel volto o tagliò (2) Apelle.
E eco donna il martir, eh' al cor s' avinse "^
R itrassimi da voi, ma non lo volle
C olili, che 'n me sovente ragion vinse.
(1) Per fare Hieronima e Hiei^onimi in latino, lascio la H in Hor
ed in Uaggia^ come trovasi in ambedue le edizioni.
(2) Ambedue le edizioni hanno taglio che io, e per dare im senio
al verso, e perchè ritengo che così abbia scritto il Folengo ho mutato in
tagliò^ sebbene, in questo caso, non abbia senso storico.
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Il caos — Selva seconda 123
A dunque per gir lunge non si lolle
T anta mia passion, eh' ebbi già inante,
E questo avien, che '1 mal è in le medolle.
L untan il corpo mi portar le piante,
L untan il cor non già, perchè vel diede
I n su l'aui'ata punta il vosti-o amante. ,
D iede 1 a voi, eh' avesse ad esser sede
I ramobile perpetua di esso, e voi
V i '1 toglieste per cambio data fede
A l'un e l'altro sempre esser fra doi.
TRIPERUNO E LIMERNO.
Trip. 1^ el vero, caro mio maestro, non sono giammai
tanto fastidito ed anoiato, che udendo, voi e X aurea
vostra lira insieme cantare, non subitamente mi rac-
consoli.
LiM. Ed io credevami tanto da la turba e volgo entro
questa selva luntanato essere, che niuno, se non le
(j[uerze e olmi avessero ad ascoltare.
Trip. Dogliomi essere uomo di turba e vulgare, ma la
dolcezza di vostre- muse, ovunque mi volgo sen-
tendo, non men di ferro a la tenace calamita son
io da quella tirato : nulla di manco se da me voi
sete del vostro singular concetto impedito, paren-
dovi, ora mi parto e solo vi lascio.
LiM. Solo non è chi ama, anzi de' pensieri ne la molti-
tudine sommerso : io sopra ogni altro veggioti vo-
lontieri, Triperuno mio. Vero è che lo essermi da h\
consueta nostra compagnia distratto potevati accer-
tare che da me dovevasi far cosa, la quale fusse
da essere secreta. Io, come tu sentisti, cantai testé
una canzone, li cui capoversi non vorrei già eh' uomo
del mondo avesse notato, che '1 gentilissimo spirito,
di cui sono già molto tempo fa umile servitore, non
men ha cura de 1' onorevole suo stato, che del co-
mun obietto di questo nostro amore. Dimmi dunque,
hai tu lo nome suo compreso ?
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124 II caos — Selva seconda
[
Trip. Non ; per il dolce groppo di mia Galanta.
LiM. Non senza molta cagione ricondotto mi sono a
r ombra di questo lauro, lo quale tanta agiatamente
diffeso da queste duo collaterali querze, così da
venti e procelle, come da raggi de Y ardentissimo
sole, al sopranominato giovene con le sue sempre
chiome verde fa di se gratissimo soggiorno. Ma
dimmi, sei sai, questi doi versi latini, li quali nel
tenero scorzo di esso lauro tu vedi quivi intagliati
essere, chi fu lo sottil interpretatore di essi ?
Trip. Isidoro.
LiM. Isidoro Chiarino ?
Tkip. Esso fu.
LiM. Oh divino spirito d' un fanciullo ! che veramente nel
sino di Talia succiò le dotte nomme, ne maggior fama
e onore si areca lo autore, che 1 commentatore loro.
Trip. Sono as&ai male insculpiti.
LiM. Scriveli, prego, un' aitila volta piti ad alto, e perchè
lo argomento loro in quello sai ? Intagliali col
ferro acuto.
Trip. Intendo.
DE SOMNO.
Hi
Jc laceo. Et Repens, Oculis Natat Intima Mors, At
Divorum Imperio Est Dulcior Ambrosia.
LIMERNO.
T,
u quelli hai già scritto ? Oh quanto bene stanno.
Fammi appresso una piacere, perchè lo ingegno del gio-
vanetto piti ogn' ora posciasi addestrare, scrivi ancora
un altro enigna non men di questo laborioso, lo quale
dopoi la morte di GiugUo pontifice, sotto Leone, fu nel
candidissimo tumulo di Catarina dal suo consorte cru-
delmente uccisa sculpito, dove ella così parlando dice;
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1
Il caos — Selva seconda 125
TUMULUS CATHARIN-ffi.
G
^ONfodit SORS ME VSum ROboris ERige
TUScha
Sphera, necis causa est non nisi nulla mese,
TRIPERUNO.
VJotesta Catarina, se bene mi soviene, fu gentilis-
sima e amorosa donna, a la quale fti già mandato quel
sonetto con un paio de guanti insieme, li capoversi del
quale dicono lo nome suo :
D'
una tenera, bianca, leggiadretta,
I ntegra onesta man elesse '1 cielo
V oi puri guanti, ad esser dolce velo :
A ndati a lei, eh' omai lieta v' aspetta.
C ortesamente la terrete stretta,
A nzi pur calda centra V empio gelo,
T utto però, eh' io per soverchio zelo
H abbia di voi non a prender vendetta,
A mo r alta virtù che 'n se diversa
R egna più eh' in Aracne, od ella istessa
I nventrice del ago e bel trapunto.
N è man più dotta, né più dolce e tersa
A vinse guanto mai, ne chi promessa
Onestamente più sei^vasse appunto.
LIMERNO E TRIPERUNO.
Di
LiM. JL/irotti la veritade o Triperuno, questi capoversi
non usati mai da valentuomo veruno, poco a me
sono aggradevoli, e a gli altri sodisfacevoli, impero
che altro non vi si trova se non durezza di senso,
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126 II caos — Selva seconda
ed un impazzire di cervello. Ma ragionamo d'un' altra
cosa di assai più importanza di questa. Confessati
meco, e non vi aver un minimo risguardo. Chi fa
lo compositore di que versi, li quali oggi furono da
tutta la corte in una querza letti e biasmati ?
Tkip. Perchè, caro maestro ? sapeno forse con gli altri
miei ?
LiM. Di che ?
Tri. Di mastro di scola?
LiM. Perchè così di mastro di scola?
Trip. Li quali, per la varietà de stili da loro addoperati
pedantescamente, come voglio dire, scrivono e fanno
un Caos non men intricato del mio.
LiM. Io bene di cotesto tuo ravviluppato Caos mi sono
meravigliato, lo quale potrebbe a gli uomini dotti
forse piacerci, ma non lo credo, e spezialmente per
cagione di quelle postille latine suso per le margini
del libro sparse.
Trip. Io per confunderlo più, come la materia istessa
richied<3, volsivi ancora la prosa latina in aiuto de
lo argumento porre.
LiM. Lasciamo in disparte lo stile tuo, o sia pedantesco
o triviale, ma peggio è, che sono quelli versi mor-
daci de la fama di tale, che leggermente potrebbch
oifendere. Tu non conosci ancora, buono uomo, la
rabbia d' una addirata, e orgogliosa donna, la quale
tengasi de qualcuno oltraggiata e sprezzata.
Trip. Qual bene o male puosso io sperare o temere da
questa Larva, o volsi dire Laura?
LiM. Voglia pur Iddio, che tu non ne faccia vemna
isperienza.
Trip. In qual modo un sacco di carcami, una cloaca di
fango^ una stomacosa meretrice del dio sterquilinio
è per vendicarse di me ?
LiM. Con mille modi non che uno.
Trip. Come ?
LiM. E peritissima vendicatrice.
Trip. Qual si terribile ruffiano d'una trita bagascia pren
deria giamai la diffesa?
LiM* Non vi mancano gli affamati al mondo. Ma sei
f
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Il caos — Selva seconda 127
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male, Triperuno, su la via di conoscere, in cui po-
sciati ella dannegiare.
Trip. Avelenarmi?
LiM. Nò.
Trip. Farmi con ferro uccidere ?
LiM. Né questo ancora.
Trip. Tormi la fama?
LiM. Non ha credito.
Trjp. In qual foggia dunque?
LiM. Trasformarti in un asiho.
Trip. Che dite voi? >
LiM. Un asino si ; tu ti meravigli dunque ?
Trip. Ho ben' io più volte inteso queste donne aver po3- ^
sanza, con non so che unguenti, voltai- gli uomini ;
in becchi. ' *
LiM. Anzi, assai più becchi, fanno che castroni. Quanti (
oggidì conosco io, li quali già per violenzia de suf- j
fumigi da queste maghe addoperati, furono in bovi, . J
buffali e elefanti conversi ? ;
Trip. Questo saria ben lo diavolo. Se questa Laura mi \
trasfigurasse in un becco. Vorebbemi più oltra bene [
aalanta ? i
LiM. Più che mai.
Trip. Come ? io sarei pur un becco ?
LiM. Ed ella una capra.
Trip. Cambiarebbe ancora lei?
Ltm. Che credi tu?
Trip. Io già comincio temere.
LiM. Tien stretto.
Trip. Forse che non sa ella ancora, chi sia lo autore?
LiM. Tu sei pazzo persuadendoti una malefica non sa-
pere quello, che a tutta la corte già divolgato
leggesi.
Trip. Lasso ! eh' io me ne doglio.
LiM. Tu vi dovevi più per tempo considerare, e pren-
derne da me consiglio.
Trip. Nò, l'ho fatto in mia malora.
LiM. Se tu sapessi la importanza di questo scrivere, e
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128 11 caos — Selva seconda
Io mandar cosi facilmente a lace le cose sue, vi
averessi meglio pensato, che pagarci un tesoro di
Tiberio, non mai ne gli occhi de tanti valentuomini
una mia operetta scoperta si fdsse.
Trip. Come farò io diinqae, misero me ? eh' io debbia
un asino diventare ?
LiM. Or va più animosamente, tu già sei volto in fuga,
e ninno ti caccia. Non ti partirai da me se non
bene consigliato e consolato ; ma pregoti, Triperuno
mio, non t' incresca sotto V ombra di quel platano
corcati, finché io faccia la prova di alquanti versi
con la cetra, da essere in questa sera da me recitati
avanti la regina, e veramente assai averò che fare,
se li quattro sonetti da lei richiesti agradirla po-
tranno.
Trip. Questo tal compon-e a Y altnii petizione difficil-
mente può sodisfare a coloro, li quali non vi hanno
parte alcuna. Ma ditemi, prego, avanti che da voi
mi parta, lo sogetta de quattro sonetti.
LiM. Dirotilo ispeditamente. Già la signora non è ca-
gione propria di questi, ma eri Giuberto e Focilla,
Falcone e Mirtella mi condussero in una camera
secretamente, ove trovati eh' ebbeno le carte kisorie
de trionfi, quelli a sorte fi-a loro si divisero, e volto
a me ciascuno di loro la sorte propria de li toccati
trionfi mi espose, pregandomi, che sopra quelli un
sonetto gli componessi.
Trip. Assai più duro soggetto potrebbevi sotto la sorte,
che sotto lo beneplacito del poeta accascare,
LlK. E questa tua ragione qualche bona iscusazione ap-
presso gli uomini intelligenti recarammi, se non
cosi facili, come la natura del verso ricchi ede, sa-
ranno. Ora vegnamo dunque . primeramente a la
ventura overo sorte di Giuberto, dopoi la quale, né
più né meno, voglioti lo sonetto di quella recitare,
ove potrai diligentemente considerare tutti li detti
trionfi a ciascaduno sonetto singulannente sortiti,
essere quattro fiate nominati, si come con lo aiuto
de le maggiori figure si comprende:
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Il caos — Selva skconda 12&
Giustizia, Angiolo, Diavolo, Foco, Amore.
V^uando 1 Foco d' Amor, che m' ai-de ogn' ora.
Penso e ripenso fra me stesso, i dico :
Angiol di Dio non è, ma lo nemico.
Che la Giustizia spinse del ciel fora.
Ed è pur chi qual Angiolo Y adora.
Chiamando le sue fiamme dolce intrico.
Ma nego ciò ; che di Giustizia amico
Non mai fu, eh' in Demonio s' innamora.
Amor di donna è ardor d' un spirto nero.
Lo cui viso se 'n gli occhi un angiol pare.
Non t' ingannar, eh' è fraude e non Giustizia.
Giustizia esser non puote, ove malizia.
Ripose de sue faci il crudo arciero.
Per cui Satan Angiol di luce appare.
TKIPERUNO E LIMERNO.
Trip. IVJLolto arguto panni questo primo, ne anco di
soverchio difficile; ma che egli aggradire debbia la
regina con l'altre donne, non credo.
LiM. Dimmi la causa.
Trip. Lo sobietto non lauda il femiiiile sesso.
LiM. E Giuberto non lo volse d' altra sentenzia di quella,
eh' hai udito. Or vengone al secondo, nel quale la
sorte di Focilla, contienesi :
Mondo, Stella, Rota, Fortezza,
Tempkranzia, Bagatella.
Q
uesta fortuna al mondo e 'n Bagatella,
Ch' or quinci altrui solleva, or quindi abbassa.
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130 II. CAOS — Sklva skconda
Non è Temperanzia in lei, però fracassa
La forza di chi nacque in prava Stella.
Sol' una temperata forte e bella
Donna, che di splendor le Stelle passa,
La instabil Rota tien umile e bassa ;
E 'n Gioco lei di galle al mondo appella.
Costei temperatamente sua Fortezza
Usato ha sempre tal, che '1 mondo e 'nsieme
La sorte delle stelle a scherzo mena.
Ben può fortuna con sua leggerezza
Ir nelle stelle di più Forze estreme,
Chi sa temprarsi, lei col mondo affrena.
TRIPERUNO E LIMERNO.
Trip. V^uesto altro sonetto appresso di me piti del primo
lodevole mi pare, cosa che gik per lo contrario giu-
dicai da prima dover essere, attendendovi quella
sorte del Bagatella non potere se non li soi con-
sorti disconciare ; ma, si come a me pare, degli
altri assai meglio vi quadra.
LiM. Ogni cosa che ad essere patisce durezza, lo più de
le volte eccellente diviene, la onde P^ocilla, donna,
come si vede, prudentissima, contristandosi prima di
cotal leggerezza a lei per ventura sortita, or che
reuscita la vede in magior suo onore, giubila e sal-
tella. Ma vengo al oscurissimo soggetto, de li disor-
dinati trionfi di Falcone, al quale sopra tutti gli
altri gentile, doveva la meglior fortuna accadere.
Luna, Appicato, Papa, Imperatore, Papessa.
E,
iuropa mia, quando fia mai che Y una
Parte di te, eh' ha il turco traditore
Rifrkncati lo Papa, o hnperatore.
Mentre hai le chiavi in man, per lor fortuna?
Ahimè I la traditrice ed importuna
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Il caos — Selva seconda 131
Ripose in man onore
Di e tien furore
Sol contra il giglio e non contra la Luna.
Che se '1 non fusse una
Che per un pie sospeso tiene,
La Luna in grifo e V aquila vedrei ;
Ma questi miei
Fan sì che mia papessa farsi viene
La Luna, e vo apicarmi da me stessa (1).
TRIPERUNO E LIMERNO.
Tuip. V oi giocate, maestro mio, sovente al mutolo in
questo sonetto (2).
LiM. Fu sempre lodevole.
Trip. Che cosa?
LiM. La verità
Trip. Confessare?
LiM. Anzi tacere.
Trip. La cagione ?
LiM. Per scampar Y odio.
(1) Nella seconda edizione le lacune del sonetto sono riempite, percui
si legge cosi :
Europa mia, quando fia mai che V una
Parte di te, eli' ha il turco traditore
Rifràncati lo Papa, o Imperatore,
Mentr' ha le chiavi in man, per lor fortuna !
Ahimè! la twiditrice ed importuna
Ripese in man di donna il summo onore
Di Piero e tien T imperiai furore
Sol contra il figlio e non contra la Luna.
Che se '1 Papa non fusse una papessa.
Che per un piò Marcin spesso tiene,
La Luna in grifTo a T aquila vedrei.
Ma questi papi, o imperatori miei
Fan sì, che mia papessa farsi viene
La Luna, e vo appicarmi da me stessa.
(2) Allude alle lacune del sonetto.
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L
132 II caos — Silva seconda
Tbip. Di poco momento è questo odio, se non vi sus-
seguisse la persecuzione.
LiM. Però lo freno fu trovato per la bocca.
Trip. Meglio è maitre che confessore.
LiM. Cotesto è più che vero. Ma veggiamo finalmente lo
sonetto di Mirtella, la cui sorte fu questa.
Sole, Morte, Tempo, Carro, Imperatrice, Matto.
k^imil pazzia non trovo sotto '1 Sole,
Di ch'ha gioir del tempo tempo aspetta,
Morte su '1 Carro Imperatrice affretta
Mandar in polve nostra umana prole.
Al Sole in breve tempo le viole,
Col strame il vilhmel su '1 Carro assetta,
Matto chi teme la mortai saetta,
Ch' anco V imperatrici uccider vole.
Però de' sciocchi avrai su '1 Carro imperio
S' induggi, donna, più mentre sei bella,
Che '1 Sol d' ogni bellezza invecchia e more.
Godi, pazza, che a tempi ? (1) godi '1 fiore.
Fugge del Sol il CaiTO, e il cimitero
La nera Imperatrice empir s' abbella.
TRIPERUNO, LIMERNO E FULICA.
0.
Tkip. v^r questo de gli altri piti sodisfarmi pare, mae-
stro mio.
LiM. Avrei con men durezza composto loro, se la divi-
sione di essi trionfi in mia balia stata fusse, onde
pregoti non t' incresca udirne un altro molto, per
quello che me ne pain, degli già recitati men rozzo,
e triviale, quando che la libertade di esso tutta in
(1) In ambedue lo edizioni si lojr^e: C idi, pazza, che a tempii
mentre credo che si debba invece leggere: Godi, pazza^ che attendi f
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Il caos — Selva seconda 133
me solo stata sin, dove li ventiuno trionfi, aggion-
gehdovi appresso la fama ed il matto, si conten-
gono (1):
A.
Lmor, sotto '1 cui impero molte imprese
Van senza Tenìpo sciolte da Fortuna,
Vide Morte su '1 Carro orrenda e bruna
Volger fra quanfci gente al Mondo prese.
Per qual Giustizia, disse, a te si rese
Ne Papa mai, ne, s' è, papessa alcuna ?
Rispose : chi col Sol fece la Luna
Tolse centra mie Forze lor diffese.
Sciocco, qual sei, quel Foco, disse amore,
Ch' or Angiol or Demonio appare, come
Temprar sannosi altrui sotta mia Stella.
Tu Imperatrice ai corpi sei, ma un cuore
Benché sospendi, non uccidi, e un nome
Sol d' alta Fama tienti un Bagatella.
LiM. Ma che miracolo è questo eh' ora veggio, Tripe-
runo mio ? (2)
Tuip. Dove ?
Ltm. Quel matto solenne di Fulica veggio a noi venire.
Tkip. L dunque passato di Parissa in Matotta?
LiM. Costui veramente, se non fallo, ha gittato in di-
sparte le sportelle col breviario, e vole de' nostri
farse, o vecchio forsennato ; che così inutilmente da
gli soi primi verdi anni s' ha ricondotto fin a la im-
possibilitade di poter pifi gioire di questi nostn
piaceri. Oh come ha lunga barba il santo CFcmita !
Oh come va savio ! noverandosi li passi questo san-
tuzzo del tempo vecchio.
Tbip. Taceti, per Dio che, omai troppo vicino potrebbevi
sentire.
(1) Secondo il conto tlol Folengo sareb))ero ventitre i trìontì usati
a soggetto dei sonetti, ma invoco sono vcntidiie.
(2) Credo per errore tipo^rHlioo, in ambedue le edizioni questa di-
manda non ha il nome deirintoilooiitore, Limerno, che io ho creduto bene
di mettere.
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134 II caos — Selva seconda
I
FuL. Dio vi salvi, amici miei.
LiM. E voi, domine pater.
FuL. Di che cosa ragionate voi ?
LiM. Di amore.
FuL. Sta molto bene.
LiM. Ma dite voi, qiial importante causa vi mena In
questa regione amorosa? qual convenienzia è di
questi nostri muschi e ambracani con quelli vostri
rigidissimi costumi ?
t'uL. Causa non pur importante ma importantissima mi
driccia a te, Limerno mio, acciò che con gli altri
toi simili omai da questo mortai sonno vi svegliati.
Queste tre nostre regioni Carcssa Slatotta e Perissa
veramente sono uno laberinlo di cento migliara di
errori, ne mai se non testé la ignoranzia, la scioc-
chezza, la soperstizia di me e mei compagni ho co-
nosciuto, li quali avevamo la felicitade nostra riposto
nel andar scalci, radersi il capo, portar cilizio, e
altre cose assai, le ([uali quantunque siano bone,
fanno però lasciar le meliori, ma non v' incresca
udirmi, che forse oggi la comune nostra salute averii
principio.
LiM. Vi ascolteremo voluntieri, or incomenciate.
LA ASINARIA,
DIALOGO TERZO.
FULICA, LIMERNO E TRIPERUNO.
FuL. Jn poco frutto reuscirebbe lo mio ragionamento
assai lungo, se primamente non mi movessi al sommo
principio de tutte le cose, e pregarlo, eh' egli si
degni aprirvi gli occhi e il core, giìi tanto tempo
fa cieco e da la veritade di lungo intervallo dis-
giunto :
0
mnipotens pater, a^thereo qui limiine circum
Mortale hoc nostrum sepis ubique genus,
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Il caos — Sklva skconda 135
Ut qiieat artificio tenebrarum evadere fraudes,
Utve queat recti trami tis ire viam,
Excipias animam liane, iisu qiise perdita lungo,
lam petit infernas non reditura sedes.
LiM. Ah ! ah ! ah ! ridi meco Triperuno mio, vedi questo
insensato come ha pregato non so che suo dio per
me, come se altro Iddio fusse più di Cupidine da
esser tenuto e pregato.
Trip. Ascoltiamolo, caro maestro, che egli già si leva da
la orazione.
FuL. Ritrovandomi eri, per aventura, non molto luntano
da la spelonca mia, col mio fideHssimo Liberato, da
me molto amato e auto caro, avenne che vedendomi
egli tutto nel viso maninconioso, di me tenero e
pietoso divenuto, si come colui, che di benigno in-
gegno era, e non poco mi amava, umilmente mi
domandò la cagione, perchè sì tristo io fossi e pen-
seroso, e quasi tutto in uno freddo ed insensibile
sasso tramutato ed appresso tanto mi pregò, che
insieme con esso lui in sin ad un boschetto, lo quale
assai vicino era alla grotta mia, ne andai. Cami-
nando dunque noi con lenti e tardi passi verso il
delettevole boschetto, deh ! dissi allora, caro mio
Liberato, gìh fussi io morto in culla, che poi eh' io
mi sono dato agli vani studi de la naturale filosofìa,
a cercare di conoscere le proprietadi de le cose a
voi occulte e impenetrabili, non ebbi mai V animo
mio tranquillo ne quieto, ed ora piti che mai V ho
travagliato, e de vari diversi pensieri tutto ripieno
e distratto. Io non veggio ornai quello, che per me
se debba addoperare o credere, perchè se veraci
sono gli evangelici dottori, e se parimente li sottili
e tenebricosi maestri in teologia e nostri sofisti
dicono il vero, se li pontificali decreti, overo umane
leggi, che volianìo dire, ligano o ligar possiano le
nostre coscienze, ed oltra di questo se alcuni altri
dottori moderni non sono uè capitali nemici de la
vera fede, ne bugiardi, uìa hanno la verità ritrovata,
a cui crederò io ? a cui prestarò fede ? Nel vero,
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136 II caos — Selva seconda
io non comprendo come tutti non possine errare, sì
come coloro, che omini sono, ne mi può entrare
nel capo come a tutti egualmente noi debbiamo o
possiamo credere. O miseri cnstiani ! ov' è fnglta la
ferma fede e piena di credenza de li venerabili pa-
triarchi, de gli santi profeti, de poveri apostoli, e
de tutti e nostri maggiori ? Ohimè ! donde sono
tante e si diverse openioni ? Donde sì contrarie
sette e sì ripugnanti ? onde tante vane questioni ?
onde tante liti, e empie contenzioni ? Se ima è la
fede, e uno battesmo, poscia che è uno sol Dio, e
un signore e fattore di tutte le cose così invisibili
e incorporee e eterne, come ancora de le visibili e
corporee, e mortali, perchè dunque siete voi tra voi
tutti divisi ? — Non così tosto quelle poche parole
ebbe detto, una asinina voce subitamente rompendo
lo aere, con soi pietosi accenti percosse le nostre
orecchie.
LiM. Ditemi la verità, Fulica.
FuL. Io son presto.
LiM. Donde veniti ?
FuL. Da Perissa ; per qual cagione questo mi domandi?
LiM. Le parole vostre mi sapiono di Carossa : balda-
mente che Merlino vi ha retenuto ne laCatinasua:
non gli è mancato una di*amma, che questo asino
da la bocca vostra non abbia parlato.
FuL. Anzi così chiaramente con queste mie orecchie io
r ho sentito ragionare, come ora facemo noi.
LiM. Con diavolo ! (1) clr un asino ha parlato.
Trip. Lasciamolo finire, caro maestro !
LiM. Seguita a sua posta.
FuL. "^ Confortiitivi, disse quella voce, o boni uomini, e
non abbiate paura, ma siate di forte animo „. Per la
qual cosa noi tutti sbigottiti datorno volti guarda-
vamo, se alcuno vi fusse, che noi senza esserne
adveduti ascosamente ascoltasse. Ma nessuno veden-
dovi, se no questo asino, che vecchissimo essere
(1) Nella prima e .^ieeonda eilizoiìo si \cggo: Con diavolo, ma io credo
che sia errato, e che vada: Che diavolo!
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Il caos — Selva seconda 137 ^-
il
pareva e molto attempato, il quale quivi nel bo- 9,
schetto pasceva, essendo noi già alfine pervenuti /
del nostro camino, vie pia che innanzi la pietosa e /;
lamentevole voce udendo, temuto non avevamo, in- ■
cominciammo a stordire e forte temere, e varie cose >
fra noi stessi a rivolgere. \
La onde questo asino alzata un poco la testa, i^
quasi sol-ridendo un' altra volta racconfortandosi disse : >
" Cacciati da voi ogni gelata paura. Io sono a voi
da Dio mandato a mostrarvi la cristiana e vera fede, J
e sciolvervi ogni dubbio e ogni vostra questione a l
finire e terminare „. ?
Le quali parole udendo noi, quale e quanto fusse |
lo stordimento, voi da voi stessi puotete pensare :
dico che tutti li capelli se ne arricciarono, e quasi
perdute tutte le sentimenta più morti che vivi in
teiTa cademmo. Ma ritornate poscia in noi le per-
dute forze e il naturai vigore, e rassicuratene al- »
quanto, lo cominciamo a scongiurare e a comandare \
da parte de Dio, che se ciò inganno fusse del dia-
volo, tosto indi si dipartisse. Ma egli che veramente
da Dio era, tutto immobil si stette, e per levarci
ogni sospetto, e ogni dubbiosa mescredenza, che nel :
animo nostro nasciuta fusse, o nascerci potesse, con
voce assai umana e umile rispose così. " Quanto sia,
figliuoli mei, da fuggire e biasmare V essere sciocco
e imprudente, e troppo agevolmente e di leggiero
dare orecchie, e aver fede a visioni e parohi, quan-
tunque e buone e veracissime quelle ne paiano, io ;
non potrei giamai con parole spiegare, ne con la
penna scrivere. Ma colui, il quale vorrà più sottil-
mente co l'acume de lo intelletto considerare la ca-
gione de tutte r umane miserie, nò potrà certamente
ritrovar alcuna altra, che la sciocchezza, e la subita
e empia credenza bevuta dalli nostri primi parenti
al velenato e mendacissimo serpente, onde Cristo,
che troppo bene conosceva il malvagio ingegno di
questo fallace nemico, state, disse a gli ai)ostoli, a
suoi cari discepoli, saggi ed adveduti a guisa delli
serpenti e de gli aspidi sordi, i quali come è sqritto
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138 II caos — Selva seconda
nel salmo, si ritiirano gli orecchi, acciò che non sen-
tano la voce ne li versi dell' incantatore. Perchè io
reputo gran senno a sapersi guardare, e defendere,
da li aguatti e da gì' inganni de l' infernale Lucifero
primo inventore e padre della bugia, E voi bene
in ciò e saggiamente avete addoperato, che ancora
che per avventura alcuna volta il credere sciocca-
mente non reclii il creditore, ne lo nietta in gi*ande
miseria, anzi il tragga da grave noia e da grandis-
simi pericoli, e ripongalo in sicurissimo e ' felice
stato, non è perciò da commendare molto, dove la
instabile fortuna, e no Y umano ingegno s' interpone.
Ne per il contrario è da biasimare e riprendere
colui, lo quale essendogli la fortuna nemica, e niente
favorevole, si ritrova al fine in povero e assai vile
stato, e in grandissima miseria, dove bene addope-
rare egli si sia ingegnato, ponendo ogni solicitudine
ed ogni arte, ed ogni forza per potere a buono e
laudevole fine condurre i fatti suoi. Ma lasciamo
ora stare cosi fatti ragionamenti, e si per non esser
troppo lunghi, ed in quella cosa massimamente, ne
la quale non è di bisogno, e si ancora per potere
più pienamente ragionare de la cristiana fede, la
quale assai larga ed empia matej-ia di sé ne dai*à
da parlare „.
LiM. Non mi meraviglio punto se nel parlare molto sete
lungo e fastidioso, e più di noi, che stiamovi quivi
ad ascoltare.
FuL. Perchè son' io cosi lungo e fastidioso ?
LiM. La pienezza di quel vostro biancuzzo volto dicenil
voi essere di flemma tutto ripieno.
Trip. Un flemmatico è dunque molto verboso ?
LiM. Si, secondo li fisici nostri. Ne solamente la flemma
causa moltiloquio, e niigacitade, ma tutte Y altre
operazioni del corpo rende più tarde e pegre, al
contrario d' uno che colerico sìa, lo quale il più de
le volte le cose comincia due fiate, non riescendogli
bene la prima per Y ingordigia solamente del so-
perchio desiderio.
Tbip. Tu voi forse inferire, che egli flenimatico ti neca.
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Il caos — Selva seconda 139
LiM. Che voi dir neca ?
Trip. Amacela, uccide, aneide.
LiM. Anzi gli sta cotesto vocabolo molto bene, che fer-
mamente non trovo morte a quella d' una lingua,
quale è (quella d' im Alberto da Carpo di testa rasa.
Tkip. Io molto bene lo riconosco, lo quale già d' anni
carco ed attempato. Ha fatto la più bella pazzia che
fusse mai, che dirotti poi, ma fra V altre sue vertù
è mordacissimo, loquacissimo, e vanissimo, ed ap-
presso lui un Sebastiano non men di lui chiachia-
rone e puzzolente di bocca, lo quale mentendo fassi
fiorentino (1).
LiM. Megliore vendetta non si può fare, che scrivere,
se non ti lasciano stare, li soi costumi.
Trip. Anzi odi questo mio Tetrastico de la nugacitade
di quello da non nominare Alberto, fondato sopra
questo verbo latino.
NECAT.
N
on necat uUa magls nos N ex, non unda necat, no N
E t necat igne modo, necat E t modo luppiter imbr E.
C um necor a lingua, mos C ui nescire loqui, ne C
A t, tamen obthurat tot hy A ntia dentibus or A
T e necat ore, necat ges T u, nece totus abonda T (2)
LIMERNO, FULICA E TRIPERUNO.
LiM. IVJLolto e bello e artificioso, ma, per quello che
me ne paia, oscuro e faticoso.
(1) I personaggi che sono Toggetto di questa sfuriata sono i detrat-
tori del Folengo, per i quali vedi la nota 5 all'Orlandino, e quanto dice
Linierno. Ad un altro Alberto da Carpo, in line del Caos.
Di codesti detrattori parlo nella prefazione.
(2) Questi versi non sono troncati dal NECAT di mezzo, perciò vanno
letti per disteso, essendo esametri; tronca però, con bizzarra licenza il
necat alla ftn^ del terzo verso terminandolo con NEC e principiando il
quarto con AT.
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140 II caos — Selva seconda
FuL. Deh ! per lo amore de la passione di Cristo non
siate cosi ritrosi a la salute vostra, lasciatimi finire,
non mi sconciate dal bono e santo proposito, ch'io
sono certo delettarannovi li miei ragionamenti.
LiM. Posciovi molto bene ascoltai-e, ma non voluntieri,
se non mi parlate di qualche bella donna.
Trip. Or oltra che vi porgemo le orecchie.
LiM. Assai men lunghe di quelle del suo asino.
FULICA.
k^tupefatto dunque Liberato, eh' un asino cosi qual
uomo saputamente parlasse, gridando disse. Oh che
cosa è questa eh' io veggio e sento ? Dove son io ?
Or dormo io ancora, o son desto ? Io per quello
che me ne paia, non so se vedo quello che vedo,
ne se altresì se odo quello che odo. Sarei io mai
un altro divenuto ? Dimmi dunque, messer V asino,
come può egli essere che essendo tu una bestia, la
quale di grossezza ogn' altra, quantunque grossis-
sima ella si sia, avanzi, ora parli, e ragioni non
altrimenti, che se uno saggio uomo fussi e molto
adveduto ? Questo è contra alla tua natura. Ne di
ciò è meno da meravigliare, che se il luogo freddo
divenisse, e pih non rescaldasse. E qual mai fia
colui si stolto e d' intelletto si scemo e senza senno,
che raccontandogli noi quello, che ora co gli occhi
della fronte ne pare di vedere, non ci reputi ub-
briachi, over dormiglioni ? Perchè voluntieri io sa-
perci, se vano sogno è quello, che io veggio, o no.
Queste ed altre simigllanti parole udendo messer
r asino schiopava tutto della risa, ma aspettando
puoi il fine di quello, poi eh' egli si ta.cque, così
incominciò :
" Estimava io assai sofficiente e bastevole testi-
monianza avervi potuto fare i vostri scongiuri allora
quando per essi non mi mossi io punto, ma tanto
immobile mi vedeste stare. Or egli è altrimenti adve-
nuto che io advisato non mi sono, per la qual cosa
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Il caos — Sklva seconda 141
nel rimanente di questo giorno, che fia poco, in-
tendo io di dimosti-ai-vi con vere e aperte ragioni
quello, che voi vedete e udite non essere né vana
spezie, o sogno, né favole, né alcuno inganno. E
ciò di leggero mi potrà venire fatto, dove voi vo-
rete con intento apimo raccogliere tutte le mie pa-
role. Però quando a grado vi sia, vi potrete su la
verde erba poiTC a sedere, per ascoltare più agiata-
mente le mie ragioni, a le quali poscia che il sole
con frettolosi passi incomincia già traboccare da la
sommità del cielo, tempo mi pare convenevole da
dar omai principio.
Dovete adunque sapere, che ogni artefice, il
quale secondo il suo arbitrio e voluntà opera, può
fare, ed altresì non fare imo medesimo effetto come
e quando il meglio li piace. E cotal principio è
diritissimamente, da V empio Averoi, chiamato prin-
cipio di contradizione. E un altro principio natu-
rale, il quale è determinato ad un sol fine, e sola-
mente uno medesimo effetto in ogni luogo e in
ciascuno tempo sempre necessaiìamente produce, il
che manifestamente essere veggiamo nel fuogo, il
quale è, come dicono, foi-malmente caldo, e sempre
genera il calore, e sempre scalda, e non può altri-
. menti adoperare dove egli si ritrove. Né sono da
essere ascoltati quelli filosofi, li quali niegavano af-
fatto cotesto naturale principio, dicendo ogni cosa
essere or buona, or rea, or dolce, or amara, or
calda, or fredda, e brevemente ogni cosa essere tale,
quale a noi ne paia, e quale le varie, e diverse
openiòni de gli uomini essere giudicassino. Nel
vero stoltissimo fora colui, che dicesse le cose gravi
ugualmente, e senza alcuna differenza, ma secondo
la falsa openione, e umano giudicio, or scendere
nel centro, ed or salire alla circonferenza, conciosia-
cosaché qua giù sempre quelle da loro gravezza
sospinte discendano, ma la su mai elevare non si
possino, se no per violenza e per altrui forza e
contra loro natura, ancora che altrimenti estimi la
nostra openione, la quale mutare non può le na-
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142
Il caos — Sklva seconda
ture e proprietati de le cose, sì come colei, che
naturalmente seguitare dee, e la cui verità depende
e nasce da loro verità, come apertamente si può
vedere negli sopradetti esempi. Che perchè noi cre-
diamo la grave pietra discendere, non è perciò la
nostra openione cagione de, la verità de lo scen-
dere de la pietra ; ma si bene il discendere di quella
è cagione, perchè vera sia la nostra openione e
credenza. Ma perchè mi distendo io in più parole?
dico, che ogni nostra openione o conoscenza o
vera o falsa che ella si sia, viene dietro a le cose,
come scrive Aristotile nel libro della interpretazione,
ed ogni cosa procede e va innanzi a la nostra
scienza, sì come oggetto e cagion di quella. Ma il
contrario aviene de V eterna ed immutabil sapienza
del Padre, la quale è principio e cagione de tutte
le cose, de la quale ancora ne parlaremo con lo
aiuto di colui, che ogni cosa col suo intelletto, e
governa, e regge, e dispone con la sua infinita virtiu
e providenza. Ma da ritornare è, perciò che troppo
dilungati siamo, là onde ne dipartinnno.
Dissi, elle duo erano gli piincipii, Y uno libero.
e volontario, l'altro naturale, necessario, e determi-
nato. Iddio dunque, il quale, come cantando dice il
profeta, creò e produsse tutto ciò che egli volle, e
fece i cieli e la terra coir intelletto, non è da dire.
clie egli sia alcuno naturale principio o determinato,
ma del tutto libero, e volontario, anzi essa prima
ed eterna voluntà, e potentissimo arbitrio senza prin-
cipio e sopra ogni principio, come più pienamente
dimostraremo, quando ragionare ne converrà della
creazione di questo mondo sensibile contra a gli
naturali filosofi, e massimamente contra al princi])e
delli peripatetici, e contra al suo ostinato comnie-
tatore, gli quali vogliano questo mondo sempre es-
sere stato senza mai cominciare, e sempre dovere
durare senza mai finire. Non è dunque gran mera-
viglia, nonché impossibile, purché a Dio piaccia.
che un asino parli ragioni così come uomo d'alto
ingegno dotato ragionarebbe. Or non può egli fore,
k^
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Il caos — Selva seconda 143
ciò che egli vole ? E forsi egli cosi infermo e im-
potente, che adempire egli non possa ogni sua vo-
glia, e sodisfare a ogni suo appetito e desiderio ?
Il che se fare non può, ov' è la sua omnipotenza ?
ove è la sua infinita virtù ? ove è la sua perfettis-
sima beatitudine e felicità ? Nel vero io non so,
come egli possa cosi agevolmente a uno sasso, non
pur a uno animale, come Y asino è, dare la vita e
r intelletto, come liberalissimamente a gli uomini
dare gli piace. Ne veggio simigliamente alcuna dif-
ferenza tra '1 nosti-o e vostro corpo, e perchè piut-
tosto il vostro possa ricevere tanta nobile forma,
quanto è V intelletto, che non possa ancora il no-
stro. Ma lasciamo ora alquanto le ragioni. ne' loro
termini stare, e produciamo in mezzo le sacre e
veracissime storie, e manifestamente vedremo nes-
suna cosa essere a Dio faticosa e impossibile.
Leggiamo nel Genesi che la verga, la quale
teneva Mosè in mano, d' uno legno per divina po-
tenza divenne uno serpente e ritornò poi di ser-
pente nella sua primiera fonna. Ecco chiaramente
veggiamo, che puote egli le spezie mutare e le
forme de le nature delle cose, sì come colui nel
cui arbitrio è dare, e torre ogni essere, e ogni vita,
e ogni intelletto. Leggiamo ancora, che molte statue
o idoli di mettallo, o di pietra per diabolica virtfi
parlavano, e rispondevano a coloro, che gli diman-
davano. Che direte voi qui ? niegherete voi non
potere Iddio operare in uno asino quello, che gli
diavoli hanno potuto operare in uno insensibile
marmo o metallo ? Questo certamente non neghe-
rete voi, che niegare non si dee il vero, ne a quello
mai contrastare ma dargli perfetta e piena fede.
Taccio io Lazaro e molti altri da Cristo e da suoi
santi risuscitati, taccio altresì molti ciechi allumi-
nati, taccio gli attratti dirizzati, taccio e' leprosi
mondati, taccio finalmente tutti gV infermi da lunghe
e mortifere infermitadi con la sola parola curati e
a perfetta ed intera sanità renduti, i quali tutti
senza alcun dubbio ne mostrano la divina potenza
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144 II caos — Selva seconda
e virtfi. Ora vengo a pii\ aperto argomento di quella,
e dico che ninno è, il quale non sappia, che l'asino,
o asina che ella si fusse, di Balaam profeta non so-
lamente parlò, ma profeta ancora divenuto profetò,
e predisse quelle cose, le quali da Dio gli erano
state rivelate. Che pih dunque m' affatico di volere
ciò più apertamente dimostrare ? Chiarissimo argo-
mento : è quella cosa essere possibile, la quale alcuna
volta è, overo fu già buono tempo passato. Ne mi
fa qui ora mistieri di produrre V asino d' Apuleio,
anzi di Luciano, stimolo de tutti filosofi, e mordi-
tore d' ogni laudevole opinione, perciò eh' io non
intendo nò voglio ora dimostrare, come possine gli
uomini in uno asino o in qualunque alti'o animale
mutarsi, di che io non ho dubbio alcuno, e volesse
Iddio, che pochi fussono quelli, li quali sovente di
uomini divengono crudelissime fiere, e rivolgendosi
nella bruttura de tutti e' vizii e peccati, sono vie
pii\ peggiori delle bestie, le quali buone sono, perciò
che vivono secondo la loro natura, la quale buona
fu dal sapientissimo e ottimo maestro criata. Ne
altro forsi Pittagora, divinissimo mattematico, volse
intendere per lo trasmigrare d' uno in uno altro ani-
male, il che ancor mi pai'e, che abbia confennato
il principe de tutti e filosofi, Platone dico, il quale
di gran lunga avanza e trappassa d' ingegno ogni
altro filosofo, che mai fusse, o sarà nel mondo, to-
gliendo dal nuovero quelli solamente, li quah allu-
minati furono dalla vera fede, o saranno, per opera
del spirito santo, il quale per tutte le cose averk
scienza. Io credo fennamente avere sodesfatto se-
condo il mio giudizio a le vostre questioni, ora in-
tendo piti domesticamente con voi ragionai-e e ri-
contarvi le più meravigliose cose del mondo.
LIMERNO, FULICA E TRIPERUNO.
LiM. JL atimi prego, o padre Stunica, un piacere.
Trip. Con cui parlate maestro ? ove trovasi questo Stunica .
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Il caos — Selva seconda
146
FuL. Volse egli dirmi Fulica.
LiM. 0 sia Fulica o Stunica, vorei da vostra santitade
una grazia.
FuL. E dna, potendo.
LiM. Non mi vogliate più oltra imbalordii^e lo debol cer-
vello con queste vostre filosofie. A che tanti Fiatoni
Ai'istotili e asini ? voi potreste cosi con le mura
ragionare.
Tkip. Anzi vorei, cHro mio maestro, che vi piacesse, di
ascoltarlo, ma facciamone qualche poco di pausa.
LiM. Ditemi, prego, santo Fulica, foste giamai dì alcuna
bella donna innamorato ?
FuL. Io fui, e sono innamorato per certo.
LiM. 0 sia lodato il Dio d' amore, che più oltra non
veiTÒ necato di parole al vento gittate. Voglio che 'n
questa mia cetra cantiamo tutti noi tre successiva-
mente qualche amoroso canto, come più al suo par-
ti colar soggetto ciascuno de noi aggradirà. Io dunque
sarò, piacendovi, lo primiero, e cantarovi di mia
diva la suma cortesia, la quale dignossi mandarmi
un biancliissimo panno di lino, lo quale dapoi lungo
sudore, nel danzare preso, mi avesse ad scìugare le
membra.
B
ruggia la terra il lino col suo seme,
Disse cantando il manteau Omero,
Perdi' un verso non gionse a dir più intiero
Del lin cosa non è eh' im cor più creme ?
Quel lin, che le man vostre medeme
Dopo il grato sudor, donna, mi diero.
Tessuto r ha, chi 'I nega ? il crudo arciere,
Tanto m' incende Y ossa e '1 cor mi preme.
Vi lo rimando. Ahi ! rimandar non posso
L' ardor però, eh' ogni or sta 'n le medoUe,
Ne umor di pianto va, che giù mil lave.
Ma prego amor, sì come intender volle
Tutte le mie, che almanco roda un osso
In voi, 0 di mia vita ferma chiave.
IO
1^....
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146 II caos — Selva seconda
LiM. Piacquevi cotesto bel soggetto, o padre Eremita?
FuL. Molto aggradisce V umana generazione questa vo-
cale musica.
LiM. Or segui Triperuno.
Tuip. Dirò io di quante parole d' un oroglio di vetro,
con lo quale mediantovi una tritissima rena si mi-
sura d' ora in ora lo tempo.
X ensarsi non sapea pia agevolmente
I Cosa che d' uman stato avesse imago
I D' un fragil vetro in vista cosi vago,
i Che libra il tempo a polve giustamente.
' Vedi le trite rene come lente
' Filan e' giorni pe '1 foro d' un ago,
E fan col fiume or quello, or questo lago
' In doi grembi s' altrui volge sovente.
Ma cotal opra tosto va in conquasso,
I Se avien, che fra doi vetri a la giuntura
Quel debil filo e cera si dissolve.
0 forsennato, chi d' aver procura
In terra stato, sendo un vetro al sasso,
Al foco molle cera, al vento polve,
FuL. Assai più lo discipolo mi piace che lo maestro, e
particolarmente la fine di questo tuo morale sonetto,
Triperuno mio dilettissimo, ed annunzioti, che in
breve cangiarai vita e costumi in assai meghore
stato.
Trip. Io non son tale, che mai potessi adeguare l'alto
ingegno del mio maestro, ma toccavi padre la volta
vostra.
FULICA.
N
acque di fiera in luogo alpestro ed ermo.
Ed ebbe co le man il cor d' incude,
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Il caos — Selva seconda 147
Ove di e notte già molt'anni sude
Far al inopia il pover fabro schermo.
Qualunque al pio lesù già stanco infermo
Al onte, a i scherni, a le percosse crude,
Sofferse in croce le sue membra nude
Al segno traer per dai-vi un chiodo fermo.
Quinci ima mano quindi affisse Y altra
Ed ambo e piedi al misurato trave,
Ne vinse lui quel mansueto aspetto.
ita questo avien, che 'n prava mente e scaltra
E che di sangue uman sempre si lave,
Non cape amor ne alcun pietoso affetto.
LiM. Non altramente sperava io dover avenire di questo
ipocrita e torto collo, e degno da esser nominato,
se lo capo raso vien bene considerato, cavaliere de
la gatta. Mal abbia chi giamai ti mise quello bardo-
cucuUo al dosso, frate del diavolo.
Trip. Deh ! caro maestro, non vi partite !
FuL. Lascialo andare, figliuolo. Colui che su nel cielo
regna, solo può fare di Saolo Paolo, di lupo agnello,
di notte giorno, ma tu ne verrai meco, e acciò che
la lunghezza del camino siati meno a noia, seguirò
de lo asino la miracolosa dottrina.
Trip. Anzi ve ne volea pregare, quando che molto lo
vostro favoleggiare m' addolcisca il core, avendo voi
parlamenti di vita.
FULICA.
v<
oglio che sappiati, diceva quello, che gli asini e
gli bovi ancora hanno l'ontelletto, nonché lo pos-
sono avere. Di che ve ne può far chiari Esaia
quando dice: conobbe il bove il suo possessore, e
l'asino lo presepio del suo signore. E Davit: non
vogliate, dice, divenire cavalli e muli, e soggiongevi
la ragione: perchè sono, dice, senza senno, e senza
alcuno advedimento. Perchè Cristo umile e mansue-
tissimo figliuolo al suo padi-e non volse montare
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146 II caos — Selva seconda
suopra gli cavalli, né suopra gli muli, superbissimi
animali, e oltre a modo ostinati, ma sì voluntieri si
degnò ascendere suopra il mansueto asinelio ? O beati
gli asini, e viepiii eh' ogni altro animale felici ! 0
beati quelli, che asini divengono, e sono degni di
portare il re della gloria in Gienisalem città de li
angioli e de tutti i santi, li quali sempre veggono
il sole de la giustizia, che rasserena le nostre menti
piene d' eiTori oscuri e folti, e sempre mirano la
divina e vera bellezza, la quale gli fa in eterno
beati e giulivi. Non posso io qui tacere la soperbia,
e '1 fasto di coloro, che servi di Cristo, e suoi disce-
: ' poli si fanno chiamare, e tanto forte, che siano a
guisa di quelli servitori, dalli quali è lontano il loro
signore. Ma se pur di così sacro nome si vogliono
gloriare, perchè essi con più pompa, e con maggiore
fasto cavalcano più ricchi cavalli e pi fi belli muli,
che Cristo mai non fece ? E perchè non cavalcano
essi gli asini, come loro maestro e signore, come
dicono, gli ha dato esempio ? Ma in ciò prudente-
mente hanno fatto e fanno ancora cavalcando quelli
animali, gli quali loro più assomigliano.
Deh ! guarda bene , disse allora Liberato a
l'asino, e considera quello, che tu pai'li, che se per
mala sciagura mai si saprà, tu ne sarai molto male
trattato, ed io ti so bene accertare, che tutte Tossa
con uno grosso bastone rotte ti saranno in dosso,
così fatta guisa, che mai più non porterai soma, ma
miseramente di questa vita passarai, ne ti gioverà
mercè per Dio chiedere; per te morta sarà pietà,
né potrai alcuno aiuto, o conforto ritrovare. Deh!
_ non sai tu quello che dice Iddio per bocca del pro-
-I feta, che dobbiamo lasciare stare i Cristi suoi? perchè
\ dùnque tu gli tocchi, perchè gli mordi, perchè non
f dissigli : lasci stare ?
Rispose r asino con un mal vi^o : E se, se te-
messi io il bastone, e le busse più che Iddio io mi
tacerei, né sarei mai oso di dire la verità. Ma per-
ciochè io sono disposto dove a Dio non dispiaccia,
morire, se mi sia di bisogno, non ho paura di con
É
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Il caos — Selva seconda 149
fessare, e dire il vero. Né perchè io dica la verità,
si debbono essi reputare essere offesi da me, se ve-
ramente discepoli sono e servi o amici di Cristo, il
quale, come egli di se medesimo fa vera testimo-
nianza, è essa prima verità e cagione d'ogni nostra
verità. Io non mordo loro. Io non gli tocco, né
pungo ; io lascio stare, anzi riverisco e temo i veri
cristi, e sacerdoti, e regi. Io favello di quelli, che
vogliono essere creduti buoni pastori, e vogliono
essere commendati e riveriti, li quali nel vero sono
naercenai'i e prezzolati, che a prezzo temporale e
vilissimo pascono le pecore di Cristo, e sono per
adventm-a affamati lupi, che alli buoni e veraci pa-
stori e santi prelati della Chiesa, convenevole cosa
è anzi necessaria, a fargli ogni onore, il più che
noi gli possiamo. Sì che giusto sdegno mi sospinge
a biasimare la lorda e malvagia vita delli mali che-
rici e. rettori della Chiesa. Né può T animo mio sof-
ferire di vedere quelli cavalcai-e con tanta pompa e
compagnia, quanta mai non si vede in Campidoglio
ne gli vittoriosi trionfi delli romani, nel tempo che
avevano in mano il freno, e '1 governo de tutte le
Provincie e delle genti barbare, le quali di dì in dì
soggiogano i nostri dolci paesi, togliendoci oggi una
città e domani Y altra, ed or questo castello, ed or
quell' alti'o, e temo che in breve non ci togliano le
persone. Cristo cavalcò una sol volta sopra T asino,
ma gli soi disce])()li trionfalmente alle più volte si
fanno portare dove a pie andai'e dovrebbono.
Non hai tu, disse Liberato, di ciò troppo da ram-
maricarti e da dolerti, che dove una fiata portasti
sopra gli omeri tuoi il nosti'o Signore legerissimo e
soave peso nella santa città di lerusalem, ora ti
converebbe portare i suoi vicari e suoi discepoli per
oscuri boschi e })er le frondute selve, discoiTcndo
or in qua or in là alle maggiori fatiche del mondo,
senza che oltre al convenevole saresti carico d' una
gi'avissima soma, in maniera che saresti male, perchè
ti dei assai bene contentare del tuo quieto stato, né
vogli procurare scabbia al tuo corpo, che santissimo
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15G II caos — Selva seconda
r
esser veggio ; e merevigliomi io forte di cosi fatte
parole, quali sono state le tue, clie io fermissima-
mente creduto avrei, ed ancor credo, che voi asini
sempre fugito avereste cotali pompe là dove ora mi
». pare che procacciate voi d'averle. Io sempre ho
udito dire, che a gli asini non dilettino molto Tor-
nate e nobili selle, né gli am*ati freni, nò le fregiate
vestimenta, e quelle che d' oro sono, o d' aliente di-
pinte. Né vidi io mai alcuno di voi essere troppo
vago del sono delle corna o d' altri dilettevoli istro-
menti, onde sogliono e' greci dire d' alcuno^ che sia
d' alcuna cosa rozzo e grosso, imo cotale proverbio,
egli é a guisa d' un asino alla lira. Dell' uccellare e
de andare a cazza non mi é ora di bisogno, che io
ne parli, perciò che dilettare non vi possono quelle
cose, le quali contrastano alla nostra natura, la quale,
non vi diede V ali a volare, né veloci piedi e leg-
• gieri a potere forte correre. Per le quali tutte cose
0 io brevemejnte conchiudo, che ingiustamente voi e
• . senza ragione facciate alcuna querela, o romore dello
vostro sbandeggiamento, recandovi a vergogna Y es-
sere scacciati da coloro, il cui maestro, se pur suoi
ii veraci discepoli sono, vi elesse per suo portatore,
quasi come più vi caglia il gindicio de gli uomini,
'tt che quello di Dio. Perché vi dovete voi dare pace
- di tutto ciò, che a colui piace, alla cui direttissima
volontà, ed eterna disposizione e legge immutabile
ogni cosa si crede per certo essere sogetta. Or du-
bitate forse voi della divina ordinazione ed infali-
bile providenza ? Credete voi clic alcuna cosa senza
ordine e senza alcun regimento qua giù sempre er-
,. rando vada ? Il che se voi credete, perchè incolpate
voi gli uomini, e non la instabile fortuna? Non
avete dunque voi giusta cagione da dolervi, né da
riprendere i chierici, e prelati della madi-e chiesa.
alli quali, benché di scelerata e cattiva vita siano
alquanti e avenga che facciano le sconcie cose, non-
dimeno dovete voi fargli ogni onore ed ogni rive-
renza come a vostri maggiori, e come a queUi, 11
:,. quali sono da Dio ordinati e mandati a nostra uti-
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Il caos — Selva seconda 151
litìi, abiando riguardo al divinissimo precetto di
Cristo, che ne comanda e dice : facete voi quelle
cose le quali essi vi dicono e predicano, che fare
dobbiate, ma le malvagie opero loro, le quali essi
sovente fanno, non vogliate voi fare.
Non più, rispose V ^sino, non più parlare. Io
non niego, che non debbiano essere ascoltate ed
ubidite loro leggi oneste e pie, ne vittupero io in
tutto loro decreti, e canoni, o regole del ben vivere.
Non sono io di coloro, che forse v' immaginate, ma
di Cristo e vivo, e morto, a quale io servo, e ser-
vire voglio nel suo dolce e grazioso evangelio, né
di servirgK sarò mai sazio. Al quale così piangendo
son astretto di dire. 0 benignissimo padre, riguarda,
riguarda o bon pastore con l'occhio de la pietà le
tue povere e deboli pecorelle, le quali tra crudelis-
simi lupi sono poste drento a cardi, vepri spine, e
altre viziose erbe a pascere. Ecco, ohimè ! di quelli
uno più de gli altri affamato e fiero Liccaone a
a passo, passo, senza alcuno rispiarmo tutte le caccia,
le svena, le straccia, le divora. Defendile potentissimo
signore, defendile da gli soi crudi artigli. Che
TRIPERUNO.
E
ra per seguir anco il vecchio bono,
G ik su r entrar d' un poggio, il qual si monta
N on senza gran sudore, quando un grido '
A 1 tergo viemmi rotto di dolore.
T orsi la fronte, ed ecco for d' un bosco
I o vidi una dongiella scapigliata
V enir fuggendo, ed a chi Y urta ed auge
S empre battendo lei con aspra fune.
S tetti prima qual sasso, ma dapoi
Q uando comprendo il viso di Galanta,
V olgo le spalle più d' un strale in fretta
A Fulica per trarla for d' affanni.
Rompeva la meschina Y aere intorno
C on alte strida e son di petto e mani.
.V'
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152 11 CAOS — Selva seconda
r
I ntendo V occhio a chi la fea gridare,
A hi ! eh' io la riconobbi, ahi ! cruda ed empia
L aura maligna, incantatrice, e maga,
V enefica non men di t'irce fiera,
P utta sfacciata, vecchia, il cui fetore
V olgea gli uomini in bestie augelli e sei-pi,
8 tringendo ai canni soi V altrui costumi.
F ulica su pel monte ansando scampa,
L o qual non più vedere i puoti mai.
0 vunque una sen fugge e V altra segue,
R atto m' avente al fondo d' un vallone,
E eco vidi Galanta in un instante
N on esser più Galanta, ma curvarsi
T utta ritratta, e capo, e braccia, e gambe
1 n una picciol forma di Mustella.
N on puoti far allora, che non ratto
V olto in gran fuga e lagi'imando forte,
S campassi per nascondermi da Laura.
D i passo in passo mi volgeva a drieto,
E rrando e qua e là come stordito.
S tettesi la malvaggia su duo piedi
T utta minace in vista e neghitosa.
R esto ancor io nel folto d' una macchia
V edendo lei ma non da lei veduto.
C esso dunque la vecchia scelerata
T ener più via d' avermi allora nel griffe,
0 nde quindi partita io mi discopro
R itomando a veder ov' è Galanta.
K amparsi lungo al fusto d' un sambuco
E eco la veggio, o quanto vaga, e snella,
L eggiadra, pronta, sedula, sagace,
1 o la ricchiamo come far solca:
G alanta mia, perchè mi fuggi ingrata?
I o son il tuo fidele Triperuno,
0 ve serpendo vai ? vieni a me, vieni,
N on ti levai' da me, che bona cura
1 o sempre avi-ò di te, finché col tempo
S i trovi chi ti renda al esser vero.
D issi queste parole e passo passo
I m'avicino losingando a lei.
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Il caos — Selva seconda 153
V enne dunqu' ella dolce mormorando,
I ntratamì nel sino ad starvi ad agio.
B asci soavi quella mi porgeva,
E d io basciava lei non men insano,
N on men caldo di quel, che fui davanti.
E ra sul picciol dorso tutta d' oro,
D i latte il corpo e leggiadretti piedi,
I ntorno al collo un circolo di perle
C into r adorna e fammi esser men grave
T utta la doglia, che m' assalse, quando
I o vidi lei cangiarsi a me davante.
L o giorno mai la notte mai non cesso
A ppagaiini di questo sol piacere,
V enni a Perissa finalmente, dove
R estar non volse Fulica, che 1 loco
E ra d' errori e soperstizia pieno.
S tetti qui molti giorni, mesi ed anni
I n una grotta sol per fiere usata,
B evendo acque de stagni torbe immonde
I onci, e palme tessendo e molli vinci.
Non mi levai dal dosso mai la gonna,
0 nde r immondi vermi di più sorte
M' erano sempre intomo vigilanti,
E d un setoso manto folto e aspro
N on mai giù da le nude carne i tolsi.
V arcar un uomo in ciel non io credea,
E 1 qual fugisse vivere famato,
N udrirsi d' erbe, more, fi'aghe e giande,
D estarsi a mezzanotte, e macerarsi
1 1 corpo già omicida di se stesso.
C orcarsi o su le frondi, o in terra nuda,
A recarsi a gran merto il girne scalzo,
V ender se stesso ad altri, non avere
I 1 proprio arbitrio, in se, che Dio concesse
T enacemente al spirto di ragione.
A 1 fin, essendo sotto V altrui voglia,
T olta mi fu la mia dolce Galanta.
L o mio solaccio, il mio contento, e spasso,
A himè ! da me fu radicato e svelto.
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f
I
[ 164 Tl caos — . Selva seconda
[ R imasi d' alma privo, ma nel dolo
' V ivendo sempre tanto piansi ed arsi,
[ A rsi d' amore piansi di dolore,
I M orte chiamando ogn' or, che alfin privato
I Io fui de gli occhi e d'ogni sentimento.
i L am'a qui ottenne il seggio, e sol de' volpi,
' L upi, tigri, pantere, draghi e serpi
' V euturosi venni empite boschi, e selve,
M onti, valli, spelonche, fiumi e stagni.
r A ttonita scampavaai la turba,
' P er le fantasme, sogni e negre larve,
, , P er r ombre infauste che da V empia Erinni
E rano sparse drente al laberinto.
^ L aberinto d' errori colmo e pieno,
L aberinto, che già di Dio fu stanza»
A ugèllacci notturni d' ogn' intorno
f N on cessano volar con alte strida,
' D el sole omai non più v' entran le fiamme,
^ V olti de' spirti neri sempre in gli occhi
, N' erano fisi digrignando è denti.
E la Gàlanta mia fu in preda d' altri
S uso al bel mondo in grembo altrui rimasa.
' S uso al bel mondo, e io nel piti profondo
E ra del Caos, centro e laberinto.
C olui, che r ebbe in mano fu 1' egregio,
E gregio mio Grifalco, il qual non ebbe
N on ha, non avrà mai di se più fido.
S trinse Galanta mia fra Y uscio e muro,
E Ha morì chiamando Triperuno.
M a '1 giovine magnanimo e cortese
V olse che d'alabastro un fino vaso
S epolcro fusse a la gentil Mustella.
G
TUMULI GATANTHIDIS MUSTELLA.
GRIFALCO.
ogimur exigaam deflere Galanthida, vìrtus
Quippe sub exiguo *corpore multa fuit
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Il caos — Selva seconda 155
Hanc neque tum poterai Umen collidere, vixit
Qu8e pede cervus, aper fulmine, corde leo.
At magìs offensas vita est Saturnia priscas,
Solvit ubi, invita hac, ventre Galanthis lieram.
FULICA.
Quse Mustella fili tam. brevis, huc rapuit.
MERLINUS.
1^ . .
JL er mutata, fnit Mulier Mus Stella, Galantina
Me Mulier, tumulum Mus pete, • Stella polum.
LIMERNUS.
\^usB Mulier quondam quae nune Mustella fuisti
Hic medium linquis nomen et astra tenes. (1)
PAULUS. F.
msus eram, nunc luctus Heri, qui fraude peremptam
Lucinse officio me decorat tumuli.
MARCUS. C.
x\n misera, an foelix ? dominum damnem ve, probem ve ?
Cum dederit mortem qui modo fert tumulum ?
Si pius, unde mihi mors est? si non pius, unde
Et decus, et laudes, et lachrymse, et tumulus?
(l) È un bisticcio sui nome Mustella; vale a dire il Mus, sorcio, ò
la parte che resta in terra, e Stella è l'altra che sta fra gli astri.
r--
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156 II caos — Selva secjonda
D
IDEM.
um placeo interij. Occidit dum diligit, ingens
Struxit Amor tumulum, sed prius ille necem.
M.
0
I
IDEM.
ole brevi brevis ipsa tegor Mustella, gementes
Delitise nuper mine lacrymse domini.
ISIDORUS. C.
lUNONIS QUERELA.
ego quantum egi, extinxisse Galanthida dudum
Credideram, lethseisque immersisse sub undis,
Dum terris proibere paro, coelum occupa t audax
Et vatum celebri late iam carmino vivet.
IDEM.
ndulges lacrymis inane quiddam
Deflens, et teneram gemens alumnam
Grifalco, at nihil buie magis salubre,
Magis nobile prsestitisse posses.
Vivens cognita vix tibi latebat.
Vitae munere functa nunc pereimi
Vivet iam celebrata laude, per te
Haec dum mortem obijt, absoluta morte est.
TRIPERUNUS AD DEUM. CONF-
>umme opifex rerum, pater instaurator et unus,
Qui Deus existens coelo terraque potenter
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Tl caos — Selva secónda
157
Cuncta regis, certo dum lapsu ssecula torques.
En ego, si ante tuum debentur vota triljuna,
Assistique hominum curse, tiutinisque movendse,
Quid facciam, tanto qui absumpto tempore nocte,
Produxi vigiles ea per fignienta, volumen
Mugarum sedificans? En culpe cognitor omnis,
En qnibus ingenium quo nos decora alta subimus,
Turpiter implicui fabellis, quo per ineptos
Consenuit lusus viridis squalore inventa.
Pars melior consumpta mei, redituraque nunquam
Kapta est, unde animi ratio me conscia torquet,
He ! heu ! quid voi vi misero mihi ? sordibus aurum
Perditus, et gemnas immissi fecibus indas.
FINISCE LA SECONDA SELVA
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i
I
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IV.
SELVA TERZA
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CAOS
DEL
TRIPERUNO
SELVA TERZA
Unus adest triplici uiilii nomine vultus in orbe.
Tres dixere Cliaos, numero Deus imf)ar6 gaudet.
FR.
GR.
F ortuna con soi larghi e pronti
R otandosi nel volto ad altri
A d altri pur par sempre, che s' add
N on so, Grifalco mio, che me ne
C ostai veggio, eli' a molti spenna le
E dal ciel tratti in terra li col
S ì come Borea fa de le ci
C he temer lei, s' un Dio nel ciel ad
0 ver s' in terra un Mecenate o
G iri
R ide,
I li.
F ide,
A le
L ide,
C ale.
0 ro,
N oro?
u
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0.
"r sbuco già qual Nottula di tomba,
Ed oltra quella spera, onde la pioggia
Descende, e per augel rado si poggia,
Date mi son le penne di colomba.
Tant' alto salirò, che mi soccomba
Chi ha 1 giro di trent' anni, e 'n Y aurea Loggia,
Ove 'n se stesso un trino sol s' appoggia,
ria tempo, eh' al convito suo discomba.
Quivi non sotto enimma, non per velo
Ch' abbia su gli occhi Mosè, non per mano
Posta al forame di Y eburneo ventre,
Non più a «le spalle nò, ma in vista piano
L' altissimo vedrò quanto sia, mentre
Si turba entro lo 'nferno e ride in cielo.
MAGNANIMUS TEMPLUM
HOC MUSIS GRIFALCO LOCAVIT.
'^^
il
i ,
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PREFAZIONE
DE LA SELVA TERZIA
Caos.
Lo animale ragionevole, lo quale per vi-
vere 0 soperstiziosa, o lascivamente, overo
che per falsa dottrina avezzato e abituato
non più sente lo errore suo, ma cieco ed
oblivioso nel grembo de la regina de' pec-
cati e difetti, che è la ignoranzia, sede e
dorme, costui non pur di bestia peggiore,
ma un' ombra, anzi uno niente si pò chia-
mare, come quello che non ode, non sente,
non vede, non tocca più di se stesso lo es-
sere. Or dunque trovasi egli nel Caos, e a
lui non è fatto ancora il mondo, dilchè per
divina pietade appar egli una fiammella d' in-
telletto e cosi a poco a poco entra egli in
cognizione di queste cose per lui da Dio
criate, e talmente vi affigge il core, che
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distinguendo e scegliendo va lo smisurato
beneficio da Dio a lui dato ; ma non troppo
egli vien poi rassicurato da questa nostra
umana e corrotta natura, che no caschi o
poscia egli cadere in alterigia, vedendosi
essere di tante belle cose tiranno. Però la
anima, d' ogni macchia purgata, è nello stato,
che già fu Adam, intendendosi questo allo-
goricamente, avanti lo gustato j)omo, la na-
tura gli è ancora incorrotta, non vi è lo
tempo, non vi è la morte. Vero è che noi
paradiso terrestre de la purgata conscicnzia
potrebbe ella facilmente con lo arbore del
libero arbitrio fallire, o sia nel (ornare a la
soperstiziosa vita lasciando lo Aangelo se-
condo Livia; o sia per lo tribuire a sol
istessi meriti la acquistata grazia, secondo
Corona; o sia nel voler comprendere e dif-
^ finire la incomprensibil ed infinita potenzia
di Dio dando opera al studio de li nostri
moderni teologi infruttuosamente per noi af-
\ faticati, secondo Paola.
r
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À
IlL CAOS
SELVA TERZA
TEIPEHUNO.
Q
nel spaventevol mar, che a naviganti ij
Promette Y Epicm-o sì soave,
Solcai gran temj^o in foste, gioie e canti,
Finché la gola, il sonno e V ozio m' ave
Travolto in bande, ove d' acerbi pianti
Nel scoglio si fiaccò mia debol nave.
Che aperse a V acque il fondo ed ogni sponda,
E 'n preda mi lasciò de pesci a Y onda.
E r ignoranza d' ogni ben nemica,
Tosto che 'n grembo a morte andar mi vide ;
Corsevi come donna, eh' impudica
Con vista t' ama e col pensier t' ancide ;
Quindi svelto mi trasse, ove s' intrica
Nostr intelletto in quel sogno, eh' asside
Fra le sirene, e dormevi egli in guisa.
Che sua spezie da se resta divisa. ♦
Vago mi parve sì Y aspetto loro,
Che froda in tal sembianza non pensai ;
Ma ciò che splende poi non esser oro
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166 Tl caos — Selva terza
Tardo conobbi e subito provai.
Un d' angeliche voci eletto coro
Enti'ato esser mi parve, e poi mirai
Cangiarsi e' bianchi volti in sozze larve,
E il lor concento in stridi e urli sparve.
Ed una nebbia orribile, che addombra
La ragion, lo 'ntelletto e Y altro lume,
M' avea offoscato sì, eh' inutil ombra,
10 mi trovai for d' ogni uman costume,
E in stato di color, cui sempre ingombra
La dolce sete a Y oblioso fiume,
Che come egli son vani e fatti nulla
Tal vien, eh' in ignoranzia si trastulla.
D' onde s' ardisco dire, che * 'n niente
M' avea travolto la regina cieca.
Taccia chi 'n Y altrui fama sempre ha '1 dente,
Né dica il mio cantar favola greca.
Ma Dio com' ora fece a me, sua mente
Svella dal stesso nuvol, che Y accieca,
E scotalo dal sonno, ah ! troppo interno !
Che puoco fummi ad esser pianto etemo.
Però ti rendo mille grazie, e lodo,
Lodar quanto può mai potestà umana,
Te dolce mio lesù, te fermo chiodo
De r alta fede, eh' ogni dubbio spiana.
Te dico, che disciolto m' hai quel nodo,
11 qual ci lega e fanne cosa vana.
Te sommo autor di tal e tante cose.
Che 'ì suo tesor per noi la suso ascose.
Né lingua, voci né 'ntelletto, sensi
Muova giamai senza '1 tuo nome sacro,
Nome, che sempre, o canti, o scriva, e pensi
Spero pietoso, e temo giusto ed acro,
lesti te dunque invoco per Y immensi
Chiodi amorosi, eh' alto simulacro
T' han fatto in terra al popol cristiano.
Or mentr'io scrivo scorgimi la mano.
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Il caos — Selva terza 167
Scorgi la man non più cnida, rapace,
Non piti del mondo posta in servitute.
La man, che particella, se '1 ti piace,
Scriver desia de V alta tua vertute.
La quale d' ogni senso uman capace
Mi ricondusse al poggio di salute,
E nel tuo nome pareggiar vorìa
Mio basso stile un altra fantasia.
I
TRIPERUNO.
1 grave sonno, in cui m' era sepolto
Quanto di bono vien dal primo cielo,
Ruppemi orrendo grido, qual in molto
Scoppio far sole il fulgurante celo,
Apro le ciglia, e quando ebbi distolto
Da sensi im puoco l' importuno velo.
Dritto m' inalzo, guato, e nulla veggio,
Perch' era il mondo ancora d' ombre un seggio.
Anzi né ciel, né teiTa, né '1 mar era.
Né averli mai veduto mi sovenne ;
Non verno, estate, autunno, primavera.
Non animai de' peli, squamme o penne ;
Non selve, monti, fiumi, non minerà
D' alcun metallo, non veli né antenne.
Mercé eh' era del Caos in la massa
D' ogni ombra piena e d' ogni lume cassa.
Né piti sapea di me stesso né manco
Di chi vaneggia in forza di gran febre ;
Star o insensibil pietra, o trar del fianco,
Aver maschile, o sesso muliebre ;
Esser, o verde, o secco, o negro, o bianco,
Si m' eran folte intorno le tenebre.
Pur sempre non vi stetti, ma ecco d' alto
Un sol m' apparve, onde ne godo e salto.
Perché, sì come il pullo dentro '1 uovo
Bramando indi migrar si fk fenestra
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168 II caos — Selva terza
Col becco, donde v' entra il raggio nuovo
E poscia da le spoglie si sequestra ;
Tal io, mentre me stesso in V ombre covo,
Luce spontar mi vidi a la man destra,
Gh' empì la notte, onde ratto m' avento
Lk col desio, che '1 corso far sol lento.
Inusitato e subito conforto
Ardir m' offerse al cuor e ale al piede.
Lungo un sentier de gli altri men distorto
Affretto i passi ovunque V occliio il vede.
Oh aventurosa fuga, che a buon porto
Giunger mi fece d' un tal pregio erede !
Ben duolmi, che narrarvi ciò volendo
Mentre son carne in van mie rime spendo.
Di luce un gioven cinto, anzi un' aurora.
Oh' appare spesso al alma cieca e frale,
Ecco si mi presenta, e mi 'ncolora
Col viso piii che '1 sol di luce eguale,
Onesto e lieto sguardo, che 'n amora
Ogni aspro e rozzo core, onde immortale
So ben che a tal beltà, Y avrei pensato.
Se allor io fussi, quel eli' oggi son stato.
Que' soi begli occhi, eh' abbcllar il bello.
Quanto sh ne risplende e giuso nasce,
Raccolsi a la mia vista, e fui da quello
Non men depinto, che quando rinasce
Proserpina in obietto del fratello,
E de' soi rai, benché luntan, si pasce ;
Né il lume pur, ma un amoroso ardore
Sentiva entrarmi dolcemente al cuore.
Pur come avenne a Piero, in sua presenzia
La vista persi, il senno, e le ginocchia.
Chi sopra uman valor si fìi violenzia
Portar tal peso vinto s' inginocchia,
Veggendomi egli a terra di clemenzia
Pingesi '1 volto, e con pianto m' addocclùa,
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Il caos — Selva terza 169
Poi, sollevando i lumi al ciel, tal voce
Muosse, eh' anco m' abbruggia e mai non cuoce.
FIGLIO AL PADRE.
0
tu, che 'ntendi te, te, qual son io,
Quant' alto sei, quanf eccellente e saggio.
Lo qual in nulla cosa mai non manchi,
Sublime sì, che sotto e sopra quello
Che sei pensar non puossi, e queat' è '1 mio
Nò mai dal lume tuo smembrato raggio,
Io non di te, né tu di me ti stanchi
Mirar quanto ti sia e mi sii bello,
Né quel spirito snello
E fuogo, che fra noi sempre s' avampa,
Ed or in dolce lampa
Or in colomba formasi, minore
Di noi giamai procede né magiore.
Padre, figliuol, e V almo spirto un Dio
Eterno siamo fuor d' ogni vantaggio.
Tre siam un, ed un tre securi e franchi.
Che 1' un vegna de V altro mai rubello ;
Non cape in noi speranza né desio.
Non spazio tra '1 comun voler, né oltraggio.
Io del tuo lume e tu del mio t' imbianchi ;
Né del nodo che tlen Y alto sugello,
Unqua padre mi svello,
Però d' ogni bontà nostra é la stampa,
Che r amorosa vampa
Del Paracleto imprime, onde '1 motore
Del tutto siamo detti, e creatore.
Or di quel nostro incomprensibil rio,
Così soave al umile coraggio.
S' umile mai verrà né spirti bianchi
Conoscitor di noi, V uomo novello
Nasce d' animo e sangue, santo e pio,
Ch' avrà del mondo in man tutto '1 rivaggio,
Né voi verrete in suo servigio stanchi
Stellati cieli e tu nostro scabello.
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170 II caos — Selva terza
Rìtonda terra, ma elio
S' indura contra noi l' iingiuta ciampa,
E già si finge e stampa
Di feiTO e pietica statue, queir onore
Lor dando, che a Dio vien del tutto autore.
Nascon insieme V uomo e V alto oblio
Del dritto e anteposto a lui viaggio,
Dico 1 sentier, che al fin porge doi branchi,
L' un stretto dolce, 1' altro pieno fello.
Quinci al gioioso, quindi al stato rio
S' arriva, onde giustizia in lor dannaggio
A tristi vegna, e tengali ne' fianchi
Tema per sprono, e morte per flagello.
Morte, che 'n un fardello
Cogliendo tutti ovunque voi si rampa.
Nullo da lei mai scampa ;
Sia pur bel volto, sia pur verde il" fiore
Far non può mai, che morte no '1 scolore.
Ma guai, chi 'n mal far sempre ha del restio,
Ch' ogni sempre di là trova 1 paraggio ;
Que' dì che mai di colpa non fur manchi
Men fian di pena ove gli rei flagello.
In fin al ore estreme, quando '1 fio
Pagar verammi inante ogni linguaggio
Dal ciel i destri e dal inferno i manchi.
Pur stando in carne lor spesso i-appello.
Non son tigre m' agnello ;
Chi '1 perso ben per racquistar s' accampa,
Chi '1 viver suo ristampa.
Intenda realmente, che '1 signore
Del ciel in ciel non sdegna il peccatore.
Dunque, padre, mi 'nvio dar suffraggio
A loro, che non san chi sia pur quello,
Ch' altri da morte scampa e esso muore.
A
TBIPERUNO.
li alti accenti d* un tal sono eroico,
Del quale ne tremai coni' uom frenetico,
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Il caos — Selva terza 171
Vennemi voce altronde. A che esser stoico
Miser ti giova né peripatetico ?
Che ti vai fra V un mar e V altro euboico
. Pigliar oracli e ber fiume poetico ?
A che spiar la verità da gli uomini,
Che di menzogna furon mastri, e domini?
Io, che sculpito in cuor le note aveami
D' un sì bel viso d' un parlar sì altiloquo,
A poco a poco gli occhi aprh' vedeami,
Al sono di colui tanto veriloquo ;
Pur tal' era V error, eh' anco teneami,
Ch' appena svelto fui, perchè '1 dottiloquo
Gioven mi sciolse, onde ciò anti nubilo
Mi parve intender, ed intendendo giubilo.
Giubilo perchè intendo, intenda e Plinio,
Ch' or vive morto, viver sempre Y anima ;
Non sì però, eh' i stia sotto 1 dominio
Di chi '1 legume d' uman spirto innanima.
Stetti gran tempo in tale sterquilinio,
Nel qual concedo ben, che Y alma exanima
La troppo vaga e addolcita letera,
E molti uccide il canto d' està cetera.
Qual è, chi '1 creda, eh' oggi tanta insania
La nostra verità si prema e vapoli ?
S' io mi diparto al umile Betania
Per alto mar da Eoma o sia da Napoli,
Ecco a man manca dal Parnasso Urania
Scopremi Y Elicona, ove mi attrapoli.
Ben sk che a lei m' avento, benché 1 Tevere
Lasciassi per Giordan, queir acque a bevere.
Acque sì dolci, quanto più bevemone.
Più a la tantalea sete si rinfrescano ;
Quivi l'argute ninfe lacedemone
A gli ami occulti nostre voglie addescano ;
Così non mai dal bianco il negro demone 1
Sceglier mi so, non mai Y onde si pescano,
i
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172 11 caos — Selva terza
Cui trasser a la destra del navigio
Piero e Gioan de pesci il gran prodigio.
Però dal mio lesù se detto fiami
Giamai: di poco fede or perchè dubiti?
Scusarmi non saprò, quando che slami
Concesso por le dita fin ai cubiti
Nel suo costato e trarvi '1 ben, che diami
Fidi pensieri e al ver creder subiti,
Non lece dunque più d' Egitto in gremio
Starsi, ma gir con Mosè al certo premio.
Assai d' oro forniti e gemme carichi
Di Fai'aon scampiam' omai la furia,
Né sì men gravi paran e rammariclii,
E pene, che ci dava V empia curia,
Che nel deserto alcun de noi prevarichi,
Dicendo in faccia a Mosè questa ingiiuia :
Mancaron entro Egitto forse i tumuli
Che morir noi per queste valli accumuli ?
Ma non così V alma gentil improvere
A chi oltra '1 mar asciutto mena un popok^ ;
Che nel primo sentier quantunque povere
Sian le contrate, ove sol gi*inde accopolo
Per cibo, al fin vedrassi manna piovere,
Sorger un largo rio di nudo scopolo,
Che cominciando a ber nostri cristigeni
San quanto noccia usar co li alienigeni.
Deh ! non ci chiuda il passo ai rivi, eh' ondano
Di latte e mele nostra ingratitudine :
Rivi che noi di lepra e scabbia mondano
Contratta dianzi ne la solitudine.
0 di qual meV e' nostri petti abandono,
Ch' assaggian pria di fell' amaritudine ?
Ma ciò non prima seppi, che 'n cuor fissemi
lesù questi si dolci accenti e dissemi :
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Il caos — Selva terza 178
DIALOGO.
CRISTO E TRIPERUNO.
X ace ti-a noi, eh' amor ciò voi, (1) o privo
D' amor e pace miser animale.
Sì bello dianzi, e or sì lordo e schivo.
Amor sia, prego, e pace teco, che ale
Né augel mai vola senza, né alma, cui
Amor e pace manchi, ad alto sale.
Ma no m' intendi, si contende i tui
Sensi la folta nebbia, ne Y aurea face
Del cuor spenf hai, ne vedi te ne altrui.
Ahi ! misero, che speri ? ove fugace
Te sottraendo a V ira vai, che altrove
Ben giiigne al varco Y empio contumace ?
Le tue, non solle ? mal pensate prove
T' han scolorato '1 viso e spento a' piedi
La scorta luce ; dove vai ? dì, dove ?
Or vegno liberarti, spera e credi, .
Porge la man, nò aver uomo di tema
E '1 spirto sol, d' amor anco 1 possedi.
Ma un dono qui ti cheggio, cui Y estrema
Vertù del ciel, eh' or tu non sai, si pasce,
Né in lui divina fame unqua yien scema.
TRIPERUNO.
I
1 vago vostro aspetto, onde mi nasce
Un trepido sperar, qual che voi siate.
Signor, deh ! in questo errore non mi lasce :
0 dolce man e occhi di pietate,
Ch' or man i' stringo, eh' or begli occhi veggio,
Mon-ò, s' el venir vosco mi negate.
(1) Ambedue le edizioni hanno nel, che io credo errato e vada vol^
vuole.
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174 II caos — Selva, terza
Mentre vi guardo e 'nsierae favoleggio,
Si rasserena e sfassi quella scabbia
Nel cor già fatta un smalto e duro seggio.
Qual sì fort' ira, qual schiumosa rabbia
Non ratto cade al viso vostro onesto ?
E pace mi chiedete in questa gabbia?
In questa d' en-or gabbia chiuso e mesto.
Privo d' ogni, se non si 1 vostro, aiuto.
Dunque eh' i v' ami e doni son richiesto ?
Amarvi, anzi adorarvi, non refuto,
Che, quanto parmi al bel sembiante altero,
Amarvi, anzi, adorarvi son tenuto.
0
CRISTO.
Il se co r occhio avessi '1 cor sincero,
Più che di forme 'ntenderessi dentro.
Però di me non hai giudiccio intero.
TRIPERUNO.
Ne
I on pur voi, ma me stesso, e 'n questo centro
Come 'ntrassi non so ; ben or vi dico,
S' uscirne poscio mai non mai più v' entro.
Non trovo in lui né porta né postico
Per cercar, chi mi faccia, e brancolando,
In guisa d' orbo, più miei passi intrico.
Oggi omai tempo è trarsi d' ombra, quando
La luce de vostr' occhi essermi scorta
Non sdegni al uscio per voi fatto entrando.
CRISTO.
Q
uesta prigion da tutte parti porta
Non ha, for eh' al entrare, ma ritorno
Far indi e sovra girsen via più importa.
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Il caos — Selva terza 175 ;
Questo è quel lungo nel malfar soggiorno, \
Non speri uman valor, chi uscir ci vole, ^
Ed io la guida son, eh' altrui distomo. J
Di che se ben sentissi o ingrata prole J
Quanto ti diedi e darti anco apparecchio 4
Di questa cieca e inornata mole ;
Non fora mai, che per alcuno specchio [
Di verità lasciassi '1 vero lume, f
Avendo al falso pronto sì 1' orecchio. i;
Son io la verità, son io Y acume i
Del raggio, che volendo, sempre avrai, 1
Persona i son del inscrutabil nume. l
Io son r amor divin, che ti criai \
Uomo simile mio, del ciel consorte :
Se '1 cor porgi, che pria t' addimandai.
A te il mio regno, a me il tuo cor per sorte :
Convien. Stolto sarai se darmi '1 nieghi,
Che no '1 facendo ti verrà la morte. [
Morte fera crudele ai lunghi prieghi
Che le fian fatti, acciò non ti divore,
Immobil sta non che punto si pieghi.
Ma se remmetti nelle man mie '1 core,
E per altrove porlo indi no 1 svelli,
Non fia perchè abbi tu di lei timore.
Soi tumuli, sepolcri, roghi, avelli,
E quant' urne s' affretta empire d' ossa
Non temer, nò di forza eh' aggian elli.
Lei, di catene vinta in scura fossa
Rinchiusa, freno, che sciorse volendo
Talora si dimena con tal possa,
Ch' ella, te il cor rittolto avenni, udendo.
Subito rotte lasciar alle a dietro (1),
E quant' or ti son bello e ti risplendo.
Questi più lorda e d' aspro viso e tetro
Ti assalirà co '1 insaziabil feiTO
Di nervo tal, eli' ogni altro li è qual vetro.
E 'n peggior stato, di cui ora ti sferro.
(1) Questo che tale si le^ge nelFuna e nell'altra edizione che in-
vece si abbia a leggere così : Suòiio rotte lascia V ale a drieto.
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176 II caos — Selva terza
Respinto ancideratti e parangone
Farai del gran destin, che altrove serro.
A te sol d'intelletto e di ragione
Beli' alma poi, eh' uciso morte f aggia,
In Dio del opre tue sta '1 guidardone.
Pur speme né timor da te ti caggia,
Ma r una e Y altro insieme là che libri ;
Che chi spera temendo al fin assaggia
Di me quale dolcezza là si vibri,
Ove sfrenato amor ragion non stempre,
Ma sian le due virtù del senso i cribri.
TRIPERUNO.
Oe per cosa, signor, di basse tempre
Da voi si largo pregio me n' acquisto,
Ecco vi dono il cuor, abbiate '1 sempre.
Ma, dirlo vaglia, non più bello acquisto
Farsi potria di quel, eh' or faccio, averne
0 d' ogni ben bellezza in fronte visto.
In quella fronte, onde tal foco ferve
In r alma mia, che ardendo s' addolcisce,
Mentre che 1 suo del vostr' occhio si serve.
Non ho eh' io temi morte se perisce
Ogni sua forza, pur che sempre v' ami ;
E il sempre amarvi troppo m' aggradisce.
TRIPERUNO (1).
Ne
lon mancheranno tesi lacci e ami
D' un adversario tuo, che 'nvidioso
Al don, eh' or ti darò, sotto velami
Di verità cerchi farti ritroso
A la mistade nostra, ma più bassi
Che puoi gli occhi terrai col piede ombroso.
(1) Questo capitolo è in ambedue le edizioni intestato a Triperuno,
ma invece dovrebbe esserlo a Cristo, poiché è lui che paria.
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Jh CAOS — Sklva terza 177
Muovi tu dunque accortamente i passi
Per questo calle, che a man destra miri,
Onde al terrestre paradiso vassi.
Cosa non è vi (1) per cui unqua sospiri,
Anzi gioisci di quel dolce, eh' io
T apporto, acciò che m' ami, e toi desiri
Commetta a me, che t' ho svelto d' oblio.
TKIPERUNO.
c<
4om' esser può, eh' un arbore, eh' un fiume
L' un stia verde giamai senza radice,
U altro più scorra se acqua non s' elice
Di fonte, o neve al austro si consume ?
Com' esser può, che 'ncendasi le piume.
Mancando il sole, Y unica fenice,
O eh' ardi al spento foco cera o pice
Di naturai e non divin costume ?
Com' esser può, dal cor un alma sgiunta
Che 'n corpo viva, come allor vid' io
Che 1 cor al cor mio dolce lesti diedi ?
Ma 'n ciò tu sol, amor, natura eccedi,
Ch' un corpo viver fai, benché '1 desio
Sen porti altrove il cor sul aurea punta.
TALIA. .
JL iù di noi fortunati sotto '1 sole
Fra quantunque animai non muove spirto,
Ch' al fin d' està mortai incerta nebbia
Migrar ci è dato sovra 1' alte stelle ;
Bontà di lui, che a man destra del padre
Regnando ftu-si degna nostra guida.
Nostra per cieco labirinto guida.
Ove smarì de lo 'ntelletto il sole,
(1) Cosa non è vi che ò nelle due edizioni suppongo che sia
invece di ; Cosa non vi è
12
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178 11 caos :— Selva terza
Nostro fermo dottor, che sé col padre
Esser e' insegna un Dio col almo spirto,
Un Dio, che stabil muove il mar lo stelle,
Augelli, belve, frpndi, vento e nebbia.
Ma dal Egeo mar un' atra nebbia.
Che tanti perder fa la dolce guida,
Levata in alto fin sotto le stelle,
Ai saggi erranti cela il vero sole :
Che più credon salir di Plato il spirto,
Che Paolo e Mosè, che d'Isacco '1 padre,
Né Archesilao, né de stoici il padre
Sin qui gli han tolto via del cuor la nebbia,
Che penetrar non lascia, ove sia '1 spirto
Muover di ciò, che muove, mastro e guida.
Però van ciechi e bassi, e solo al sole
Molti dricciar altari e a le stelle.
0 voi dunque, . mortali, de le stelle.
De r anime e di noi cercate il sole,
E non del dubbio Socrate la nebbia.
Meglio é morendo aver lesù per guida.
Che ad Esculapi offi-ir d'un gallo il spirto,
1 veggio trasformato il negro spirto
In angelo di luce, per le stelle
Volando a noi mosti-arsi esser _lor guida,
Se leggo Averois, d' errori padre.
Ma l'Aquila Gioanni in bianca nebbia
Sublime affise gli occhi al sol del sole ;
AI sol del sole, onde '1 figlino!, dal padre
Mandato in questa nebbia su a le stelle.
Si é fatto nostra guida amor e spirto.
DISSOLUZIONE DEL CAOS.
TRIPERUNO.
F
inito che fu dunque 1' alto verbo,
Benché infinito sempre lo servai.
Disparve '1 mio signor in un soperbo
Triunfo tolto a mille e mille rai :
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Il caos — Sklva terza 179
Ma nel fuggir un sono così acerbo
Tonò dal negro ciel, eh' io ne cascai
Come frassino, o pino, il qual per rabbia
Di vento stride, e stendesi a la sabbia.
Vidi la cieca massa in queir istante,
Che '1 capo m' intronò Y orribil scopio,
Smembrarsi in quatro parti a me davante,
Ed elle sgiunte aver già loco propio ;
Due parti in capo e due sotto le piante :
Sonuninistarmi sento effetto dopio,
Qual puro e caldo, qual sottil e leve,
Qual molle e fredo, qual densato e grave.
Vidi anco le incurvate spere intorno
De la terrestre balla farsi cerchio.
Che rotan sempre e mai non fan ritomo,
SoV una è fatta a noi stabil coperchio.
Ma 1 ciel d' innumerabil lumi adorno.
Un solo non mi parve di soverchio,
M' offerse al fin girando un sì bel occhio,
Che lui per adorar fissi '1 ginocchio.
Egli, se alzando, tal mi apparse, eh' io
Lasciai pur anco '1 fren in abandono,
Drieto al error del credulo desio.
Che 'n tal sentier non sferzo mai ne sprono.
Ma strana voce, onde quell' occhio uscio.
Mentre, eh' assorto in lui sto fiso e prono,
Scridommi come Paolo ai Listri fece.
Che di Mercurio V adorar invece.
SOLE.
Lima felice, eh' hai sola quel vanto
Aver di 1' alta mente simiglianza,
Onde guardar mi puoi frontoso altero,
Qual' or ti fai, che 'n me codarda tanto
Più estimi questo raggio, che l' orranza
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18Q II caos — Selva terza
Del dato a te sovra ogni stella impero?
Non Dio, ma un messaggero
Di lui ti vegno, da queir una luce,
Ove ben sette volte intorno avrai
^ Di me più bianchi rai
Da quel, senza cui nulla fiamma luce,
Ma come in vetro egli per noi traluce.
Or dunque più alto e non si basso adora,
Che r esser mio fu solo in tuo servigio,
Mira, come ascéndendo passo passo
Senza mai far in lunga via dimora,
Di miei cavalH tempro sì '1 vestigio^
Che r ampia rota, ove tornando passo,
Non unqua vario e lasso,
Finir a la prescritta meta deggio.
Vedi come V estreme parti abbraccio,
E quanto puosso faccio
Sol per accommodarti V uman seggio.
Ove di quanto sai voler pi-oveggio.
Mira quell'empia zona come obliqua
Mi volge a driéto, onde ne vado e riedo
Insieme, ostando al mio tornar si ratto.
Né di che tal ripulsa mi sia iniqua.
Che risospinto, mentre vi procedo,
L' un emisfero aggiorno Y altro annotto,
Scorrendo quattro e otto
Segni per tanti mesi, e passegiando
Causo molta bellezza di Natura,
- "^ ^ Ch' ha variando cura
Farti più vago e lieto il mondo, quando
D' ambi solsticij al e([uinozio scando.
Quinci r arista e '1 ghiaccio, quindi apporto
La fior e '1 frutto a più tua dolce gioia,
Ma non usar del ben concesso in male,
Che sentiressi quanto è ratto e corto
Il mio gir lento, e ti dai-ei gran noia
Solcando il cerchio estivo e glaziale.
Poi '1 tempo, eh' ha cent' ale
A gli omeri a le mani al capo ai piedi,
Ch' ora sotterra giace in le catene.
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^f^f^r"
Il caos — Selva terza Ì8l
Veria storti dal bene,
Ch' oggi sì lieto godi, e te 1 possedi,
E ne faria soi giorni e mesi eredi.
Ben tempo fu, che chi sia '1 tempo e morte
Quello provasti, e questa dir sentisti;
E r uomo dio, che d' uomo a tempo nacque,
Ma sempre di Dio nasce, e or le porte
Del ciel entrar hai visto, già servisti;
Quando per V uomo farsi uomo li piacque ;
Che nel presepio giacque
Nudo fra V asinelio e bue nasciuto.
Ma d' ignoranzia in grembo V hai scordato,
Però da Dio novato
Col mondo sei, che dianzi eri perduto,
E novo Adamo fatto sei di luto.
Luto non sei più no, ma novo Adamo,
Per cui ruppe oggi Dio la massa, ed ella
Novellamente noi per tuo "ben scelse;
Noi dico stelle, eh' anzi ti eravamo
Co r altre cose nulla, o quel si appella '
Caos, donde '1 bel sceclo Dio ti svelse.
Ma sovra le più excelse
Corna de' monti, onde ti portò il -giorno.
Piantato t' è un terrestre paradiso.
Che di solacelo e riso
Onestamente sendo sempre adorno,
lesù spesso vi fa teco soggiorno.
Adora lui, se forse quanto sia,
Dandogli 1 cor sì come hai fatto, gusti.
Quel non son io, perchè da te adorato
Ne vegna, come al mondo errore fia
Di Manicheo (1) e soi sequaci ingiusti.
Cristo non son, perdi' egli sempre a lato
Del padre sia chiamato
Sol di giustizia, dond' ei dir si puote
Cristo esser sole, e '1 sol non esser Cristo.
(1) Manicheo fu i[ capo di una setta eresiarca cristiana del primo
secolo della chiesa. Egli ammetteva la luce e le tenebre quali enti su-
premi del mondo.
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182 II caos — Selva terza
Sol son io 'l sole, visto
D' occhio mortai, ma Y altro sol percuote
Di cieco error, chi voi mirar sue rote.
Ora più non m' attempo,
Che senza me vedi ogni errante stella,
Per trarne frutto, chi testé, chi a tempo.
Volersi unir indarno a mia sorella,
Che adultera s' appella
D' ogni pianeta, e pur senza noi dna
Con puoco effetto va la vertù sua (1).
TRIPERUNO.
/\ r increpar imnile del mio Apollo,
Come uom, che cade e su vergogna Y erge,
Mi rilevai mirando quanto annoilo
Di sua potenzia Dio, che ovunque asperge
Li aurati raggi il mondo fa satollo
Di caldo lume, e ratto che s'immerge
A r altro uscito già d' un emispero,
Imbianca quello, e questo lascia nero.
Ma non sì tosto il giorno fu dal. lume
Solar causato, e nauti mi rifulse.
Che là una fonte, qua bagnar un fiume
Vidi le ripe sue da Y onde inipulse :
Parte stagnarsi e mitigar lor schiume,
Parte volgersi al mar, e Y acque insulse
Far salse, ove Y orribii Oceano
Distende Y ampie braccia di luntano.
In mille parti ruppesi la terra.
Donde montagne alpestre al ciel ne uscirò.
Quinci una valle, quindi un lago serra
De colli e piagge qualche aprico giro.
L'alto profundo mar già non pur erra
(1) In questo capitolo conferma, il Folengo, il princìpio della sfera-
cità della terra, ammesso già nella Selva 2*, pag. 40 e torna ribadirlo nella
terza stanza del Capitolo seguente. Le restanti nozioni astronomiche si
a^irrano tutte intorno air ipotesi del moto del sole attorno alla terra.
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Il caos — Selva terza 183
La sua consorte, che rotonda miro, ,
Anzi fatta la via per calle stretto,
In grembo a lei si fece agiato letto.
Già d' erbe, fiori, piante e de' virgulti
La terra d' ognintorno si verdeggia,
Quai poggi erbosi, e quai lor gioghi occulti
Han di frondose cime, e quai pai-eggia
Monte le nebbie. Ma de' boschi adulti
Ecco già sbuca Y infinita greggia
Degli animali, chi presto, chi pegro,
Chi fier, chi mansueto, o bianco o negro. i
Anco d' augelli un' alta copia vidi ' j
Sciolti vagar per Y aere, e altri tanti I
Su per le frondi e macchie tesser nidi, ,
O rassettar col becco li aurei manti. i
Non è poggietto e riva, che non gridi
Lor vari e ben proporzionati canti.
Altri lasciar il volo e al nuoto darsi, j
E in acque scesi d' augei pesci farsi.
Stavami affiso, e nel mirar un dolce
Pensier alto diletto m' apportava, j
Gran cosa il mondo, e più chi '1 guida e molce
Troppo mi parve allor, e, eh' ei non grava
Né r un né 1' altro polo, che lo folce,
E eh' un sì magno artefice Y inchiava.
Né fu mirabil men che de la mente.
Pender lo vidi ad alto incontanente.
Tra nulla e tutto '1 mondo alcun indugio.
Quantunque pargoletto, in Dio non cape ;
Or stracco di stupir non più m' indugio.
Ma volto il passo ad un pratel, che d' ape
Tutto risona, dando a lor riffugio
Sì r aura dolce, come i fior le dape,
Mi si presenta ratto in bella gonna,
Ch' escie d' un bosco, sola e grave donna.
Presta ne' gesti, e di sguardo matura.
Ma più d' augello nel andar spedita.
Ha vesta bianca, gialla, e di verdura,
E ciò eh' encontra tocca e dàlie vita.
Che nulla, a drieto lasciasi procura,
/
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184
Il caos — Selva terza
E sopra giunta ov' era Y infinita
Mandra dell' ape, tutte le ragguna,
E fece lor, non so che, ad un ad una.
Vago di lei saper, non che la causa
Perchè sì or questa, or quella cosa tocchi,
Vadole contro, e poi di farle nausa
Temendo, mi ritrago, e basso gli occhi.
Ella che accorto m' ebbe fece pausa
Con le man giunte al ciel, e li ginocchi
Piegati in terra, e tal parole sciolse.
Che poi finite a me lieta si volse.
NATURA.
V^uel inclito animale d' alto pregio,
Ch' ogni altro avanza e tiensil basso e domo,
Ecco celeste padre santo il nomo.
Se da voi porre i nomi ho privilegio ;
Ma già ti'ovai nel nostro sortilegio,
Che nominar il d(ibba fragil uomo.
Per quel sì dolce e pestilenzie pomo
Cui si nascose il primo sacrilegio.
Ben vedo, che per me, Natura detta,
L' eterno oprar, che destemi, si perde,
E nasce ognor, che mi persegua il tempo.
Onde per eh' ora sia sempre sul verde
Altre staggion veranno assai per tempo,
Che al fine mi trasportai! qual saetta.
DIALOGO.
NATURA E TRIPERUNO.
NATURA.
Opirto immortale, a cui sol alza Dio
La fronte in cielo e fattene capace,
Fk che a me torni udendo Y esser mio.
\
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Il caos — Selva terza Ì85
TRIPERUNO.
I
NATURA.
TRIPERUNO.
D.
/^ Digitized by VjOOQiC
f
o sospicai di troppo esser audace,
Volendo e te sapere e \ opre tue, ii%
Però mi volsi adrieto per mia pace. ^l^
m
i.nzi dal padre destinato fue^
Che sol da T uomo T esser mio s' intenda
Fin a la meta de le fiamme sue ;
Ma che T ottavo cerchio non trascenda,
Se non quando abbia seco parte in cielo . .
E l'alto pegno, donde '1 tolse, renda. ||
Ch'i sia la tua Natura non ti celo.
Da lui fatta del mondo servatrice
Sempre, se sempre dura T uman velo. \ \
■1
'unque sei quella mastra, queir altrice, *!
Queir onoranda madre, quella grande ^;
Di Dio ministra, e del mio ben radice ? . * !"
Ecco se lunge tua beltà si spande, \
0 causa, se non prima almen seconda,
Ecco se chiara sei da tutte bande.
Verd' è la teri'a, gialla, rossa, e bionda ;
Che '1 tuo pennello intorno mi la pinse,
E mi la rese agli occhi sì gioconda.
E '1 ciel ne lodo, e lui che '1 mondo avinse
Di quel forse non mai solubll groppo, \
Ne men eh' ha \ opra nobile t' acinse. ;
NATURA. \
Oaggio animai ! pur son colei, eh' engroppo
Le fila, eh' altri lìi dissopi'a ordisee, \
? 1
1
n
Ì86 Ili CAOS — Selva terza
Lieta ne vò, ma non sicura troppo.
Anzi '\ vivo pensier, che m' addolcisce
Pensando al tuo non pur al mio decoro,
Sento che passo passo in me languisce.
Deh ! non falir, alma gentil, amore,
Che ad esser ti degnò suo dolce obietto,
Dandoli tu, de -cui si pasce, il cuore.
TRIPERUNO.
I
1 cuor a lui gik diedi, e ogni affetto
Ho di seguir e non lasciarlo imquanco.
Per non privaimi del suo bello aspetto.
Non sazio mai, non mai vedrommi stanco
Mentre mi volgo a contemplar ogn' ora
L' amor per cui di gioia mai non manco.
E pur se dubbia sei, madre, ne ancora
Ben stabile considri esser il chiodo,
Battil così, -che mai non esca fora.
NATURA.
Fi
igliuol, gik strinsi a V altre cose un nodo.
Donde sferrarsi quelle non potranno.
Se Dio non le ritorna al primo sodo
A te con li altri, clie saputi vanno,
Diede V alto motor un Hber giovo,
Che, o lor in pregio vegna, o lor in danno.
Però mistier non è, eh' io batta '1 chiovo,
Altro braccio del mio sovente il preme,
Tu stesso il sai che '1 fatto non f è novo.
Raggion, memoria, e Y ontelletto (1) insieme
(l) Il Folengo usa ripetutamente V onteletlo in ambedue le etliziotii
per iìitelelio, ma forse potrebbe essere anclie un errore tipografico, invece 1
di lo *ntelel(o^ e non è improbal)ile che sia così, sia perchè più basso è |
usato intelelto, sia perchè la seconda edizione l'ipete, con mirabile fedeltà
tutti gli errori della prima. I
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Il caos — Selva terza 187
Scescer in te da le soperne idee,
Ch' han di tua libertìi le parti estreme.
Se mai ven-à che centra '1 ben si cree
Pensier in te, non temer, che non senta
Le voglie entrate se sian bone o ree.
Perchè la scorta tua sta sempre intenta
Del cor al varco e sa chi vk chi viene,
Né in darti aviso mai fia pegra e lenta.
Però eh' io sol la rabbia in te raffrene.
Forse tempo verrà che da me impetri
De le stagion di foco e ghiaccio piene.
Che quando sia eh' ei di brumali e tetri
Volgerti il chiaro ciel sosopra miri,
E i monti neve, e i stagni farse vetri :
Nostra in balia sarà, che '1 mondo giri.
Lo qual il tempo adomo riconduca,
E r erbe e fior novellamente aspiri.
Ma non sia eh' alcun serpe mai t' induca
Del arbore vietato accor il frutto,
C ancide altrui se il morde, o se '1 manuca.
TRIPERUNO.
Jl iù tosto il sol feniiarsi, e '1 mar asciutto
Forse vedrò, che mai contra la voglia
Cosa mi faccia di che move '1 tutto.
Ma scoprimi tu già, quando che foglia
Mai senza tuo vigor non penda in ramo.
Quanto sii vaga e bella sotto spoglia.
NATURA.
\ /ual pianta, qual augel, qual fiera piii amo
Di te saggio animai ? Però mie cose
Io più mostrarti, che tu veder, bramo.
Voi dunque freschi rivi, piagge erbose.
Opachi colli, cavernosi monti,
Campi de gigli de ligustri e rose»
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I8è II caos -^ Selva terza
Voi rilevate ripe, laghi e fonti,
Riposte valli, ruscelletti e fiami,
Ch' anco miei segni non gli avete conti.
Anzi del ciel voi fiammeggianti lumi,
Quella verta spandete al uomo nostro,
Ch'ornai l'assenni, e del mio beh l'allumi.
Nel cui servigio mosse 1' esser nostro
Un Dio, però eh' ei sol v' intenda lece,
Al qual taceste un altro piii bel chiosti'o.
Chiostro di tante stelle ornato invece
jy un bel trapunto, ove specchi e gioisca
Le quattro e sette là, qual l' otto e diece.
E quanto su contempla e giù, sortisca
In grazia tal, che l'ontelletto pigli
Non mcn del occhio, e par a lui salisca.
Orsi, tigri, leon, lepre, conigli,
Pantere, volpi, orche, cete, delfini,
Aquile, struci, nottole, smerigli.
Non sia de voi eh' umile non s' inchini
A r assennata fonna, ovunque scoitc
Tra voi platani, abeti, faggi e pini.
Di tutte vostre cause in lui concoire
Una dal sommo ai'tefice criata,
Che al uomo suo voi tutti ebbe •a comporre.
Ma sento già V error : Ahi ! scelerata
Soperbia, che pur 1' uscio trovi aperto,
Ben cara costaratti quell'entrata,
Ch' io vengo il premio compensarti al merto.
TRIPERUNO SOLO.
^e dir volessi a mille e mille lingue.
Se por in cai-te mille e mille penne,
Col senno, eh' ogni groppo ci distingue,
Dramma del sommo ben, eh' allor mi venne,
Dapoi che Y alta donna con le pingue
Di sdegno gote al ciel spiegò le penne.
Direi che tra mortali V esser mio
Saiia non d' uomo anzi terresti-e Dio.
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Il caos — Selva terza 189
Giamai sì bel secreto fu di lei
Ne in erbe^ fonti, pietre, stelle occulto.
Ch'ai subito girar de gli occhi miei
Non mi restasse in Talta mente sculto.
So ben che mille Atlanti, e Tolomeì
De r intelletto, eh' oggi m' è sepolto,
Non sen trarebber una particella,
Perchè saliscon d' una'^ in altra stella.
Ma, lasso ! il chiaro vetro in eh' io solca
Specchiar da fronte i sedi, e poi le spalle.
Per eli' io '1 trovai sì fosco ? perchè Astrea
Pia star non volse meco in questa valle?
Perchè ridir non so quant' io scorgea
Per un angosto ma soave calle ?
Lassando duncjue, anzi alle cose parve
Scendiamo poscia, che 1' altezza sparve.
Spai-ve Natura molto neghitosa,
Mercè che volse a Dio V orgoglio eguai*sp,
I mi fermai sott' una macchia ombrosa.
Mirando 1' ape quinci e quindi sparse,
A sacco porre una campagna erbosa
Ed a vicenda in loco poi ritrarse,
Ove locar di cera e mele vidi
Per cave, querze, i tetti lor e nidi.
Se fu ne grandi corpi molto industre
Natura, ove mirabil officina
Corcò, quanto più panni saggia e illustre
Fingendo Y apa in forma sì picina.
Né r apa sol ; (1) ma ciò eh' umor palustre
Nudrisce, dico, o- riscaldata brina,
Donde sbucarse veggio tarli e culci.
Vespe, cicade, mosche, ragni, e pulci.
Dimmi, tu senso altier, che a tutta puossa
Intender cerchi Dio, né mai lo aggiugni,
Perchè s' han elli sangue, nervi, e ossa.
Sol per sapere noxi te stesso impugni ?
Perchè sottrarsi da qualche percossa
(1) Come più sopra usa ape al plurale, qui per due volte usa aj>a
al singolare.
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190 II caos — Sklva terza
i
r
Lor presti miro, che morte no i giugni ? 1
Segno evidente eh' in tal corpitello
Non men la madre oprò eh' in un ganibello.
Ch' instrusse mai quella solerte vespa
Svenar il ragno,' e trasferirlo al speco,
Dove co piedi e rostro pria \ increspa,
Vj tienlo, poi qual ubvo, in grembo seco.
In fin eh' un figlio in quella tana crespa
Gli nasca d' ale privo, ignudo, e cieco,
Ma di troncate mosche tanto '1 pasce,
Ch' egli già vespa salta fuor di fasce ?
Qual mastro dito al errabondo fuso
Volve di quel del ragno il più bel stame ?
Ch' or suso va così veloce, or giuso,
Nodando per far preda Y alte trame ?
Poi, nella stanza pendula rinchiuso,
Attende, al varco per scemar la fame,
Qual animai vi caschi nelle stuppe,
Che con prolisse gambe raviluppe ?
Ne la formica men sagace parmi,
Ch' ognor s' affanna per schivar il stento.
Di quanta forza veggio che co T armi
E schiene va burlando il gran frumento,
Così nel far teatri grevi marmi
Solsi condur per li uomini al cimento,
Poi r incaverna, e fiedelo col rostro,
Che non s' imboschi dentro T ampio chiostro.
Ecco sen passa d' una in altra forma
Quel vermo onde la seta, for s' elice,
O bel instinto naturai e norma.
Che sanza la sua fila né testrice
Né aurefice ben soi trapunti forma.
Taccio r ovra del candido Bombice
Che dal svelto per pioggia fior di querza
Nasce cangiato in fin la volta terza.
Mille altre spezie de la picciol greggia
Pospongo agevolmente or in disparte;
Segue eh' io solamente T ampia reggia
Del ape contemplando chiuda in carte,
Che '1 magistrato lor forse pareggia,
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Il caos SkLVA ThRZA 191
Se non in tutto il nostro almen in parte,
Sì come • quelle eh' han statuti, e legge,
Ne manca il duca lor, che le con^egge.
Anzi de la più parte da sufFraggi
Lo elletto imperator sostien la verga.
Satelliti, littori, servi, e paggi
Vannogli sempre appresso ovunque perga.
Esso le pene simil ha li oltraggi
Librando va, però non è chi s' erga
Soperbamente contra lui, eh' amando
Temesi un rege più, che minacciando.
Non come Y altre 1' umido mucrone (1),
Annoilo assai sua maiestade, cura.
Mentre la plebe strenua compone
Senza Vetruvio tanta archietettura.
Egli sta sopra, e lor case dispone
Servando, ove convien, modo e misura.
Non escie mai di corte se non quando,
Del popol manda una gran parte in bando.
E se tardarla fusse allor men tosta
Qualche araionia di ferro, o d' altro sono,
L' impulsa torma irebbe assai discosta.
Così dal rege suo guidate sono.
Però Natura voi, che senza sosta
Lor di concento annesti qualche tono,
E 'nsieme le ragguni a nova tomba.
In guisa de soldati al son di tromba (2).
Ma s' io non voglio che '1 mio popol n' esca *^
•Di sue contrade pcir migrar altrove.
Un' ala tronco al capo de la tresca,
La qual non senza lui mai fuga move.
S' ei langue infermo, dangli bere ed esca.
Chi '1 porta, chi '1 sostien, eh' in grembo il fove,
S' anche smarrito errando va per caso,
Vien conto, qual patron, da cani a naso.
(1) In ambedue le edizioni trovasi dato ai mucrone T aggettivo di
timido,
(2) Allude, il Folengo, air uso invalso nelle nostre campagne anche
di presente, di richiamare una qualche famiglia di api, che sia lugita dal-
l'alveare, mediante il suono dei ferri battuti.
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192 II caos — Selva terza
E se di quk di là trovar no '1 sanno
Atlorà per consiglio si delibra
Condursi ad altro duca, e fuor sen vanno
A la cittade altrui, ne alcun si vibra
De cittadini contra, e fa lor danno.
Anzi nel tetto si compensa e libra
Di quanta plebe sia capace, dopo
Né piil, né men li accettan che li è uopo.
Tal volta eh' egli morto caschi occorre,
Pensi chi ama il suo rege qual supplisìo!
Di tutte bande al corpo si concorre,
Gittato a terra 1' util esercizio,
Con lagrime non san elle già sporre
Lor gran cordoglio al funeral uffizio.
Dirò ben veramente aver udito
Strepito d'ale con vocal ruggito.
Se à! ordinato, e regolar costume
Giamai V uso mortai restasse privo,
Puoterlo aver da V api si presume.
Ne r uomo forse 1' averebbe a schivo,
Che stando elle di notte ne lor piume
Se '1 stato per servar, si 1 rege vivo.
La vigil guarda sempre a l'uscio ascolta,
Cascando a queste e quelle la sua volta.
Ma de 1' augel cristato non sì presto
S' annunzia già spuntarse nova luce.
Ecco di tromba un suono manifesto
Fa dar per le contrate il pronto duce.
. S' ode di par il suono : è il volgo desto, .
Al solito lavor che si riduce,
O lieto eh' iq cospetto al rege primo
Va fuora e riede carco sol di timo.
La verde giovinezza è che se 'n fugge
A la riccolta in bande assai longinque.
Chi qua la rosa, chi Jà il giglio sugge.
Chi assale questo fior, e chi '1 relinque.
Fassi gran preda, e Ibla si distrugge
Co r altre terre che vi son propinque,
La turba d' ogn' intorno succia e lambe.
Ne cessan riportar 1' enfiate gambe.
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Il caos — Selva terza 193
Ma de le più attempate un stomo arguto
Col suo signor in rocca stassi a V ombra,
Cui per ufficio vien locar in tuto
La robba, che portata il tetto ingombra:
Depor i fasci a parte dan aiuto,
Parte già leve a la campagna sgombra.
Tanto al divin servigio, a Y uman gusto
Di piacer brama im vermo si robusto.
Tar ora un vento subito, quantunque
Del tempo sian presaghe, di tranquillo
Così molesto vien, che scossa ovunque
Si pascon elle in fin l'umil serpillo.
Ecco la madre le ha proviste dunque,
Che toltosi ne' piedi alcun lapillo,
Van' elle poco del gran vento in forza.
Librando qual nochier il volo ad orza.
Ed anco se la notte per la loro
Molta ingordigia d' acquistar le assale.
Raccolte insieme quasi in concistoro
Le gambe al ciel, e 'n teri'a posan Y ale.
Che de le stelle il rugiadoso coro
Le avinge sì, che poco il volo vale.
Se non s' indrustran starsene sopine
Tutta la iiotte ad aspettar il fine.
Taccio le nitrici guerre, eh' a le volte
Tra r un vicino rege e Y altro fansi.
Tu vedi tante squadre intorno accolte.
Che poscia a tor la vita irate vansi,
E se ritornan parte in fuga volte,
Ritrandosi lor duci fiacchi e ansi.
Parte seguendo vittoriosa gode,
Ne altro che plausi, e voci liete s' ode.
Indi iattura tal, se non dissolve
L' agricola prudente lor litigi
Col importuno fumo, e secco polve.
Vi nasce, che la morte ai campi stigi
Là parte vinta e la vittrice involve.
Oh grandi spesso al stato uman prodigi,
Che de lor code mandon Y alte spine.
Cui per grand' ira seguon l' intestine.
13
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194 II caos — Selva terza
La vile mandra de' pannosi fuchi
Trovan sovente starsen al presepe,
Ove cosa non è che non manuchi,
Ma poi nel laticarse pegra tepe.
Tu vedi lor scacciati esser da buchi,
E morti far in cerco folta sepe,
E il simel fan de Y apa tarda e pigra,
Glie uccisa vien s' occulta non sen migra.
Tra gli diversi lor nemici e morbi
Come, vespe, carboni, e rondinelle.
Ragni, lacerte, acqua de stagni torbi,
Puzzo de cancri, culici, mustelle.
Par che la rana più le affanni e storbi,
Perch' ella coltra i brandi lor lia pelle
Non men sicura, e di maggior fiduccia
Del ferro al colpo d' una fral canuccia.
Ecco mirabil vermo, che disopre
. Li altri animali, non pur dico insetti,
Ma quanti piuma, squame e lana copre,
Esser fatto, mirai, per santi effetti,
Tra quai conobbi le lodevol opre
Di cera, drento ai cristiani tetti.
Ove non ben di notte Dio si cole,
Se mancavi di cere acceso il sole.
D'altri animali, dicovi, seguendo
Tenni le cause d'infalibil prova,
Ma quante rimembrar in me contendo
E porle inanzi a voi nulla mi giova.
Così vols' il mio fallo, che s' io spendo
Per risaper ciò, eh' in Natura cova
Il tempo invan, ne pianga giustamente,
E faccia come quel, che tardo pente.
Di poggio in piano, di campagna in selva,
(xiravami qua! spirto, che di gioia
I*ascendosi Ut su per V ampio ciel va,
Né mai cosa v' incontra che lo annoia.
Qual orso, qual leon, qual altra belva
Restò venirmi, non che desse noia.
Scherzar intorno, e dentro le lor saune,
Prendermi leggiermente ambo le spanne ?
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Il caos — Selva terza 195 <
Palpava 11 dorso al tigro, come solsi
Far d' un cagnolo, o d' altro picciol pollo.
Cornai le sete a li apri, e mi ravolsi jì
Le vipere a le braccia, al capo, al collo, J
Li augel al pugno e pesci al lido accolsi, . :>i
Ne de mirar li venni unqua satollo,
Poscia mi volsi a la man dritta come
Sopra mi disse quel dal dolce nome.
PARADISO TERRESTRE.
TRIPERUNO.
i
iJopoi che sopra e sotto '1 ciel uscirò J
L' opre del summo artefice sì belle,
Né molto spazio andò, che V empio e diro ^
Popol de li demon fu da le stelle
Bandito al centro basso, ove perirò.
Con r ombre eternamente al ciel rubelle,
Su r uomo Dio fondò stabil disegno, ^
Ch' empir di novo avesse il vodo regno.
Nò più son pesci in acque, né piti foglie ^
In selve, come in ciel private stanze.
Però Michel, poi eh' ebbe Y atre spoglie
Di Pluto trionfando su le lanze
Sospese a i tetti, ove V onor s' accoglie.
Discinto il brando e tolte le bilanze.
Venne qui giù per farvi, non più guerra.
Ma sol un paradiso a V uomo in terra.
Qui, di soperba fatta invidiosa
La greggia de cornuti negri, quando V
Questo antivede, cruda e neghittosa.
Ripiglia contra noi Y occulto brando,
I dico brando occulto a più dannosa
Nostra ruina, e sempre va celando j
Quinci quel vischio, quindi quella pania, '
Tanto che la più parte avinge e lania.
Piantato dunque in terra un paradiso
Da r angiol fu di Dio, detto Fortezza,
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É'
196 II caos — Selva terza
r
Luoco non privo mai d' onesto riso,
De suoni, canti, giochi a gran dolcezza.
Quivi trovai pur anco V aureo viso
Di quel lesù, che T amorosa frezza
Nel cor m' immerse prima, e seco poscia
PortoUo, me lasciando in dolce angoscia.
Su ne le pii\ levate cime, donde
Febo riporta il matutino giorno,
Un monte, eh' ha inaccessibil sponde
E cento millia passi volge intorno.
Vidi, che al ciel lunar il capo ascende,
E par che tocchi e' piedi a Capricorno,
Là fui chiamato d' una nebbia scura :
Vieni oggimai, o santa creatura.
Suso mi portò, ed ecco alte muraglie
Vidi luntano con quadrata cinta
Serrar de poggi, e campi e di boscaglie
Una provincia in più parti distinta.
Ma quello muro quasi mi abbarbagUa
La vista, dal suo lume resospinta,
Mercè eh' era cristallo e oro, intorno
Di perle e tutte T altre gemme adomo.
Or su per quel parete schietto e fino
Vidi eh' avean Michel, e Rafaele
Non r urbinato, dico, o '1 fiorentino,
Ch' or lascian dopo sé gran loda in tele,
Depinto per mio specchio il fier destino
Di Lucibello, a sé stesso crudele,
Che bello ti'oppo a sé medemo, d' alto
Prese co gli altri un smisurato salto.
u
LA PORTA.
omo! che vedi a quanto onor ti degna
L' altissimo fattore,
Or entra ad obedirlo, acciocché '1 cuore
Da te giìi dato in giazia ti '1 mantegna.
Ma ne la gioia tua, eh' avrai sì lieta,
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.^4ÌSlÀ
Il caos — Selva terza 197
Fa, che Y afireni accortamente, cui
Non repugnando proverai co 1 male
Quant' era il ben anzi che 1' un di lui
Pomi gustassi. Che se Dio ti 1 vieta.
Toccar non dèi, per non venir mortale.
Dal serpe il piede e dal legno fatale
Se non vieti la mano.
Ecco d' un legno more il ceppo umano,
E un legno per sua croce Dio non sdegna.
TRIPERUNO.
\iueste parole trapuntate in oro
Sopra la porta, in un bel smalto lessi ;
Ma i fregi, e gli archi, e ornamenti loro
Sono di fine gemme carchi e spessi.
Entrovi lieto per sì bel tesoro,
E in cerchio con le mani esser rannessi,
D' angioli pargoletti e nudi un stolo
Vidi scherzando volteggiarsi a volo.
E su per merli e for de gli balconi.
Quei di diamante e questi di cristallo
Miir altri con diversi canti e suoni
Muoveno d' altri tanti un Hetg ballo :
Arpe, lauti, citere, lironi,
Senza mai farvi punto d' intervallo,
Addolciscon le orecchie d' uditori
Al nome, eh' hanno impresso dentro i cuori.
Al dolce nome sovra ogni altro grato,
Nome amoroso, nome aureo e suave,
Nome del mio lesù forte, sacrato,
Nome di grazie ponderoso e grave.
Non è macchia, sì lorda di peccato.
Che '1 dolce nome di lesù non lave.
Nome che chi lo noma in spirto, sente
Mordersi '1 cuore d' un pietoso dente.
Quivi se non in danze e giochi stassi.
Danze pudiche, giochi allegri, onesti.
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198 11 caos — Selva terza
Chi su le penne, chi su lievi passi
Que' leggiadretti spirti modesti
Scorron il bel giardino, or alti or bassi,
Quelli de' boschi per le cime, questi
Per le fiorite piaggie, e verdi prati
Succinti, o in bianche stole, o nudi alati.
Altri con reti d' oro i pesci snelli
Tranno di questo rio, di quello fonte;
Altri tendon guazziarsi ne' ruscelli
Chi pie, chi man, chi V ale, clii la fronte.
Altri celan archetti ai vaghi augelli.
Per macchie e ripe, o sotto, o sopra un monte.
Altri scaccian de' boschi e folti vepri
Dame, conigli, cervi, capre, e lepri.
Vidine molti ancora, con bei freni
Di seta e oro, stringer lioncorni;
Chi li rallenta il morso chi '1 sostiene
Con lievi sbalzi e volgimenti adorni.
Franguelli, piche, merli, e filomene,
Con papagalli, rondinelle, e storni,
Volan di ramo in ramo, a schiera a schiera,
Cantando la sua eterna primavera.
Eterna primavera qui verdeggia,
Che 'n le catene il tempo giace altrove.
Aprile quivi e marzo signoreggia.
Né mai da 1' ombre zefiro si move.
Per cui soavemente sempre ondeggia
L' altezza de colline e poggi, dove
Pini, cipressi, querze, faggi, abeti,
Addombrano vallette e campi lieti.
Quivi onoratamente fui raccolto
Da duo barbati e candidi vecchioni,
U uno fu Enocco, e 1' altro che, distolto
Di terra ascese in ciel fra spirti boni,
Quando Eliseo videlo nel molto
Foco volar a 1' alte regioni ;
Questi con lieto volto m' abbraccialo.
Mostrando il mio advenir quant' ebber caro.
Vado fra loro poscia, lento, lento,
Favoleggiando verso il gran palaccio,
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Il caos — Selva terza 199
Ecco quegli angioletti, a ti'enta, a cento
Lascian, chi Y arpa, chi 1 danzai-, chi '1 laccio,
E vengono assaliiini in un momento.
Con im soave intrico e dolce impaccio.
Perchè mi cercan gli omeri, la testa,
Di sua leggera salma e fanno festa.
Entrano ne Y adoma e ampia stanza.
Non men di quelle del signor mio bella,
Bella e gioiosa for d' umano usanza,
Qual oggi a Marmirol si rinovella,
E qual li ombrosi campi sovravanza
In Piettoli sul chiaro Minzio, e quella
Ch' enti-o Y antiqua ten'a di Gonzaga
Mostrarsi al viatore tanto vaga.
Trovamo un spacio quadro d' una liscia
Piazza de marmi lustri e altre pietre.
Ove nel mezzo la fatale biscia.
Come sotto acqua fanno le lampe tre,
Sdrucciola quinci e quindi, ma non fiscia.
Che '1 capo ha di dongiella, e par eh' impetre,
Col vago suo sembiante, che chi passa
Subitamente al suo voler s' abbassa.
S' abbassi tostamente a la sua voglia
Di por le mani a quel vietato ramo.
E dispicarne il frutto, onde la doglia
Succede poscia al vostro interno Adamo,
Lo qual non mai si vede senza spoglia.
Se non dapoi che Y esca di quel amo
U attosca sì, che morto ne rimane.
Fin che T rilevi poi lo empireo pane.
Quel pane dolce bianco e immortale
Che pasce in ciel Y angelica famiglia.
Non è morbo, né peste sì mortale,
Che questo pan salubre a chi se 1 piglia,
Con salda fede, no '1 risani, quale
Fu de' leprosi già la meraviglia.
Ma guardesi chiunque indegnamente
A un sì soperbo cibo admove il dente.
Soperbo cibo, che d' umilitade
Profondissima sorse in mia salute;
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""^J^
200 II caos — Selva terza
Soperbo cibo, ove V alta bontade
Corcò d' erger e morti la virtiite, (1)
Soperbo cibo, il qual con veritade
Convien che 'n corpo e sangue si trasmute,
In corpo e sangue del umano Dio,
Che disse: or mannucate il corpo mio.
Ma come egli togliesse il grave assonto
In sé d' ogni mia colpa su la croce,
Avrovi a dir col tempo s' io m' affronto
A un stil piti grave, e non pii\ che veloce,
Che, se d' altri concetti al giogo monto
[• Col senso, non sussegue poi la voce
1^' Se non debil inferma, come chiaro
Si vede ch'io non so, ma tardo imparo.
Vedrò, se 1 debil filo non si taglia,
Nel mezzo del camin di nostra vita,
Quel raggio, eh' ora il senso m' abbarbaglia
I Con \^sta piti vivace, e pih spedita.
[ De' bianchi e negri spirti la scrimaglia
Ben tengo de le muse al monte ordita^,
Ma eh' abbia se non tutto almen in parte
1 Di Lodovico attendo il stile, e 1' arte. (2)
t Non piti Merlino, Fulica e Limerno
\ Oltra sarovvi, ma sol Triperuno.
! Tratto son oggi mai di quel niferno
I ' Ove chi faccia ben non vi è sol uno,
I Per te lesù, per te vedo e discerno
' Esser del cibo tuo sempre dcgiuno,
i . Ed ingannato al fine si ritrova
'^ Chi lascia la via vecchia per la nova.
; FINISCE LO CAOS
: DEL TRIPERUNO
t
(1) In ambedue le edizioni si legge questo verso, ma che eredo sba-
; gliato, non dandoci alcun senso. Credo invece sia da leggersi cosi: Cerctì
adergere a* moi^fi la virtude.
(2) In queste stanze ripete il proposito già espresso pid addietro, a
■^ pag. 167, stanza — Scorgi la man di scrivere intorno a Cristo, una
difatti scrisse poi il poemetto: Della wnanilà di Cristo,
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DE AUREA VRNA
QUA INCLUDITUR EuCHARISTU.
U.
Irnula, quam gemmis auroque nitere videmiis,
Quseritur angusto quid ferat illa sinù?
Haud, ea pestifero Pandorse infecta veterno
Intulit omnivagas orbe adaperta febres?
At pretium, quo non aliud pretìosius, ìpsa baec
Quod rerum amplexus non capit, ui'na capit.
MIRA PUORUM
AMICITIA.
F
ortius an posset domus A rdua calce tener I,
R oboraque an piceum fii* M a ratis oblita glute N,
A rtius, amborum, ut vide 0, se vestra catheni S
N ectere amicitise tum R arse pectora? et alt O
C olle fidem vestram stabile E rrexisse tribuna L ?
I nstat enim quercum dum T aurus veliere corn V,
S axaque spumosis in F luctibus ardua dum su B
C autibus unda quatit, magis I ma e sede mover I
O mnia tunc possent, quam D ivum haec unio, qua ni L
R ectius humanis viget, E t ferit aethera land E,
UM braque post cineres con S tat per secula grandi S.
DE GEORGIO ANSELMO.
G
randi vectus equo ruit E cce Georgius, hast A
E rrecta in colubri le T hum, cui guttur et ingue N
0 ra per abrumpit tam in D ignos virginis artu S
R egalis bibitura, quod E t tibi nomen honosqu E
G loriaque obtingit, iacu L is cum Phoebe nigrum fé L
1 ngentes per agros furis I n pytona vomente M
V atem ergo ad tantum facit U num id nomen, ut act V
S it prò eodem phsebus ver S u, tituloque Georgiu S
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202
TUMULUS. M. C. C.
F
elicem ingenio, Un G iia, patria, patre,Mai-cuM
I mmatura seccat mors E cce, tuumque sub are A
L umen obijsse gemis stirps, O Cornelia, nec cu R
1 ngratsB possis te R orna? credere post ha C
V ideris : ipse quidem dum G rato ad maxima vult V
S ceptra galeratus volat, I tur S(l)
A l' integerrimo signor Alberto da Carpo.
Signore mio ! F altissima cui fama
Sin oltra 1 ciel ottavo s' alza e gira,
Amor mi sprona e la ragion mi tira
Dir quanto in terra ognun v' onora e ama ;
E mentre son per addempir mia brama,
Giungendo rime al son di bassa lira,
Mi resto e dico: Ahi! mente mia delira,
Che gir ti credi ove '1 desio ti chiama.
Chi salirà tant' alto ? ne la lingua
Di Tullio, e di Vergilio l'aurea tromba
Potria montar di sua vertude al giogo.
E pur, come che '1 stile mio soccomba
A queir altezza tanta, non si estingua
Di lui cantar un desioso fuogo.
Ad un altro Alberto da Carpo
di tal nome indegno.
LIMERNO.
G
4aro Geraiano. Potriati facilmente pervegnire a le
orecchie, che favoleggiando noi Fulica e Triperuno in-
(1) In ambedue le edizioni vi ha questa lacuna nel finale deirultimo
verso, che io non saprei come riempire.
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203
sieme ed io con loro de la miracolosa dottrina de uno
asino, mi occurse adducerti in testimonio o sia essempio
di coloro, li quali non sapendo parlare, si intromettono
temerariamente fra gli saputi e savii uomini a ragionare
de li altrui fatti e costumi, volendosi elli, con lo biasmar
altri, mostrarsi di qualche onore e reputazione degni. E
perchè tu da me ti chiamerai forse oltraggiato essere e
vituperato, ti rispondo nauti tratto, che con Y altre tue
bone condizioni, matto ancora ti mostrerai, quando in te
non voglia patire, quello che in altro giamai non cessi
adoperare, io dico ne l'altrui fama e onore. Dimmi, uomo
dapocagine, che tu ti sei, con che ragione, con che giu-
stizia, con qual caritade tu con queir altro, che fiorentino
si fa, Sebastiano puzzabocca, e con altri toi simili fur-
fanti, a li quali ben sta quella sentenzia del mio barbato
Girolamo, possideiit opes sub paupere Ckristo, quas sub
locuplete diabolo non habuerint^ per qual, dico, necessaria
cagione non mai vi straccate di cercare far danno ne la
fama ed onore del giovene innocente Triperuno ? In che
cosa egli vi offende, diavoli che voi siete ? Ah maledetta
rabbia di questa invidia! come se indraca più, come se
invipera nel sangue innocente, perchè sa, perchè vede (1)
lui aver posseduto di libertade lo paradiso terrestre, de
lo evangelio la luce anti smamta, d'un orso mansuetis-
simo la grazia. Roditi dunque da te istessa, o conscienzia
diabolica, la quale per tua soperbia, lo perduto seggio a
l'uomo esser donato vedi. Lasciatelo stare in vostra ma-
lora, arrabiati cani, che egli non pur non vi offende, ma
si sdegna pensar così bassamente de voi, malvagi e invi-
diosi spirti, non tutti dico, non tutti appello, anzi lodo
e reverisco li uomini quantunque rari conscienzienti. Ma
tu, Alberto, al quale un tal nome di quello non pur ac-
costumato e saputo signore, ma profondissimo filosofo
così conviene, come ad uno asino la sella d' un bel de-
striero, per mio consiglio studiati avanti di meglio raf-
(l) Nella prima edizione si legge nede, nella seconda ne de che io
reputai sbagliato e T uno e V altro, e che fossero invece di vede, colla
quale parola si ha il senso chiaro e netto.
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204
frenar la lingua, che non facevi lo tuo cavallo gi'osso,
al temjK) de le barde, essendo soldato vecchio; che noi
facendo, mostrerotti una penna di oca piti eloquente es-
sere, che la lingua d' uno baboino. Guardati.
Finito di stampare nel Marzo del 1889.
/''H
.M.^
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/
INDICE
DEL TERZO VOLUME DELLE OPERE MACCHERONICHE
DEL FOLENGO
DELL'ORLANDINO.
I. — 1. La pubblicazione dell* Orlandino e del
Caos. - 2. Ragione ed importanza della
pubblicazione , • . P^m* m
IL — 1. Il soggetto del poemetto. - 2. Quando e
perchè il Folengo lo compose. - 3. Dell' in-
venzione, dello stile e della lingua ...» v
IH. — 1. Della presente edizione. - 2. L'Apologia
dell' Orlandino. - 3. Nota bibliografica , » xxviii
DEL CAOS.
I. — L Cosa è il Caos. - 2. Il frontespizio. - 3. ^'
Quando fu scritto e stampato. - 4. delle
due edizioni » xxxiv
IL — 1. L'intento, il concetto e il carattere del
libro - 2. I personaggi. - 3. Dell' interpre-
tazione del Ca^s. - 4. Dello stile e della
lingua. - 5. Della presente edizione ...» xxxviii
IH. — 1. Il Dialogo delle Tre Etadi » xlvii
IV. — 1. Della Selva prima - liv
V. — Della Selva seconda. - 2. Delle tre regioni
allegoriche, la Matotta, la Carossa, la Pe-
rissa. - 3. Del centro e della fine del Caos » Lviii
VI. — 1. Della Selva terza » lxxviii
VII. — L II costrutto del Caos » LXXXiil
VIII. — L Degli Studi sul Folengo' e sulla mia
Edizione > cu
IX. — 1. La Cipadense » cxvii
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i
à.
)
L'ORLANDINO
Capitolo ] pag. 3
Id. 2 » 20
Id. 3 » 39
Id. 4 > 61
Id. 5 , . . » 80
Id. 6 » 101
Id. 7 ' . . . . » 116
Id. 8 » 134
Note . » 159
IL CAOS
Il Dialogo delle Tre Etadi . . . , » 3
La Selva Prima » 17
La Selva Seconda » i9
La Selva Terza » KU
Epigrammi » 201
Lettera ad uu altro Alberto da Carpi ... > 202
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